Dal caso Mps a Finmeccanica, da Saipem a Ilva, la cronaca recente è un bollettino di guerra. Ma perché i comportamenti dei manager si sono così deteriorati? Per paura della concorrenza e troppa vicinanza ad amministratori pubblici e partiti

La Guardia di Finanza che perquisisce le abitazioni dell'ex presidente, Giuseppe Mussari, e dell'ex direttore generale, Antonio Vigni, all'interno dello scandalo Monte dei Paschi. L'arresto di Giuseppe Orsi, amministratore delegato di Finmeccanica, con l'accusa di corruzione internazionale. In ballo, una tangente da 50 milioni. I 197 milioni che alcuni manager SAIPEM, controllata Eni, avrebbero pagato a funzionari algerini per ottenere collaborazioni (e remunerazioni illecite) dalla compagnia petrolifera di Stato, Sonatrach, con Paolo Scaroni indagato. Il figlio del patron dell'Ilva, Fabio Riva, che scappa a Londra accusato di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale (intercettato, aveva definito una «minchiata» un «paio di tumori in più all'anno»). A marzo si discuterà la richiesta di estradizione. Ma anche l'arresto di Angelo Rizzoli per un crac da 30 milioni di euro, tra debiti verso l'erario e organi previdenziali. E quello di Alessandro Proto, volonteroso acquirente di Pubblico, il defunto quotidiano di Luca Telese, così come di quote del Fatto Quotidiano e addirittura della sede storica del Corriere della Sera in via Solferino. Alle critiche del giornalista Gianni Barbacetto ha così risposto, tra un insulto («Barbacetto dei miei coglioni») e l'altro («frustrato di merda»): «Mi dia qualche settimana e mi compro il giornale e la mando a pulire i cessi».

Ed è solo la cronaca degli ultimi giorni. Perché, a guardare al passato recente, ci sono la disastrosa gestione del caso Alitalia (potrebbe costare allo Stato fino a due miliardi), le «mosse poco lungimiranti ed estremamente costose» (il Sole 24 Ore) che hanno affossato Seat Pagine Gialle, il crac Parmalat, l'estate di Bancopoli finita in decine di indagati, lo scandalo Banca Popolare di Milano (coinvolto l'ex presidente Massimo Ponzellini). E chi più ne ha, come si dice, ne metta.

Fatti che, tutti insieme, sembrano indicare che qualcosa si è irrimediabilmente rotto nel capitalismo italiano. Nei comportamenti e di conseguenza nei risultati. Lo sostenevano, del resto, già nel 2008 due esperti della materia, i giornalisti Giorgio Meletti e Gianni Dragoni. Ne 'La paga dei padroni', scrivevano: «Benché le famiglie dei 'salotti buoni' appaiano ancora protagoniste in ampi settori dell'economia, si sta affermando la convinzione che un certo modello dell'imprenditoria nazionale sia ormai sconfitto, già superato dalla lenta, inesorabile trasformazione del mercato finanziario». E le conclusioni di 'Confiteor', il lungo e dettagliato colloquio tra l'ex vicedirettore del Corriere, Massimo Mucchetti (ora candidato al Senato per il Pd) e il banchiere Cesare Geronzi pubblicato recentemente da Feltrinelli, non sono molto distanti. Il «capitalismo delle reti» è a un punto di rottura. Ma è una questione strutturale o è dovuta al fatto che gli italiani, quelli che ricoprono incarichi dirigenziali nelle più importanti imprese del Paese, sono cattivi capitalisti?

«Io credo che gli italiani siano buoni capitalisti», risponde l'ex direttore dell'Economist e autore del recente (e contestato) documentario sul nostro Paese 'Girlfriend in a Coma', Bill Emmott: «che siano bravi a creare aziende, gestirle, creare situazioni profittevoli. Ma la ragione per cui su verificano così tanti scandali è che lo Stato e la politica sono così potenti che uno dei modi in cui i capitalisti italiani producono profitti, fanno funzionare le loro imprese, hanno successo e si rendono immuni alla competizione è lavorando a strettissimo contatto con la politica, con lo Stato, con le autorità che fanno le regole. Perché è lì stanno che profitti e benefici». Del resto, prosegue Emmott, «cos'è il caso Mps? È un caso di dominio e sfruttamento politico di una banca. Cos'è il caso Ilva? È il caso di una impresa dell'acciaio privatizzata che si accorda con il governo regionale per fare in modo di evitare di dover seguire le linee guida ambientali in ambito europeo».

Insomma, è il contesto a fare l'imprenditore ladro. Anche se la spiegazione, ammette, sarebbe semplicistica: «le colpe vanno condivise tra politica e classe imprenditoriale». Una classe imprenditoriale il cui principale difetto è stato ed è «il desiderio di evitare la competizione, facendo affari con il governo, perfino con la mafia. E non abbracciare quella che è l'essenza del capitalismo: la concorrenza». Per Emott, la soluzione è proseguire sulla strada inaugurata negli anni '90: privatizzare. Solo in questo modo, sostiene, sarà possibile rompere l'intreccio malato tra politica ed economia.

Stefano Sylos Labini, autore di una recente analisi della crisi finanziaria insieme al decano Giorgio Ruffolo ('Il film della crisi', Einaudi), è di parere opposto. Pur condividendo la diagnosi di Emmott, formula una terapia diversa: «Vorrei più imprese pubbliche e banche pubbliche. Però sganciate dai partiti, che generano corruzione». Più facile a dirsi che a farsi. Perché l'Italia non è certo un Paese dove mancano le regole. Il punto è che troppo spesso si riesce ad aggirarle, o non è chiaro come si possano applicare. Senza contare che la questione travalica i confini nazionali: «Lo si è visto nello scandalo Libor ed Euribor», argomenta il ricercatore ENEA, «in cui si è scoperto che le grandi banche controllano il tasso di interesse interbancario. E dunque il mercato. Lo stesso quando una grande impresa energetica fissa il prezzo della benzina: le altre si adeguano, questo è il meccanismo dell'oligopolio. Poi è difficile accusare di aver formato un cartello, dal prezzo della benzina al tasso di interesse sui prestiti». Se si aggiungono strumenti finanziari sempre più complessi (per esempio, i derivati) e i cui scambi avvengono in buona parte in pochi millisecondi in modo automatizzato tramite algoritmi, si capisce quanto sia difficile controllare che il capitalismo rispetti le regole, e dunque sia un 'buon' capitalismo. Anche qualora ci sia la volontà effettiva di controllare.

Secondo Sandro Trento, ordinario di Strategie d'impresa e autore de 'Il capitalismo italiano' per il Mulino, siamo giunti a un punto in cui «non si tratta di modificare questo o quel dettaglio, ma di cambiare modello». Fermo restando che la mancanza di una «classe dirigente adeguata», come si legge nel volume, ha radici antiche, che affondano nella «debolezza ab origine della élite liberale nella fase di formazione dello stato unitario», in un «bicamerlismo perfetto che «allunga i tempi delle decisioni e accresce le occasioni di veto» e in una «foresta di norme speciali» che ha «accresciuto enormemente il potere discrezionale delle amministrazioni pubbliche», se si vuole tornare a crescere a un tasso medio annuo del 2/2,5% è ora di cambiare radicalmente i comportamenti di imprenditori, lavoratori, sindacati, di tutti.

«La mia impressione», argomenta Trento, «è che siamo in una situazione in cui il vecchio modello fondato sulle famiglie proprietarie delle imprese, su banche essenzialmente pubbliche e di piccole e medie dimensioni che svolgevano una funzione di sostegno delle imprese piccole e in cui il mercato del lavoro era abbastanza stabile e protetto, non funziona più. Lo abbiamo demolito perché siamo stati costretti a cambiarlo. Ma da questo vecchio modello non ne è nato uno nuovo, ma un ibrido assurdo».

Un ibrido che riflette la paralisi decisionale manifestatasi perfino nei pochi slanci riformisti verificatisi nel ventennio seguente il 1992. E una crisi profonda di identità e di visione: «è stato un riformismo fatto pezzo per pezzo, senza un disegno complessivo», spiega il docente, «copiando da un paese o dall'altro senza una logica, senza un progetto. Se ci pensa», dice all'Espresso, «è stato un riformismo fatto perlopiù da tecnici: Amato, Prodi, Dini e così via. E anche oggi, l'impressione è che l'esperienza di Monti in parte sia la stessa: si fanno riforme spesso guardando a modelli stranieri ma senza avere in mente un disegno strategico: dove vogliamo andare? Che cosa vogliamo fare del capitalismo italiano? Che cosa deve diventare? Vogliamo diventare simili agli anglosassoni? Allora vanno fatte certe cose. Vogliamo diventare simili ai tedeschi? Allora ne vanno fatte altre. Vogliamo una terza strada? Allora dobbiamo dire qual è la strada che vogliamo».

La conseguenza, deleteria, è che le regole non si saldano al dna del Paese. E così, nell'incertezza, i cittadini e gli imprenditori non sono incentivati a cambiare i loro comportamenti per rispettarle: «Bisogna cambiare tutto», conclude Trento, «ma per cambiare tutto bisogna dare certezza su quale è il modello verso cui andiamo e quali sono le nuove regole di comportamento. Queste due cose non ci sono».

Controcorrente l'analisi del docente di Storia dell'impresa alla Bocconi, Andrea Colli. Premettendo di non trovare un filo rosso che congiunga tutti gli scandali di cui siamo testimoni in queste settimane, Colli non è d'accordo con quanti vedono nella vicinanza di economia e politica in sé il problema da cui derivare l'inevitabilità di corruttele e abusi. Che, del resto, in altri Paesi dove quella vicinanza è almeno altrettanto importante, non si sono verificati con altrettanta assiduità. Come mai? «Se prendiamo l'esempio della Francia», risponde, «la contiguità di formazione della classe politica e di quella imprenditoriale nel sistema della 'grand école' fa sì che ci sia una stretta integrazione tra i due mondi. Mentre da noi sono molto separati. Certo, abbiamo dei manager – ma non sempre – di nomina politica, ma in realtà stiamo parlando di mondi che sono di fatto tra di loro da un lato poco comunicanti, e dall'altro fortemente incompetenti: in particolare per quanto riguarda la competenza della politica su determinate aree dell'intervento pubblico nell'economia».

Molto controcorrente, con 13 consiglieri della Fondazione Mps su 16 di nomina politica (in questo caso, del centrosinistra). «Certo, ma un conto è avere dei membri del cda di formazione politica, un altro è avere all'interno del cda di un'impresa dei politici che si sono formati nelle medesime istituzioni, sugli stessi banchi in cui si è formata la classe dirigente economica», risponde Colli. Che riassume: «Il problema non è separare più nettamente politica ed economia, ma formare meglio entrambe. E formarle in maniera tale che ci siano strategie chiare. Lei ha mai sentito parlare di una strategia chiara, al di là delle parole, sui settori ad alta tecnologia in Italia?».

È lo Stato, risponde il docente, a dover individuare le politiche di formazione del capitale umano e di sostegno alla concorrenza in settori in cui la concorrenza stessa, quella cinese ma anche europea, si avvale delle capacità di pressione di diplomazie e governi. Il che in Italia non avviene, conclude Colli, ricordando come l'assenza del governo si sia tradotta anche in un deficit di competitività oltre i confini nazionali: «mentre Francia e Germania per favorire le loro concorrenti di Finmeccanica hanno puntato alla creazione di campioni non più nazionali, ma globali, sostenendone dal punto di vista della politica internazionale l'espansione, in Italia non è stato fatto nulla».

Il che porta al cuore del problema: se anche privatizzare, aprire i mercati alla concorrenza, non dovesse bastare per la semplice ragione che non siamo più competitivi. Potremmo già non esserlo? Di fronte al quesito, anche un attento osservatore della realtà italiana come Emmott non ha risposte. Solo un'ammissione: «Potrebbe essere».

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