
Può suonare irriverente accostare un problema economico ai fatti più sanguinosi della storia repubblicana, che hanno visto i documenti ufficiali desecretati proprio da Renzi. Eppure, scorrendo la legge del 2007 che ha riformato il segreto di Stato e il successivo decreto attuativo, l’ipotesi di una misura così estrema anche per i derivati può non sembrare peregrina: in un passaggio, molto controverso, il testo fa infatti esplicito riferimento alla tutela di interessi «economici e finanziari».
Le voci di inizio ottobre, tuttavia, non hanno trovato conferma e la firma del premier per porre il segreto non c’è stata. Perché? Secondo alcune ricostruzioni, le strutture del governo avrebbero dato un parere tecnico negativo. Il Tesoro, interpellato da “l’Espresso”, getta acqua sul fuoco, dicendo di «non aver avanzato alcuna richiesta» in tal senso e definendo «probabilmente infondata» la notizia che il governo ci abbia pensato. Illuminante la spiegazione che lo stesso ministero guidato da Pier Carlo Padoan fornisce di questa sua valutazione: «L’accesso agli atti dei derivati può essere negato senza invocare il segreto di Stato».
Proprio lo scorso 8 ottobre, il Movimento 5 Stelle ha visto respingere la propria richiesta di avere copia dei contratti per studiare nei dettagli i derivati del Tesoro, strumenti finanziari molto complessi, che possono essere usati sia in modo prudente, proteggendo chi li fa dai rischi di mercato, sia a fini speculativi.
Un esempio: sulla base di un valore pattuito di un miliardo, il Tesoro si impegna a pagare una volta l’anno alla banca un tasso fisso del 3,5 per cento; la banca a versare al Tesoro un tasso variabile pari all’Euribor. Se l’Euribor è uguale al 3,5 per cento, si fa pari e patta; se va sopra ci guadagna il governo italiano; se va sotto a brindare è la banca. A negare i contratti ai 5 Stelle è stata la Commissione per l’accesso agli atti amministrativi, presieduta dal sottosegretario Claudio De Vincenti. La risposta è stata la seguente: siete deputati, fate le vostre domande attraverso le interrogazioni parlamentari. Alle quali, però, il ministero risponde in modo sommario. Perché allora, se non nella forma, il segreto di Stato sui derivati esiste nei fatti? A giudicare da alcuni indizi, è legittimo un sospetto: le perdite che, in questi mesi, il Tesoro si sta accollando su questi complessi strumenti finanziari sono tali da motivare qualche imbarazzo.
DEUTSCHE BANK E GLI ALTRI
Il 30 luglio scorso Deutsche Bank ha pubblicato il bilancio del primo semestre 2015. In una tabella si dice che il valore dei derivati italiani posseduti dal colosso tedesco è sceso da 4,4 a 3,5 miliardi in meno di tre mesi, tra marzo e giugno 2015. Semplici variazioni di mercato o ha incassato 800 milioni dal Tesoro per chiudere un derivato? Alcuni dei contratti sono arrivati a fine vita oppure la banca ha accettato di rinegoziarli? A queste domande, Deutsche Bank ha risposto che «non diffonde informazioni sulle relazioni con i propri clienti».
Secondo indizio: nelle ultime settimane due deputati della Commissione Finanze della Camera, Giovanni Paglia di Sel e Carla Ruocco dei 5 Stelle, hanno fatto a Padoan una serie d’interrogazioni. È emerso così che nel 2015 sono giunte a scadenza due operazioni firmate 10 anni prima del valore totale di 2 miliardi, definite “swap”, come vengono chiamati quelli dell’esempio fatto sopra. In questo caso il Tesoro ha pagato 91,8 milioni di euro solo per l’ultima rata semestrale.
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Quali banche hanno incassato? «Non forniamo nomi per obblighi di riservatezza», dice il ministero. Ma qualunque sia l’istituto, quanto ci ha guadagnato in dieci anni? Partendo dai dati forniti nelle interrogazioni, Nicola Benini di Ifa Consulting, società specializzata nell’ingegneria finanziaria dei derivati, che ha assistito vari enti locali nel rinegoziarli, dice che «è possibile arrivare a una risposta di prima approssimazione».
In sostanza: in 10 anni il Tesoro avrebbe versato alla banca (o alle banche) dal nome ignoto interessi ?per un totale di 1,1-1,4 miliardi. Benini aggiunge però un particolare importante: quando è stato firmato, quel contratto era così sbilanciato in favore della banca, da far ragionevolmente supporre che questa abbia versato al Tesoro un sostanzioso bonus d’ingresso, che i tecnici dei derivati chiamano “upfront”. Benini lo quantifica «tra i 700 e i 900 milioni». Incassare subito, ovvero nel 2005, 700-900 milioni, per poi sborsare alla banca 1,1-1,4 miliardi nel giro di dieci anni: qual è la logica? «Con l’esperienza dei derivati analizzati in tanti anni, posso ipotizzare che l’upfront iniziale potesse servire per coprire una perdita su operazioni precedenti o per ridurre il deficit pubblico di quel momento», dice Benini.
Non manca un terzo indizio. Nella stessa occasione il Tesoro ha rivelato un altro colpo sfortunato. In alcuni contratti, infatti, esistono clausole di “estinzione anticipata” che, a certe condizioni, permettono ai banchieri di porvi fine, incassando la cifra intera subito, non dilazionata fino al termine naturale. La scadenza, per uno di questi, è il prossimo marzo, su un derivato da 2 miliardi che oggi ha un valore negativo per il Tesoro di ben 849 milioni. Che cosa vuol dire? Gli esperti di Ifa Consulting hanno calcolato che, visto l’andamento dei tassi, l’esercizio della clausola potrebbe costare alle casse dello Stato quasi un miliardo, da versare in marzo a una banca il cui nome non è stato divulgato, chiudendo un contratto che in teoria durerebbe fino al 2036.
Perché ci siamo imbarcati in un’operazione così disastrosa? Benini spiega che in questo tipo di derivato, detto “swaption”, il rischio grava tutto sul venditore, cioè sul Tesoro. Che viene compensato da un premio iniziale versato dalla banca, il famigerato “upfront”: «Purtroppo non è possibile essere molto precisi, perché in un caso così l’incasso iniziale del Tesoro può variare enormemente, da un minimo di 100 milioni a un massimo di 500». In base a cosa? Al potere contrattuale delle due parti o di quanto effettivamente sanno prevedere come si muoveranno i mercati: «Solo avere i contratti ci darebbe risposte esaurienti», dice Benini.
“SMASCHERARE I RESPONSABILI”
Per avere idea di quanto costano agli italiani i 160 miliardi di derivati del Tesoro bisogna scorrere il Conto economico delle amministrazioni pubbliche dell’Istat. Alla riga 66 della tabella numero 22 si scopre che negli ultimi 4 anni lo Stato ha versato alle banche un flusso netto d’interessi di 12,6 miliardi. A questi quattrini, però, bisogna aggiungere i costi non contabilizzati tra gli interessi. Si arriva così a un totale in quattro anni di 16,9 miliardi, 4,5 dei quali nel 2014. In pratica, se il Tesoro non avesse perso quei soldi, Renzi avrebbe potuto azzerare l’Imu sulla prima casa senza tagliare altre spese. Chi ha incassato? Non si sa.
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L’unico caso noto sono i 3,1 miliardi pagati nel 2012 a Morgan Stanley, che esercitò una clausola d’estinzione del contratto, evento che si è ripetuto a vantaggio di banche rimaste ignote: il 10 febbraio Maria Cannata, responsabile debito pubblico del Tesoro, durante un’indagine conoscitiva della Commissione Finanze della Camera, ha detto che altre due clausole sono state esercitate nel 2014, senza nominare le banche coinvolte. Interpellato da “L’Espresso”, il Tesoro ha confermato la riservatezza. «No comment» è stata la replica di JP Morgan, Morgan Stanley, Merrill Lynch, Barclays e Citi, alcuni degli istituti più esposti sui derivati. Ma è legittimo il segreto??È toccato proprio a Maria Cannata, in questi mesi, erigere il muro di silenzio che avvolge i derivati.
Ai Cinque Stelle che chiedevano i contratti, ha detto no perché «un grado così elevato di trasparenza potrebbe farci perdere in termini di competitività». Il direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via, ha spiegato: «Si tratta di contratti privati fra due controparti, e in alcuni casi sono state ottenute condizioni molto buone per l’Italia». La Via si è impegnato a diffondere un report annuale - atteso a breve - sulla gestione del debito, con i dati statistici sui derivati. Ma la linea del Piave resta non fornire i contratti, per non divulgare le condizioni «molto buone».
Questa spiegazione, però, stride con il fatto che, nel marzo scorso, la perdita potenziale aveva toccato un picco record di 45 miliardi, difficilmente giudicabile un buon risultato. E con la necessità di rispondere alle critiche. Giovanni Paglia di Sel ha osservato che, senza trasparenza, il governo può spendere subito i quattrini che incassa quando i derivati vanno bene, senza accantonare nulla per quando vanno male. E Carla Ruocco, deputata dei 5 Stelle, dice: «Visto il rischio di enormi perdite a cui il Tesoro ha esposto i cittadini per i prossimi anni, riteniamo nostro dovere acquisire i contratti, fare una due diligence e trovare le responsabilità».
Per il Tesoro le perdite prevedibili, calate a giugno a 32,4 miliardi («ma a oggi certamente ri-aumentate per effetto del riacquisto di titoli di Stato della Bce», sostiene Benini) non è detto che si verifichino, perché le condizioni di mercato potrebbero mutare. «Tuttavia, ormai dal 2006, queste perdite cosiddette potenziali si stanno regolarmente trasformando in realtà, al punto che a rate abbiamo ormai pagato alle banche svariati miliardi», dice Ruocco, arrabbiatissima per il veto sulla consegna dei contratti: «Sanno che nel Movimento abbiamo non solo la volontà ma anche le competenze per trovare chi deve rispondere dei danni».
Anche fuori dai partiti, la segretezza dei derivati fa discutere. Fulvio Cortese, professore di diritto amministrativo all’Università di Trento, dice che il punto d’equilibrio fra le esigenze del Tesoro e la necessità di trasparenza è una questione delicata. Il segreto di Stato è stato riformato nel 2007 e, a una prima lettura, un decreto attuativo del 2008 sembrerebbe dare a Renzi il potere di blindare i contratti: la prima delle materie a cui il segreto si applica è infatti «la tutela di interessi economici, finanziari, industriali, scientifici, tecnologici, sanitari e ambientali». Per Cortese, tuttavia, un campo d’azione così ampio rischia «di allargare eccessivamente la possibilità di apporre il segreto, rispetto alle norme restrittive indicate dalla legge».
Che sono, tra le altre, l’integrità della Repubblica e la difesa dello Stato. Bollare i contratti come “top secret”, secondo il giurista, potrebbe dunque essere illegittimo. Cortese dice di comprendere la cautela nel comunicare i contenuti di operazioni finanziarie così complesse senza inquadrarle nel modo giusto: «Fornire i contratti a chiunque, anche a chi non ha un interesse circostanziato, può essere eccessivo», osserva, «ma per il Parlamento è diverso: il Parlamento vota il bilancio dello Stato, deve poter controllare come il governo si procura e spende le risorse. Se gli si tolgono gli strumenti per farlo, viene meno il potere di controllo sulle responsabilità politiche di eventuali errori».
QUEI DUBBI DI PADOA-SCHIOPPA
Derivati ne sono stati fatti fin dal 1995 ma, come ha spiegato Maria Cannata alla Camera, è dopo il 2000 che l’attività è andata intensificandosi. Fino al 2005, il governo in apparenza ci aveva guadagnato. I derivati, però, tra upfront, clausole segrete e andamento dei mercati manifestano i loro effetti per anni a venire. Così il governo ha iniziato a perderci nel 2006, al punto che Tommaso Padoa-Schioppa, appena insediato ministro dell’Economia nel governo Prodi, si mise in allarme: «Mi disse che voleva vederci chiaro e fece una commissione con la partecipazione di Banca d’Italia e Consob che, partendo dagli enti locali, doveva individuare i rimedi», ricorda Vincenzo Visco, all’epoca vice-ministro.
Il Tesoro, dunque, cominciò a perdere quattrini ben prima della crisi dei titoli del debito pubblico, anche se gli esborsi s’impennarono proprio dal 2010, quando i Btp furono travolti dalla speculazione e lo spread schizzò all’insù. Il Tesoro ha spiegato che in un contesto così complicato ha voluto tutelarsi da un rialzo dei tassi, per proteggere le finanze pubbliche da uno choc. Le banche erano restie a comprare Btp ed è stato cercato un modo per indurle a farlo. Questo modo è stato, tra l’altro, la vendita delle già citate swaption. La spiegazione ha fatto tuonare Renato Brunetta (Forza Italia) contro il «rapporto di sudditanza psicologica» nei confronti delle banche. E non convince diversi esperti sentiti dalla Commissione Finanze della Camera.
Alcuni hanno sottolineato che l’attività in derivati era forte da anni, quando i Btp non avevano difficoltà ad essere venduti agli investitori, e che le perdite sono partite nel 2006. Marcello Minenna, che insegna finanza quantitativa alla London Graduate School of Mathematical Finance, ha osservato che tre quarti delle perdite potenziali dello Stato (e cioè a giugno 26 miliardi) si riferiscono a circa 100 dei 160 miliardi totali di derivati e che si tratta di operazioni speculative.
Sempre in audizione ha fatto notare che, nel caso in cui su uno swap si perda più di un quarto del suo valore, la probabilità che quelle perdite si materializzino negli anni a venire è altissima. Le considerazioni sue e di altri esperti hanno inquietato la Corte dei Conti che, nell’analisi del bilancio dello Stato, in un giudizio sui derivati firmato da Antonio Buccarelli e Cinthia Pinotti, ha definito «di tipo speculativo» le operazioni compiute dal governo con i soldi dei cittadini. Nel parere si fanno propri alcuni calcoli preoccupanti, come quello che i derivati più in perdita costringano il Tesoro a liquidare già nel giro di 2-3 anni un quinto delle perdite potenziali: un esborso certamente miliardario.
Due fatti meritano di essere citati. Il primo riguarda il tema, per ora ignorato, sui controlli. Se le polemiche sono esplose alzando un po’ il velo, gran parte del merito - involontario - va al derivato da 3,1 miliardi che il Tesoro ha pagato a Morgan Stanley nel 2012. A dare la notizia fu però una rivista inglese per esperti, “Risk”, senza la quale nulla si sarebbe saputo. Il secondo riguarda il futuro: «Non ne faremo più», ha assicurato La Via, riferendosi ai derivati sui tassi, quelli su cui si è perso di più e che non si fanno dal 2013. Una consolazione, che non spegne le critiche per i soldi bruciati finora. E per quelli che lo saranno, ahinoi, nei prossimi anni.