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Economia
aprile, 2014

Ilva, tutti i dubbi sul futuro

All’acciaieria servono 3 miliardi, ma le banche frenano e la famiglia Riva vuole restare in gioco. Ecco i motivi di uno scontro che pesa sul futuro di oltre 11 mila lavoratori

Nessun ramoscello d’ulivo, nessuna resurrezione. Il mercoledì prima di Pasqua, il vescovo di Taranto è andato a celebrare la messa di precetto nell’acciaieria Ilva, dove lavorano 11.524 persone. Questa volta, però, i consueti messaggi di conciliazione non sono andati a segno. Durante la funzione, infatti, dalla piccola folla si sono alzati fischi e mugugni, frutto del groviglio di tensioni che in città avvolge chiunque si avvicini allo stabilimento. Perché monsignor Filippo Santoro, arrivato in Puglia nel 2012 dopo lunghi anni trascorsi in Brasile, non porta sulle spalle soltanto la croce del suo predecessore, che agli occhi dei tarantini si è macchiato di connivenza con la famiglia Riva - i proprietari dell’Ilva - dispensando benedizioni mentre accettava denari per la diocesi. Ma anche di una responsabilità tutta sua: essersi espresso in favore di un’Ilva che risorga dai suoi veleni e che continui ad esistere: «Non voglio nemmeno immaginare cosa succederebbe se 11 mila persone perdessero il lavoro, un dramma umano immane che con tutte le forze dobbiamo evitare», è stato il monito di Santoro.

I fischi al vescovo sono la manifestazione del disincanto con cui, a Taranto, viene ormai vista qualsiasi autorità. Alla vigilia dei rinvii a giudizio che potrebbero colpire decine di persone per i danni ambientali che l’Ilva ha causato, coinvolgendo dirigenti, dipendenti, politici e tecnici delle varie istituzioni pubbliche, in città nessuno si fida più di nessuno. Questo clima, tuttavia, rischia di danneggiare in particolare le speranze di quella parte della comunità che vorrebbe ridare un futuro industriale alla più grande acciaieria d’Europa.

Perché in questi giorni, mentre fronteggia critiche quasi giornaliere sui lavori di risanamento avviati all’interno degli impianti, Enrico Bondi, il manager quasi ottantenne che nel 2013 il governo Monti aveva nominato commissario per il salvataggio dell’Ilva, si ritrova costretto a giocare una seconda partita, dalle conseguenze ancor più immediate della messa a punto del piano di riduzione delle emissioni inquinanti: quella con le banche e i Riva, con gli imprenditori italiani del settore siderurgico e i loro concorrenti internazionali. Ovvero con tutti coloro che nei fatti, hanno il potere - e in alcuni casi l’interesse - di spegnere per sempre gli altiforni di Taranto.

Il momento per capire se da questo confronto l’Ilva uscirà viva arriva adesso. Nei primi mesi del suo mandato, infatti, Bondi è andato avanti senza chiedere un euro a nessuno. Per avviare i lavori di rifacimento e far ripartire l’attività industriale, ha infatti potuto mettere in vendita il cospicuo magazzino di prodotti finiti e semilavorati che i Riva avevano lasciato, e che la magistratura locale aveva tentato di sequestrare. Ora, però, quelle risorse vanno esaurendosi e all’esterno dell’Ilva, fra gli osservatori più o meno interessati, si rincorrono sussurri d’allarme: le vendite stentano a riprendersi; le consegne ai clienti arrivano in ritardo; la gestione accusa perdite per decine di milioni di euro; gli stipendi di aprile sono a rischio. E ancora: il gruppo sta accumulando cospicui debiti con l’Inps perché l’istituto pensionistico, come ha potuto verificare “l’Espresso”, ha accordato a Bondi la possibilità di congelare il pagamento dei contributi previdenziali, limitando almeno temporaneamente le uscite di cassa.

Chiuso nella riservatezza che ha sempre caratterizzato la sua carriera di manager, Bondi non ha mai risposto pubblicamente a queste voci, che all’interno dell’Ilva vengono considerate, almeno in parte, messe in giro apposta per danneggiare il gruppo. Il commissario, però, ha tentato di fugare i dubbi con gli atti che gli sono imposti dal suo incarico. Nella relazione presentata il 28 febbraio, ha scritto che nel 2013 le vicissitudini dell’azienda hanno fatto crollare il giro d’affari del 30 per cento, sceso a 3,8 miliardi di euro. Ha ammesso difficoltà produttive legate in parte «a problemi tecnici» ma ha anche sostenuto che nel quarto trimestre dell’anno i volumi di vendita sono tornati ad accelerare e ha definito «soddisfacenti» i volumi del gennaio 2014.

Il difficile deve però venire. Per dare una svolta ai lavori di ristrutturazione e consolidare il ritorno sul mercato, Bondi ha bisogno di quattrini. Ha dovuto così bussare alle banche, chiedendo loro di partecipare alla massiccia iniezione di capitali necessaria. Cifre ufficiali non ce ne sono ma le stime che circolano indicano che avrebbe quantificato in 4,1 miliardi il fabbisogno dell’Ilva di qui ai prossimi anni. Di questi, 1,6 dovrebbero essere reperiti con l’indebitamento, 1,4 saranno chiesti agli azionisti sotto forma di aumento di capitale, mentre il resto verrà generato dall’azienda grazie al normale flusso di cassa gestionale. In risposta, le banche hanno nominato un loro consulente per valutare il piano industriale (ancora ufficioso). Ma hanno rapidamente fatto filtrare un messaggio: da sole non ci staranno, soprattutto se non viene trovato il futuro socio di riferimento, che si farà carico della gestione a fine commissariamento (nel 2016) e, di conseguenza, dei prestiti concessi. E qui nascono i problemi.

Rispetto a un colosso come l’Ilva, gli imprenditori italiani del settore sono tutti nanerottoli, e nessuno è presente in quello che in gergo viene chiamato «l’intero ciclo produttivo», ovvero la capacità di produrre l’acciaio dal minerale (con gli altiforni alimentati a coke, la cosiddetta area a caldo) oltre che dai rottami (per i quali bastano i forni elettrici). Antonio Gozzi, presidente della Duferco, che partecipa alla cordata che si è candidata a rilevare parte delle attività ex Lucchini di Piombino (ma non l’altoforno) si tira indietro: «Non ci interessa un’acquisizione perché Duferco sta tornando con maggior forza sul business primario, il trading di acciaio, visto che da anni la produzione e la siderurgia sono in affanno. Potremmo fornire un contributo per migliorare la capacità di vendita». Altri, a parole, si sono fatti avanti, anche se con timidezza. Giovanni Arvedi ha elaborato un piano per mettere in rete alcune acciaierie, dalla propria di Cremona a quella dei Lucchini a Servola, da Taranto a quella di Piombino, pure lei commissariata. Secondo le indicazioni emerse, però, nell’impianto pugliese dell’Ilva - stando al progetto - il numero di addetti avrebbe dovuto scendere a circa 7 mila persone: un’ipotesi poco difendibile se si considera che Bondi, con il commissariamento, ha ricevuto l’incarico di tutelare non solo l’ambiente, ma anche il lavoro.

Anche Antonio Marcegaglia, fratello di Emma neo-presidente dell’Eni, si è mostrato disponibile a essere della partita: «Compriamo dall’Ilva 1,2 milioni di tonnellate di coils (un lavorato utilizzato dagli impianti che stampano le lamiere, ndr) su un fabbisogno di 4,5 milioni. Ma potremmo comprarne molto di più se ci fossero le condizioni per farlo», ha detto. Spiegando che l’anno scorso, quando Taranto ha avuto le sue difficoltà, il gruppo ha dovuto cercare altri fornitori, spingendosi in Russia e in Ucraina, in Turchia e in India.

Al di là dei buoni propositi, però, mettere insieme 1,4 miliardi per l’aumento di capitale è tutt’altro che facile. È per questo motivo che tra le banche più esposte con l’Ilva, Intesa, Banco Popolare e Unicredit, sarebbe nata l’ipotesi di una cordata in stile Alitalia 2008, con una pattuglia di imprenditori italiani da affiancare a un partner straniero, per cui sono circolati i nomi del gruppo cinese Baosteel e, più insistentemente, quello di Arcelor-Mittal, colosso multinazionale con quartier generale in Lussemburgo e a Londra. Anche in questo caso, però, le controindicazioni sembrano numerose. Negli ultimi anni il numero uno di Arcelor, il magnate indiano Lakshmi Mittal, ha chiuso impianti “a caldo” un po’ ovunque, dalla Germania a Piombino, da Liegi a Florange, la cittadina della Lorena dove nell’Ottocento era stato forgiato il ferro della Tour Eiffel. Ecco perché, secondo alcuni osservatori, Mittal potrebbe ricavare grandi benefici se l’Ilva, alla fine, fosse costretta a chiudere. Tutto da verificare nei fatti, infine, l’interessamento della Banca Europea degli Investimenti che, in un’ottica comunitaria, potrebbe rispondere alle preoccupazioni di Bruxelles sulla scomparsa degli altiforni dall’intero continente, che si ritroverebbe così ostaggio dei fornitori esterni.

A Taranto, tra quei dipendenti che tifano per Bondi, si sottolinea un altro problema, ovvero il ruolo della famiglia Riva, non più unita come appariva fino a pochi mesi fa, quando a comandare era il capostipite Emilio. Anche se Bondi ha sostituito diversi dirigenti, i Riva in azienda avrebbero ancora diversi fedelissimi, che continuano a sperare in un loro ritorno. Una posizione che finisce per congiungersi con quella degli altri imprenditori siderurgici italiani, terrorizzati che un “esproprio” di successo per motivi ambientali possa creare un precedente.

Dai Riva, fra l’altro, Bondi è ora costretto a passare. Al loro rappresentante, il commercialista Mario Tagarelli, dovrà presentare il piano industriale e poi chiedere se intendono sottoscrivere l’aumento di capitale. Le voci dicono che, proprio per non vedersi estromessa del tutto, la famiglia speri in un aumento limitato a 600 milioni. Se però nessuno si facesse avanti per ricapitalizzare l’azienda, Bondi potrà chiedere alla procura di Milano di poter mettere le mani sugli 1,2 miliardi sequestrati ai Riva dalla Guardia di Finanza di Milano, su ordine della Procura, per truffa ai danni dello Stato. L’utilizzo di quest’arma letale, prevista esplicitamente dalla legge di commissariamento anche «in relazione a procedimenti penali diversi da quelli per reati ambientali», scatenerebbe però una guerra giudiziaria. «Temo una giungla di ricorsi, perché non è giuridicamente sostenibile l’utilizzo dei fondi sequestrati», dice Gozzi, che è anche presidente della Federacciai e che in un’intervista al “Sole” ha detto esplicitamente che Bondi deve cessare il suo incarico al più presto e che i Riva restano «i legittimi proprietari». Uno scontro durissimo che, però, non tiene conto del poco tempo rimasto. E se né le banche né altri verranno in soccorso dell’Ilva, a Taranto pochi nutrono dubbi: Bondi quei soldi andrà a prenderseli.

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