Ha scritto un agile libretto ,"23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo" (in Italia tradotto dal Saggiatore, ndr) disseminandolo di gustose provocazioni intellettuali. Per esempio che «il libero mercato non esiste», che «i Paesi poveri sono più intraprendenti di quelli ricchi» e che «la lavatrice ci ha cambiato la vita più di Facebook». Adesso sta lavorando a un manuale di economia per la gente comune: «Così, per farsi trovare preparati e non bersi ogni frottola che passa».
Ha Joon Chang è un economista di quelli tosti. Colto, scattante, cordiale, il quarantottenne coreano docente di economia dello sviluppo a Cambridge è considerato tra i critici più lucidi della globalizzazione e del neoliberismo. Una testa controcorrente, eppure capace di conquistarsi le lodi di un Martin Wolf, l'autorevole columnist del 'Financial Times', così come del Nobel Joseph Stiglitz. Chang lavora in uno studiolo intasato di libri, al primo piano di quella che fu la vera cittadella del pensiero keynesiano. Un paradigma che si guarda bene dal rinnegare anche in questa conversazione con 'l'Espresso'.
Partiamo dall'attualità. Il destino della Grecia è segnato?
«Probabilmente dovrà uscire dall'euro. Dubito che i tedeschi faranno abbastanza concessioni da rendere attraente una permanenza nella moneta unica. Altri tre anni così la società ellenica non li regge».
Ma visti gli scenari dell'eventuale svalutazione della dracma non sarebbe meglio provare a restare?
«In linea di massima sì, se il pacchetto di salvataggio fosse genuino. La California, uno Stato che vale un quarto dell'economia americana, è praticamente andata in bancarotta. Se gli Stati Uniti possono sostenere il loro Stato più grande, perché l'Europa non può aiutare la Grecia, che vale il 2 per cento del suo Pil?».
E secondo lei?
«In giro c'è troppa ipocrisia. Ha presente il detto 'Bisogna essere in due per ballare il tango'? In Corea diciamo che servono due mani per un applauso. Se è vero che i greci (e gli spagnoli, e gli italiani) si sono certamente indebitati troppo ci sarà qualcuno che gli ha fatto credito. Di solito banche tedesche, francesi e svizzere».
Vuol dire che c'è troppo accanimento verso la Grecia? I debiti non sono un'invenzione.
«Dico che quando un'azienda è insolvente di solito si aprono delle procedure per evitare il fallimento, c'è il tentativo di farla ripartire su basi solide. Ma la Grecia viene tenuta sul filo, con misure che palesemente non rilanciano la crescita e la affondano in una spirale recessiva».
Sostiene che finora la regola è stata Keynes per le banche, Friedman per i popoli?
«E' esattamente così. Le banche vengono salvate ma non si prendono nessuna responsabilità, la vita è diventata troppo comoda per loro. Invece dobbiamo applicare gli stessi standard. Per esempio: non condanno il "quantitative easing" (le iniezioni di liquidità da parte della Bce, ndr) ma perché non dire: vi diamo questi soldi a patto che ne prestiate almeno un tot alle imprese e ai privati?».
Ora l'austerità è sotto tiro dopo la vittoria di Hollande.
«Bisognerebbe recuperare il buon senso e il pragmatismo».
Ma il 'fiscal compact'deve essere ratificato dai Parlamenti o cambiato?
«Uno schema di rara stupidità. Chi dice che il 3 per cento di Maastricht, o addirittura lo 0.5 per cento adesso, è un tetto desiderabile per il deficit? Se almeno dicessero zero sarebbero più coerenti. Ammettiamo di condividere - e io non la condivido - l'impostazione che il bilancio debba sempre essere in pareggio. Ma perché non considerare il ciclo economico come base?»
I liberisti accusano voi keynesiani di essere irresponsabilmente pro-debito. E poi se lo Stato è inefficiente perché non farlo dimagrire?
«Sfortunatamente molti non hanno ancora capito Keynes. L'argomento del deficit può essere corretto da un punto di vista individuale ma quando si guarda all'intera economia la spesa di uno è sempre il guadagno di un altro. Un conto sono le spese improduttive, un altro il Welfare o gli investimenti che aiutano a crescere. Dimenticano che paesi come la Svezia, con quel livello di tassazione e si welfare, mediamente sono sempre cresciuti più degli Stati Uniti».
Perché dice che il 'libero mercato' è una truffa?
«Perché ogni sistema economico ha bisogno di regole. Il problema è quali si scelgono. Quando misero dei paletti al lavoro minorile ci fu chi protestò per l'assalto al libero mercato. Oggi dietro l'ideologia liberista c'è di fatto chi vuole massimizzare il potere dei soldi. E una mentalità anti-democratica: se la democrazia è una testa un voto, un mercato senza regole è un dollaro un voto».
Non sosterrà mica che il mercato va abolito?
«Assolutamente no, il socialismo ha fallito e il capitalismo come scrivo nel libro parafrasando Churchill, è il peggior sistema eccetto tutti gli altri. Ma la struttura di un mercato è sempre negoziabile, determinata dalle convenzioni sociali».
Non è stato fatto già qualche passo avanti?
«Questa crisi non si risolve con ritocchi marginali. Serve un cambio radicale di prospettiva. Le banche devono essere regolate, la finanza rallentata, servono restrizioni ai movimenti degli azionisti. Aumentare solo la riserva di capitale per le banche può aiutare, ma non cambia il quadro di insieme».
Lei critica la turbofinanza. Non ha reso più efficiente il sistema?
«La finanza deve essere più liquida degli altri mercati, è indispensabile che sia più veloce per guardare avanti, ma il gap oggi è troppo alto. Gli algoritmi computerizzati possono spostare montagne di denaro in un nanosecondo, mentre per far crescere un'azienda ci vuole il sudore di un decennio. Negli anni Settanta la durata media di una proprietà azionaria era 5 anni. Oggi siamo a 7 mesi».
In Inghilterra è scoppiata la 'primavera dell'azionista'. E' un bene?
«Certo, è positivo che quegli amministratori delegati per troppo tempo isolati nelle loro bolle di superbonus siano costretti a scendere coi piedi per terra dalle stesse forze del mercato. Ma occorre riconoscere che troppo spesso c'è stata negli ultimi anni un'alleanza insana tra azionisti e manager a scapito degli altri stakeholder: lavoratori e fornitori dell'indotto i cui redditi sono stati spremuti».
Perché l'Asia corre? Il futuro è il capitalismo di Stato cinese?
«Il segreto di questi Paesi, la Cina ma anche stati liberi come la Corea del Sud, è che hanno trovato il modo di fare investimenti di lungo periodo, pensi alle infrastrutture, proteggendo il mercato interno. Nel 1955 gli Stati uniti producevano 7 milioni di auto, e la General Motors la metà. Nello stesso anno le industrie giapponesi arrivavano a malapena a 75mila. Guardi lei qual è il quadro ora. L'industria giapponese è stata protetta inizialmente dalle tariffe e la finanza gli ha dato tempo per crescere».
Parlando di segreti del capitalismo lei dice pure che l'educazione non è un passaporto per la ricchezza e il protezionismo non sempre un male. Conferma?
«Attenzione: non sono contro l'educazione che è un mezzo fondamentale per la realizzazione di sé. Avverto che per generare crescita deve essere in linea con la struttura produttiva di un Paese. Quanto al protezionismo: sì, non ho paura di ripeterlo. Ci servirebbe un protezionismo asimmetrico: pochissimo per i Paesi più avanzati, di più per quelli in via di sviluppo. Invece impera il doppio standard di quelli che ho chiamato "i cattivi samaritani" ».
Cioè?
«Pretendono che tutti si aprano al libero scambio. Ma dietro gli slogan cdi questo trentennio c'è sempre il consenso dei potenti. L'idea individualista di chi si aspetta il peggio dagli altri e il meglio da sé. I socialisti sbagliavano a dire che la società è responsabile di tutto. Ma non credo nemmeno alla favola di Disney per cui se veramente vuoi ce la puoi fare. Le cito una battuta di Warren Buffett: 'credo che la società sia responsabile di molti dei soldi che ho guadagnato. Se mi cacciaste in Bangladesh o in qualche altro posto, scoprireste quanto può produrre questo talento nel terreno sbagliato».