
Che bilancio può fare di questi dodici mesi?
«Il Paese sta un po’ meglio di un anno fa. Mi piacerebbe pensare che sia anche merito del governo. Di certo abbiamo identificato una strategia di politica economica, improntata ad affrontare due grandi problemi italiani: la recessione, una delle più dure nell’Unione europea, e nodi strutturali che ci trasciniamo da almeno venti anni. Stiamo aggredendo le cause con manovre di tipo strutturale e una composizione della finanza pubblica basata sull’abbattimento delle tasse coperto dalla riduzione delle spese».
Cosa non è andato, invece?
«C’è una cosa che mi vede insoddisfatto: il ritmo delle privatizzazioni. Si è rivelato inferiore a quello che si doveva fare. Mi sono reso conto che privatizzare entità importanti come Poste e come Ferrovie non significa semplicemente vendere qualcosa. La privatizzazione richiede una valorizzazione industriale, se non si vuole svendere il patrimonio pubblico. Nel caso dell’Enel ci sono valutazioni di tipo finanziario, bisogna scegliere con attenzione le condizioni di mercato».
Quando siete arrivati al governo, all’inizio del 2014, le previsioni davano la fine della recessione e l’inizio della crescita...
«Lo prevedevano molti osservatori internazionali e anche il governo precedente...»

Il suo predecessore all’Economia Fabrizio Saccomanni disse che il cambio di governo era stato accelerato per paura che Letta si intestasse la ripresa. Il vostro primo Def stimava per il 2014 una crescita tra lo 0,8 e lo 0,9, alla fine siamo arrivati a meno 0,4. Perché vi siete sbagliati?
«Noi economisti, non abbiamo capito per tempo che questa crisi è molto più profonda di una caduta ciclica. Ne parlo al presente perché la crisi non è ancora finita. In una crisi finanziaria le possibilità di ripresa sono sempre molto più deboli di quanto ci si attende. È come pensare di essere usciti dall’influenza e avere una ricaduta».
Per il 2015 gli istituti concordano nel vedere la fine della caduta.
«La probabilità di un errore questa volta è inferiore. I dati finora raccolti convergono nel dire che è stata superata quella mancanza di fiducia per cui non si spende. Un elemento psicologico fondamentale per spiegare perché gli investimenti siano così bassi e le famiglie risparmino di più, pur in difficoltà».
Tra le cause della ripresa ci sono il crollo del prezzo del petrolio, la svalutazione dell’euro, il quantitative easing della Bce di Mario Draghi. Dov’è il vostro valore aggiunto?
«In alcune misure che producono fiducia. Per esempio, gli ottanta euro».
Però i consumi non sono aumentati.
«Non è vero. Negli ultimi mesi si vede una correlazione tra aumento del reddito, aumento della fiducia e aumento dei consumi. Il reddito è aumentato più della spesa, ma la fiducia si sta consolidando. È un fatto che il governo ha introdotto gli 80 euro e poi li ha resi permanenti. Un altro fatto è l’abbattimento permanente delle tasse sul reddito compiuto con uno sforzo di taglio della spesa con pochi precedenti nella storia finanziaria del Paese degli ultimi anni. L’effetto della fiducia crescente sarà ancora più forte sugli investimenti. Abbiamo introdotto tagli dell’Irap e delle tasse per le assunzioni. E poi agevolazioni che cominciano a farsi sentire: le imprese acquistano macchinari, strumenti, fanno investimenti fissi. Vuol dire che tornano a pensare con un orizzonte a cinque anni».
Che Italia avete in testa quando mettete in campo misure come quelle degli 80 euro o il Jobs Act? Quale blocco sociale, come si sarebbe detto in altri tempi?
«Sugli 80 euro il primo obiettivo era la classe di reddito medio-bassa più colpita dalla crisi. Il secondo obiettivo è favorire tutti i meccanismi che creano lavoro, da quello meno qualificato a quello più qualificato. E qui entra in gioco la scuola, cruciale per aumentare il capitale umano. Pensiamo ai ceti più deboli e alle imprese, dall’incentivazione ad assumere alla protezione delle famiglie con il bonus bebè».
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Lei ha parlato di 800mila posti di lavoro in più con legge di stabilità e il Jobs Act.
«Sono stime fatte con la struttura del mercato data. Se i meccanismi strutturali introdotti con la riforma funzionano ci possono essere sorprese positive».
Quanto incide sul fattore fiducia la tensione in Libia e soprattutto in Grecia?
«Il governo greco ha messo sul tavolo un’esigenza che va presa sul serio: portare la Grecia fuori da un lungo periodo di crisi in cui il reddito è crollato e il disagio sociale è aumentato. Per farlo, la Grecia deve trasformarsi strutturalmente, diventare più dinamica con un programma di medio termine. L’Italia sostiene questa richiesta. Ma per arrivare a questa condizione c’è da oltrepassare una fase di transizione delicata in cui bisogna decidere cosa fare degli impegni precedenti e come disegnare gli impegni nuovi. Entrano in gioco le regole europee. Se oggi la Grecia dovesse avere un programma nuovo, in alcuni paesi i parlamenti nazionali dovrebbero approvarlo. Vale per la Germania e non solo. Non ci sono solo la cosiddetta troika e il governo greco. È vero: il governo di Tsipras ha un mandato degli elettori, anche gli altri hanno il loro, però. È la sfida dell’Europa: conciliare le democrazie nazionali con la democrazia europea. Sono convinto che si possa fare e sono determinato a offrire il contributo dell’Italia. L’ingrediente fondamentale è la fiducia reciproca. Senza la quale non c’è flessibilità, ma rigidità, non soluzione condivisa, ma imposta».
Di fiducia tra Grecia, Europa e Germania se n’è vista pochissima.
«Sono giorni complicati, non c’è dubbio. Dobbiamo fare un esercizio di costruzione di fiducia. In condizioni meno complicate durante il semestre italiano di presidenza europea si è posto lo stesso problema nei confronti del nostro governo. Ho percepito che non bastava fare proposte intelligenti, bisognava essere credibili nei confronti dei partners. La possibilità di modificare in meglio le regole dipende dal grado di fiducia tra i paesi che la flessibilità non sarà abusata. Il piano Juncker e la comunicazione su come applicare la flessibilità segnalano maggiore fiducia».
E se la Grecia uscisse dall’euro?
«È una possibilità remota. Soprattutto perché il governo Tsipras assicura che non è sua intenzione uscire dall’euro e gran parte del popolo greco è contrario a farlo. Va dato il segnale che l’euro è irreversibile. Se un paese dovesse uscire non ci sarebbe solo uno Stato di meno nell’Unione, ma la trasformazione dell’euro in un meccanismo che si può disfare. Un meccanismo diverso dalla moneta unica».
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Sul terreno fiscale il governo ha lanciato messaggi contraddittori e pochi interventi. Su molti fronti Renzi procede come un treno, su questo c’è una sensazione di prudenza.
«Non mi parli di sensazioni. Discutiamo di cose specifiche».
Eccone una, ministro. “L’Espresso” ha pubblicato gli italiani della lista Falciani, i correntisti della filiale di Ginevra della banca britannica Hsbc. Su 7500 sono stati individuati 190 evasori. Non è una vergogna?
«Riguarda il passato. Il governo Renzi fa una guerra più efficace agli evasori dei precedenti governi. In passato si diceva: io Stato ti vengo a cercare, poi patteggiamo con il condono. Invece il rapporto tra l’amministrazione e il cittadino deve essere di fiducia. Il contribuente ci guadagna perché può pianificare con maggiore certezza la sua attività d’impresa, valutare il regime fiscale più vantaggioso. Dove l’evasione fiscale è più bassa della nostra questi meccanismi funzionano».
Sul decreto fiscale l’ex ministro Vincenzo Visco ha detto all’“Espresso”: «Un provvedimento stravagante che depenalizzava le grandi frodi e dimezzava i tempi di prescrizione. Questo governo poteva fare certamente di più». Come replica?
«Visco è un mio caro amico. Facciamo una storia della delega fiscale, che è una grande operazione di manutenzione straordinaria del nostro fisco. Con il mio consigliere Vieri Ceriani abbiamo aggregato la materia in due pacchetti. Il primo, in discussione al Consiglio dei ministri del 20 febbraio, contiene le misure per le imprese (Iva, fiscalità internazionale, fatturazione elettronica, catasto). Il secondo, più in là, sarà un altro pacchetto omogeneo, con accertamento riscossione e penale tributario».
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Ci sarà la soglia di punibilità oltre il quale la frode è un reato punito in sede penale?
«C’è il principio per cui bisogna evitare che errori fatti in buona fede vengano automaticamente tradotti in reati penali. Se invece c’è dolo bisogna identificarlo e accentuare le pene. Questo principio c’era nella delega della vigilia di Natale e continuerà ad esserci».
C’era una soglia del tre per cento, sotto la quale scatta la non punibilità penale per chi ha frodato il fisco, condizione in cui rientrava anche Berlusconi. Sarà abbassata?
«La frode è frode e verrà punita sul piano penale. Stiamo invece ragionando per evitare che semplici errori facciano scattare l’azione penale. La combinazione tra soglie e percentuali serve a mettere in pratica questa distinzione tra frode e dichiarazione infedele. Dobbiamo evitare che per un eccesso di attenzione all’aspetto penale si ottenga il risultato che in un’impresa non si fanno più gli investimenti perché gli amministratori temono di finire in galera, non per una frode ma per uno sbaglio».
Ministro, nella lista Falciani sono stati recuperati 30 milioni, contro i 135 inglesi e i 220-300 spagnoli. Gli evasori da noi non hanno nulla da temere...
«È un’altra questione: riguarda la capacità di individuare gli evasori, l’efficienza delle indagini, in ultima analisi, il rapporto con i contribuenti. Tutto questo rimane».
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Ci mancherebbe altro! In altri paesi la categoria degli scudati, i condonati dal fisco garantiti nella privacy, è inesistente...
«Appartiene al passato, anche da noi. Adesso abbiamo la Voluntary Disclosure, la pacificazione fiscale, la massima trasparenza, la cancellazione del segreto bancario introdotta durante la presidenza italiana dell’Ue, e lunedì firmiamo l’accordo con la Svizzera. Lo scudato è un animale tributario del passato».
Si farà la Bad Bank, la garanzia pubblica per sgravare le banche dai crediti di lunga data?
«Non so se si possa definire Bad bank, Stiamo studiando una misura che faciliti lo smaltimento dei crediti incagliati con un intervento dello Stato minimo ma necessario. Ci sono varie proposte, decideremo le misure in base all’efficienza, al costo e alla compatibilità con la disciplina europea sugli aiuti di Stato».
Sul decreto sulle banche popolari il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia (Pd) afferma che la sua posizione è «imbarazzante». «Il decreto non aiuta i crediti alle imprese e si sono aperte inchieste della Consob e della procura di Roma» per insider trading.
«Spero che le inchieste vadano avanti e facciano chiarezza. Ma non c’è nessuna correlazione tra quello che è successo in Borsa e l’emanazione del decreto».
Si studiano i movimenti in Borsa, alla vigilia del decreto, del fondo Algebris del finanziere Davide Serra, amico di Renzi, e della Banca Etruria di cui era vice-presidente il padre del ministro Maria Elena Boschi.
«Banca Etruria è stata commissariata per ragioni di gestione dei suoi bilanci. Ripeto: nego ogni correlazione tra l’approvazione del decreto sulle banche popolari e gli eventi sia di banca Etruria che le indagini della Consob e della magistratura. Questo episodio dimostra che va favorito l’aggiustamento del sistema bancario con una riforma che attende da più di venti anni ma che non è mai stata fatta. Ora c’è un governo che agisce, lo rivendico, perché siamo consapevoli delle novità che avanzano in maniera impressionante. I mercati europei si stanno integrando, c’è un’unione bancaria, c’è un’autorità di sorveglianza europea, c’è quindi la necessità per le banche italiane di rafforzarsi. Questa è la nostra preoccupazione: rafforzare il sistema bancario italiano».
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È vero che lei voleva qualcosa di più? Coinvolgere le banche di credito cooperativo?
«Ne abbiamo parlato. Ci sono modelli che funzionano ad esempio in Francia, dove ci sono le banche di credito cooperativo insieme al Crédit Agricole che è un gigante. Serve un meccanismo che conservi le Bcc ma anche un ente aggregatore, una governance superiore. È un fatto innegabile: le Bcc sono troppe, troppo piccole e per questo esposte a rischi. A chi critica il provvedimento rispondo che continuo a pensare di avere ragione».
Ministro Padoan, in questo è molto renziano.
«Come dice il premier? Io non mollo, vado avanti»