Negli ultimi anni sono cresciuti i successi delle autorità nel colpire le operazioni elusive internazionali. E molte aziende, da Prada a Armani, hanno chiuso le pendenze con versamenti milionari. Ma c'è chi riesce ancora a farla franca. E Vincenzo Visco punta il dito contro gli Stati-canaglia che restano in Europa: «L'Unione deve fare di più». Ecco perchè
di di Alfredo Faieta
2 giugno 2014
Sergio MarchionneC’è un sottile filo rosso che passa attraverso i guai giudiziari di Domenico Dolce e Stefano Gabbana per finire con il toccare la Fiat e la sua decisione di spostare la testa del gruppo fuori dell’Italia una volta che sarà operativa la fusione con la controllata americana Chrysler. È il filo del sospetto, insidioso, capace di essere avvolgente se non viene spezzato. A tirarlo è stato lo scorso 25 marzo il sostituto procuratore generale di Milano Gaetano Santamaria Amato, nella sua requisitoria durante il processo d’appello contro i due stilisti. Il pg a sorpresa aveva chiesto l’assoluzione per tutti gli imputati «perché il fatto non sussiste».
Parlando del motivo fondante del processo, ovvero la decisione dei creativi di spostare la proprietà dei loro marchi in una società con sede in Lussemburgo, dove si sarebbe pagato solo il 4 per cento di tasse sulle royalties, Santamaria aveva detto testualmente: «Devo dire che come cittadino contribuente italiano posso sicuramente indispettirmi per questo risultato che mi fa tanto, ma proprio tanto arrabbiare. Io posso plaudire alla Guardia di Finanza che accende i riflettori su queste grosse operazioni e poi però posso anche aspettarmi un intervento su Marchionne, no? E sulla Fiat quando trasferirà poi la sede legale in Inghilterra e il domicilio fiscale in Olanda (in realtà andrebbero invertiti i Paesi, ndr) però come oratore della legge e come operatore del diritto io devo innanzitutto spogliarmi da ogni pregiudizio. E poi devo constatare che la Comunità Europea, la Cassazione e anche il primo Giudice hanno espressamente detto, proprio a chiare lettere, che operazioni di questi genere sono in sé legittime; che nessuna norma vieta la ristrutturazione del gruppo così come è stata impostata». Domenico Dolce e Stefano Gabbana Per inciso, il secondo grado di giudizio si è concluso, nonostante le richieste contrarie del procuratore, con la conferma della condanna degli stilisti, così come del loro commercialista di fiducia Luciano Patelli. Ma il punto più interessante è un altro e gira intorno a quella domanda insidiosa: «posso aspettarmi un intervento su Marchionne e la Fiat», quando trasferiranno la sede in una – fiscalmente – comoda residenza all'estero? Perché la decisione della società torinese entra come una lama tagliente a squarciare anni di contrasto alle grandi pratiche elusive e rivela ancora una volta le debolezze dei sistemi fiscali, quando devono contrastare tali pratiche di “ottimizzazione fiscale”, come vengono chiamate con un gergo molto assolutorio.
«Fiat si è comportata, ne più ne meno, come una delle tante multinazionali che calibrano la loro presenza a livello internazionale per sfruttare al meglio tutte le opportunità fiscali che gli Stati offrono», commenta con un certo fastidio l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco, tra i maggiori esperti italiani di fisco. «Un comportamento, da parte dell'azienda, che ha colto tutti di sorpresa, soprattutto pensando a tutti gli incentivi statali di cui si è giovata nella sua lunga storia», aggiunge Visco.
Il pensiero va subito alle varie Apple, Google, Amazon, le multinazionali della tecnologia che grazie a schemi societari molto sofisticati riescono a sfruttare al meglio tutti i buchi di legislazione e a parcheggiare gli enormi profitti in Stati a bassissima tassazione, senza però apparentemente violare nessun tipo di norma fiscale.
Ma questo “intervento” su Fiat si può fare, prima che quello della casa torinese diventi un esempio da seguire per molte altre aziende alle quali non basterà che replicare lo schema già collaudato dal Lingotto per sfuggire al fisco italiano? All’interno dell’Agenzia delle Entrate qualche funzionario ricorda che nessun approfondimento è possibile prima che l’operazione sia perfezionata. E comunque se la Fiat, come sembra, lascerà una stabile organizzazione in Italia pagherà le tasse sulle attività italiane come fosse un’entità giuridica, in perfetta sintonia sia con le nostre norme sia con quelle comunitarie che garantiscono la libertà di stabilimento. Ma le attività italiane sono in perdita da anni: quindi, su quelle Fiat non pagherà tasse, uscendo almeno per il momento dai radar dell’erario italiano.
Gli esperti della rivista online “Fiscoequo”, che raccoglie ex dirigenti dell’Agenzia delle Entrate, sono molto precisi nello spiegare i benefici della mossa di Fiat: «Nel Regno Unito, la società beneficerà di un'aliquota della corporate tax al 21 per cento, ridotta al 10 per cento sulla quota di reddito societario attribuibile ai grandi marchi del gruppo, ai brevetti ed agli altri assets immateriali, così come prevede il nuovo regime agevolato, il cosiddetto “patent box”, in vigore da aprile 2013. In tal modo, il Regno Unito si candida a diventare un Paese altamente attrattivo per le società di gestione di tecnologia e beni immateriali e, nel contesto di una profonda riforma della tassazione delle imprese multinazionali, ha introdotto anche regimi di favore per il rimpatrio dei dividendi e per le “controlled foreign companies”: discipline che, nella versione italiana, limitano non poco l'operatività estera delle nostre grandi imprese». Dolce e Gabbana sono stati condannati proprio perché avevano portato i loro marchi in Lussemburgo, con una tassazione di favore per quel tipo di attività, ma la loro era una estero-vestizione. Fiat dovrebbe spostare effettivamente a Londra il suo quartier generale, con tanto di trasferimento di uomini e mezzi.
È indubbio che la mossa di Torino, seppur apparentemente lecita, sposta in alto l’asticella della lotta all’elusione fiscale internazionale, che per la verità negli ultimi anni aveva visto anche ottimi successi, grazie al cambio di legislazione e all’azione delle procure della Repubblica, veri e propri grimaldelli usati per forzare la resistenza delle aziende.
Non sono stati molti quelli che hanno scelto la linea dura, come Dolce & Gabbana e come Tenaris della famiglia Rocca che su una contestazione da centinaia di milioni ha riportato un successo in commissione tributaria (almeno in primo grado), a differenza dei due. In situazioni come la cessione di Valentino dai Marzotto al fondo Permira, o l’estero-vestizione di società riferibili ai gruppi Giorgio Armani, Prada, Luxottica e Safilo, che hanno transato con l’Agenzia negli ultimi mesi per una questione cosiddetta di “transfer price”, ovvero di prezzi di vendita tra controllate dello stesso gruppo situate in Paesi diversi, l’azione dell’Agenzia è stata risolutrice, permettendo di recuperare centinaia di milioni di euro grazie ad accertamenti con adesione o alla “voluntary disclosure” (ovvero con il riportare alla luce volontariamente di attività celate all'estero), così com’era stato qualche tempo fa con le maggiori banche italiane.
«Gli schemi societari utilizzati da Dolce & Gabbana e da altre società non sono ora più possibili, perché sono cambiate le norme e comunque vengono intercettati subito» commenta il professor Francesco Tundo, avvocato tributarista con cattedra all’Università di Bologna. «La professionalità dell’Agenzia delle Entrate poi è straordinariamente cresciuta, e anche la cooperazione con gli altri Stati, grazie allo scambio di conoscenze con altre amministrazioni. Inoltre, su un piano diverso, il segreto bancario subisce duri colpi un po’ ovunque e anche Svizzera e Singapore hanno siglato un patto che li impegna, dal 2017, ad aderire ai protocolli automatici di scambio di informazioni bancarie sul modello del Fatca americano e seguenti. Queste piazze finanziarie, da sempre terminali di operazioni sospette, non sono più interessate a denaro di provenienza illecita o comunque dubbia. A questo si aggiunga che nessuno può sperare più nei condoni fiscali, che una volta rappresentavano il salvacondotto finale per mettere a posto queste situazioni. I paradisi fiscali sono sempre più accerchiati e operazioni quali la lista Falciani o le intese tra l’amministrazione americana e le banche svizzere (il Crédit Suisse ha ultimamente accettato di pagare 2,6 miliardi di dollari per sanare una controversia con gli Usa su evasori fiscali americani, ndr) dimostrano che gli spazi si sono ridotti di molto». «In altri termini», aggiunge Tundo, «potremmo dire che sono cambiate le coordinate degli schemi di pianificazione fiscale internazionale, alla quale certamente si può fare ricorso, ma solo quando ci sia una vera attività internazionale».
Tutto vero, ma il ritrovamento presso l’isola di Jersey (nella Manica) di un autentico tesoro attribuibile alla famiglia Riva – proprietaria del gruppo Ilva – dimostra che non si può abbassare la guardia. In due distinte operazioni sono stati rinvenuti prima 1,4 miliardi di euro all’interno di alcuni trust (di cui 1,2 miliardi sequestrati per ordine del pm di Milano, Stefano Civardi) e poi altri 700 milioni, il tutto grazie alla collaborazione internazionale tra polizie. Quella tra Italia e Inghilterra è molto cresciuta negli anni, così come con la Nuova Zelanda e ultimamente con Olanda e Germania, grazie anche alla possibilità di operare azioni congiunte.
L’impressione è che non sia più sufficiente operare solo in Italia, ed è forse questo il motivo per il quale la Guardia di Finanza si è dotata di una rete di esperti fiscali in tutto il mondo, che siano quindi vicino alle sedi estere delle nostre aziende e che possano, all’interno dei trattati multilaterali o convenzioni bilaterali sulla doppia tassazione, approfondire meglio le dinamiche. Questa rete, che conta sedici basi all'interno delle nostre ambasciate, più tre ufficiali di collegamento accreditati presso l'Organizzazione mondiale delle dogane, il Centro interamericano delle amministrazioni tributarie e l'ambasciata di Madrid, è una delle novità nel contrasto alla grande evasione. Si va dal Costarica a Kuala Lumpur in Malesia, da Brasilia a Mosca, e poi Pechino, Berna, New York e Nuova Delhi in India, ma anche Belgrado, in quella Serbia dove tante imprese italiane stanno delocalizzando, tra cui la stessa Fiat.
A divulgare la struttura di questa rete è stato il generale di Corpo d'Armata della Guardia di Finanza, Saverio Capolupo, che in una audizione di fronte alla commissione finanze della Camera dei Deputati spiega bene di fronte a quale fenomeno ci si trovi adesso. «Le numerose attività investigative svolte negli ultimi anni, anche di polizia giudiziaria, hanno permesso di riscontrare che, per realizzare queste condotte, spesso viene fatto ricorso alle prestazioni di consulenti o esperti che predispongono ingegnosi pacchetti fiscali o societari finalizzati esclusivamente a mascherare il trasferimento all'estero di somme provento di evasione, o di realizzare complesse forme di elusione. Si tratta di operazioni di lesività estremamente elevata per l'erario, spesso di gran lunga superiore a quella recata dai meccanismi fraudolenti realizzati, per esempio, a mezzo di false fatturazioni.
Una situazione di crescente allarme che può essere monitorata solo in loco: «Grazie a questa rete di intelligence», ha aggiunto il generale Capolupo, «sono state recentemente acquisite informazioni relative ad investimenti immobiliari e mobiliari effettuati all'estero da cittadini italiani, cui faranno seguito interventi ispettivi volti a verificare l'assolvimento dei connessi adempimenti dichiarativi e le modalità con cui le somme utilizzate sono state costituite e trasferite all'estero». Nel 2012, ultimi dati disponibili, sono giunte all’Italia ben 1700 richieste di informazioni e noi ne abbiamo inoltrate più di mille.
La strada sembra essere quella giusta, anche verso i paradisi fiscali. Alcuni avrebbero iniziato qualche forma di effettiva collaborazione, anche se l’ex ministro Visco resta scettico: «A parole sono tutti disponibili, nei fatti rispondono alle nostre richieste in tempi biblici e talvolta rispondono solo quel che ritengono loro necessario. Solo con i mezzi esercitabili tramite l’azione penale si ottiene qualcosa di più». Proprio ciò che chiede il generale Capolupo: non allargare troppo i cordoni delle fattispecie penali punibili, e anzi rinforzarle laddove sono i reati più pericolosi, magari liberando le procure da quelle più lievi che ora intasano i tribunali.
Chissà se la legge delega di riordino del settore colpirà nel segno. «Però è chiaro che gli Stati devono uniformare il più possibile le loro legislazioni in materia fiscale, almeno all'interno della Unione Europea per evitare di creare queste disparità sfruttabili dalle aziende», conclude Visco. Questa è la grande battaglia che è ancora all'anno zero, e chissà se mai gli Stati membri a fiscalità agevolata accetteranno mai di rinunciare alle loro prerogative. Per il momento, Fiat voluntas Marchionne.