Quando due schieramenti opposti ripetono lo stesso allarme il momento dev’essere grave. «Ci troviamo nella crisi più pesante che la siderurgia italiana abbia mai incontrato», sostiene Andrea Gozzi, presidente della Federacciai, la lobby degli industriali del ferro. «Stiamo vivendo una situazione che ricorda da vicino quanto è accaduto alla fine degli anni Settanta, quando si è dissolta la chimica italiana», gli fa eco Gianni Venturi, responsabile siderurgia del sindacato Fiom-Cgil. Per l’acciaio made in Italy, un’industria che dà lavoro a oltre 60 mila persone, la successione delle notizie è in effetti da codice rosso.
A Piombino lo storico altoforno della Lucchini ha appena strappato tre mesi di vita in più ma, alla fine dell’anno, rischierà di spegnersi per sempre. A Taranto l’Ilva è affidata alle cure del commissario straordinario Enrico Bondi, che però deve gestire un difficile percorso di risanamento ambientale e di salvataggio industriale. A Terni il futuro della Ast, lo stabilimento dove si produce un pregiato acciaio inossidabile, è appeso alla soluzione di una complicata vertenza con le autorità europee. A San Didero, nella bassa Valsusa, ormai da mesi è a rischio chiusura un’acciaieria del gruppo vicentino Beltrame, mentre il gruppo tedesco ThyssenKrupp ha aperto la procedura di mobilità per 438 lavoratori nei tre impianti italiani della controllata Berco, che fa componenti per i cingolati di trattori e macchine movimento terra.
Fino a pochi anni fa la siderurgia era uno dei fiori all’occhiello dell’industria nazionale. Anche se i livelli produttivi di giganti come la Cina e il Giappone sono inarrivabili, dai forni italiani sono usciti 27,2 milioni di tonnellate di acciaio ancora nel 2012, quasi il doppio della Francia e tre volte i livelli britannici. Nell’Unione europea, solo la Germania è sopra. Eppure, a dispetto di questi numeri, le previsioni sono fosche. Tutti gli addetti ai lavori si aspettano un autunno caldo.
Se l’altoforno di Piombino chiuderà, come programmato dal commissario straordinario Piero Nardi, rischia di perdere il posto la metà degli addetti, che con l’indotto arrivano a circa 5 mila. Ma non basta. Perché in Italia esiste una grande rete di imprese medie e piccole, laminatoi, carpenterie e trafilerie che, come fa la Berco, l’acciaio lo lavorano per diversi utilizzi industriali. E che, con la crisi dei grandi produttori nazionali, temono ora di finire al tappeto.
«Se l’Ilva non dovesse riprendersi, tutti sarebbero costretti a rifornirsi all’estero. Tra costi del trasporto e l’aggravio degli oneri fiscali legati alla necessità di accumulare delle scorte, si può calcolare un salasso per i trasformatori di circa 500 milioni di euro l’anno. Senza l’Ilva l’intera filiera dei trasformatori non ha alcuna speranza di sopravvivere», dice Gozzi. La preoccupazione dei sindacati è la stessa: «Senza l’acciaio che arriva dagli altoforni, essenziale per molte lavorazioni, l’industria italiana non riuscirà a riprendersi. Il nostro è un Paese piccolo, senza materie prime, in cui una delle poche risorse è proprio la capacità di trasformare i semi-lavorati», sostiene Marco Bentivogli della Fim-Cisl. Che vede nuvoloni neri già a settembre, quando termineranno gli ammortizzatori sociali in molte imprese, da Piombino a Terni. E cita il caso della Fincantieri, costretta ad abbandonare le forniture dell’Ilva per rivolgersi ai concorrenti tedeschi.
A colpire, in questo tracollo, è la varietà delle situazioni che l’hanno generata. C’è la recessione, è vero, che ha dato un colpo tremendo al mercato europeo. Ma i tre grandi produttori sono finiti gambe all’aria anche per motivi particolari. L’acciaieria di Piombino è in difficoltà per la fuga del suo ultimo padrone, il miliardario russo Alexey Mordashov, proprietario del gruppo Severstal, che l’aveva comprata nel 2005 dai Lucchini, una delle famiglie storiche del capitalismo italiano. Lo scoppio della recessione mondiale ha spinto Mordashov a mollare l’azienda, che già di suo non era particolarmente redditizia e che l’oligarca russo aveva ulteriormente indebitato, costringendo il ministero dello Sviluppo Economico a tentare la strada del commissariamento e di una radicale ristrutturazione.
L’Ilva, un colosso che nel 2007 produceva il 70 per cento dei laminati piani da altoforno fatti in Italia, quelli impiegati per gli scafi delle navi, i telai delle automobili, i tubi per le condotte di acqua e gas, è invece finita nei guai per i danni ambientali causati al territorio di Taranto, che hanno determinato una serie di azioni giudiziarie nei confronti del proprietario, Emilio Riva, e della sua famiglia.
Ancora più paradossale, per certi versi, la storia della Ast di Terni, rimasta bloccata nelle secche di un procedimento che l’Antitrust europeo ha avviato nei confronti del gruppo finlandese Outokumpu, costringendolo a mettere in vendita l’impianto umbro.
Il problema è che queste sventure hanno colpito l’acciaio nazionale in un momento difficile già di suo. La recessione e la scomparsa del mercato delle costruzioni hanno fatto esplodere il caso dell’eccessiva capacità produttiva in Europa, che la Commissione di Bruxelles ha indicato in un valore enorme, circa 80 milioni di tonnellate l’anno. Un livello preoccupante, soprattutto se si considera che, a dispetto dei consumi in aumento, la sovra-capacità è ancor più elevata in Cina, dove arriverebbe a 200 milioni di tonnellate. Di qui il rischio di dumping da parte di un Paese dove i vincoli ambientali e i costi sono inferiori.
In questa situazione, i tre gruppi italiani si sono ritrovati nella scomoda parte del vaso di coccio: troppo deboli per difendere le rispettive posizioni e intraprendere la strategia di sviluppo dettata dalle autorità comunitarie verso produzioni più sofisticate: l’industria aerospaziale, le vetture che utilizzano combustibili alternativi, i componenti per gli impianti di energia rinnovabile, gli interventi per la riqualifica ambientale delle abitazioni.
«Tutti questi settori, però, non consumano tanto acciaio quanto i prodotti più tradizionali, come ad esempio le automobili o gli elettrodomestici», avverte Venturi. Che dice: «Purtroppo nella crisi dell’Ilva c’è una questione antecedente alla recessione, che riguarda il tentativo di restare competitivi anche nelle fasce basse di mercato. Una strategia penalizzante, alla base dell’assenza dei necessari adeguamenti degli impianti e delle problematiche ambientali che ne sono venute. Ora servono investimenti per puntare sulla ricerca e aumentare il valore aggiunto dei prodotti». Per il momento, tuttavia, nessuna soluzione definitiva si profila all’orizzonte. A Terni, in mancanza di offerte d’acquisto all’altezza delle loro aspettative, i finlandesi dell’Outokumpu continuano a non chiudere la procedura di vendita.
A Piombino il ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, ha posticipato a dicembre lo spegnimento dell’altoforno. La sua idea è puntare sul fatto che la parziale fermata di Taranto per effettuare i lavori di rifacimento e la ripresa del mercato in atto regalino un po’ di ossigeno all’impianto toscano. In attesa di capire, poi, se i compratori potenzialmente interessati - com’è sembrato finora - vogliano comunque chiudere la cosiddetta area a caldo, mantenendo solo i forni elettrici, dove si produce acciaio da rottami riciclati. All’Ilva infine, la partita è tutta da giocare.
Non c’è solo la definizione degli interventi di salvaguardia dell’ambiente, ma anche la necessità di verificare se Bondi riuscirà a trovare i finanziamenti bancari necessari per rimettere in sesto l’enorme stabilimento. E di capire, poi, che cosa accadrà alla fine del commissariamento. «Senza i Riva l’Ilva non ha futuro», mette le mani avanti Gozzi. Per altri, invece, sarebbe il momento di cercare soluzioni alternative. Dice Bentivogli: «Finora gli imprenditori italiani hanno preferito mettere i loro soldi al sicuro all’estero, accampando la scusa di un sistema bancario vecchio e ingordo, che non li aiuta a investire. Ma se le banche sostenessero i pochi capitani d’industria davvero all’altezza della sfida, come avviene in Germania, allora sono sicuro che l’Ilva potrebbe risorgere, restando in mani italiane».