
Durante gli anni passati, il vecchio patron Emilio Riva - scomparso qualche mese fa - e i suoi familiari avevano infatti accumulato in Svizzera un tesoro miliardario, controllato attraverso una serie di società offshore. Quei soldi, però, sono finiti al centro di un’ulteriore serie di procedimenti giudiziari, costati ai Riva le accuse di truffa e evasione fiscale e il sequestro preventivo da parte della magistratura. Di qui la mossa di Piero Gnudi, il commissario scelto dal governo di Matteo Renzi per portare avanti il risanamento e tentare la vendita dell’Ilva: chiedere al tribunale lo scongelamento dei fondi, pari a 1,2 miliardi di euro, che dai conti personali dei Riva potrebbero tornare su quelli dell’azienda. Dove servirebbero a riparare il malfatto, ovvero a rimettere a norma gli impianti, in modo da rispettare il piano ambientale redatto perché l’acciaieria possa riprendere a funzionare a pieno regime.

Anche se offerte vincolanti non ne sono ancora arrivate, è dunque un fatto che la lotta per la conquista dell’Ilva stia entrando nel vivo. Proprio ad accelerare la vendita, infatti, servono i soldi dei Riva. Le prescrizioni di adeguamento degli impianti alle normative ambientali prevedono spese per 1,8 miliardi, finora effettuate per soli 250 milioni. Da qualche mese, infatti, i lavori sono stati ritardati: in cassa non c’era più un euro ed è stata necessaria una legge ad hoc per permettere a Gnudi, che in passato è stato presidente dell’Enel e ministro nel governo Monti, di chiedere alle banche un prestito ponte, con cui pagare gli stipendi e tranquillizzare i fornitori. Ora la strategia del commissario governativo è chiara: se il tribunale di Milano concederà l’utilizzo dei soldi dei Riva, potrà trattare da posizioni un po’ più forti con gli acquirenti, che chiedono anche di essere sollevati dalle controversie legali con i Riva, il Comune di Taranto e le numerose altre parti coinvolte in una vicenda tanto spinosa. «Ma quando ripartiranno i cantieri per rendere l’Ilva pulita, su Taranto inizierà a rispuntare il sole», dice il deputato cittadino Michele Pelillo, che vede «un aspetto anche emotivo» nella prospettiva di fare i lavori con i soldi sequestrati ai Riva: «In città sarebbe molto gradito».

Qualche domanda nasce anche dal coinvolgimento di Marcegaglia nella cordata. Il gruppo guidato dai fratelli Antonio e Emma Marcegaglia, fresca presidente dell’Eni per nomina del governo Renzi, dopo anni di perdite è infatti alle prese con un pesante indebitamento e con una lunga riorganizzazione. E, scrivono gli analisti di Ubs, avrebbe poco interesse a entrare nelle attività di produzione di acciaio da minerale, gli altoforni di Taranto, quelli più importanti dal punto di vista della forza lavoro. Al contrario potrebbe trarre forti vantaggi se potesse rilevare alcune attività dell’Ilva, e in particolare i nastri in acciaio laminato. Ma fra i “pro” per Marcegaglia che gli analisti della banca vedono nella partecipazione a una cordata per l’Ilva, ce n’è uno che stride parecchio con gli obiettivi di mantenimento del numero di addetti che Gnudi intende perseguire: la chiusura delle attività che sono in più diretta concorrenza con quelle dell’azienda mantovana.

Anche qui, però, le indicazioni certe sono per ora poche. Inizialmente, infatti, Jindal si era presentato a Piombino solo per acquistare i cosiddetti laminatori, dove l’acciaio viene lavorato, e non l’altoforno. Poi, man mano che i contatti procedevano, è emersa la possibilità di realizzare in futuro quello che viene chiamato un impianto di preriduzione, un procedimento chimico che permette di produrre acciaio dal minerale, una tecnologia che limita fortemente l’impatto inquinante del carbone utilizzato negli altoforni (vedi intervista qui a fianco).
Dopo questo primo passo, Sajjan Jindal starebbe però accarezzando il sogno di lanciarsi in un vero e proprio salto triplo: nel suo mirino c’è l’Ilva, un’acciaieria di stazza ben più grande di quella toscana e dove il passaggio alla tecnologia del preridotto rappresentava il cardine del piano industriale presentato dall’ex commissario Enrico Bondi, che il governo ha sostituito con Gnudi prima dell’estate. Dettaglio non indifferente: Bondi, in passato risanatore di Parmalat, era stato mandato via dopo i pesanti attacchi che gli erano stati rivolti dalla lobby della siderurgia, e in particolare dal presidente della Federacciai, Antonio Gozzi, da sempre fautore del ritorno dei Riva.
Che Ilva sarà, dunque, è ancora presto per dirlo. I passaggi industriali, legali e finanziari da mettere a punto sono ancora molteplici. Perché nessuno dei compratori vuole farsi carico dei rischi legali che incombono sull’operazione. Si parla di una “newco”, una nuova società che si porterebbe dietro solo la parte buona, quella industrale, lasciando il fardello delle controversie in carico alla vecchia Ilva. Ma il primo mattone di ogni soluzione restano quei 1,2 miliardi sequestrati ai Riva, necessari per rimettere in regola gli impianti. Se non arriveranno, bisognerà rifare tutto da capo.