Brevetti e utili in crescita. Esportazioni a gonfie vele. ?Più di tremila nuovi posti di lavoro in un anno, soprattutto operai. Così il settore vive una nuova primavera

farmaci
Parla italiano il primo farmaco a base di cellule staminali approvato al mondo. Si chiama Holoclar ed è nato sulla via Emilia: un po’ nel modernissimo centro di ricerca della Chiesi Farmaceutici, inaugurato quattro anni fa accanto all’Autostrada del Sole, in provincia di Parma, e un po’ nel centro di medicina rigenerativa Stefano Ferrari, spin off dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

La Chiesi è una delle aziende farmaceutiche italiane più in forma. Nel 2014 ha fatturato oltre 1,3 miliardi di euro, con una crescita dell’8 per cento, tra le le più alte del settore in Italia. Chiesi è anche la quinta per brevetti depositati, nell’intera industria italiana, e tra le dieci farmaceutiche col maggior tasso di crescita al mondo. Divenuta famosa per il Clenil, lo spruzzino contro l’asma, ha 1.700 dipendenti in Italia e 2.400 fuori dai confini. Ma, per fortuna, il gruppo di Parma, fondato nel 1935 dal capostipite Giacomo Chiesi e tuttora controllato dalla sua famiglia, non è una mosca bianca, nel Belpaese.

A dispetto delle orazioni funebri che erano state intonate qualche anno fa, quando le multinazionali scappavano e i colossi nazionali erano scomparsi, l’industria italiana del farmaco sta infatti mostrando dati sorprendentemente positivi. Le esportazioni viaggiano. I fatturati crescono. Le società macinano utili: nel 2013, le otto più importanti hanno migliorato i guadagni e nel 2014 le cose sono andate ancora meglio. Ma, soprattutto sta tornando a crescere l’occupazione. «L’anno scorso sono state assunte 3.500 persone , di cui circa duemila giovani sotto i trent’anni», spiega Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, la federazione industriale del settore.

FUGA STOPPATA
Nella prima parte del 2014 il saldo tra assunzioni e uscite - rappresentate soprattutto da chi è andato in pensione - era decisamente negativo. poi le aziende hanno cambiato atteggiamento, intravedendo i primi spiragli di ripresa. così, nel secondo semestre, il saldo è risultato positivo per 1.300 unità, anche perché intanto la corsa alla pensione è rallentata.

La crescita è stata trainata soprattutto dai posti da operaio, che negli ultimi mesi del 2014 sono aumentati cona un ritmo annuo superiore al 4 per cento. e così oggi il totale degli occupati del settore è di 63 mila, cifra che va moltiplicata per due se si calcola pure l’indotto.

Va subito detto che il settore farmaceutico italiano, almeno in fatto di provenienza dei capitali, è fortemente internazionale: per il 60 per cento, il passaporto delle aziende produttive è infatti straniero, con le grandi multinazionali in prima fila. D’altronde, siamo il primo Paese di destinazione degli investimenti di questo genere per Stati Uniti, Germania, Svizzera e Giappone.
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Il rischio teorico, così, è che da un momento all’altro queste multinazionali possano decidere di andarsene. «Di batoste in passato ne abbiamo incassate tante, di fughe ce ne sono state. Però qualche risultato l’abbiamo ottenuto, come nelle recenti vicende della Bayer di Garbagnate Milanese e di Terni, in Umbria: nel primo caso il gigante tedesco ha fatto dell’impianto lombardo il secondo polo industriale più grande al mondo come capacità produttiva di pillole, e negli ultimi mesi sono state assunte quaranta persone, garantendo un futuro più tranquillo, almeno per i prossimi quattro anni», racconta Massimo Zuffi, segretario generale della Femca Cisl. Per Terni, un anno fa la casa madre aveva annunciato un ridimensionamento. «Manager italiani e dipendenti sono però riusciti a far fare retromarcia ai vertici di Leverkusen, che la tagliola l’hanno fatta scattare sullo stabilimento tedesco di Darmstadt: Italia-Germania 1 a 0», si scatena il sindacalista.

Un’iniezione di fiducia arriva anche da Verona. «I dipendenti della Glaxo Smith Kline in Italia possono stare tranquilli per i prossimi vent’anni. Con quello che costa mettere in piedi uno stabilimento farmaceutico all’avanguardia, gli investimenti sono di lunga durata». Le parole a petto in fuori sono di Massimo Ascani, portavoce della multinazionale inglese che, da tempo presente nella città dell’Arena, ha appena comprato i centri di ricerca toscani del colosso svizzero Novartis, uno dei principali gruppi mondiali del farmaco.

L’operazione fa parte di uno scambio miliardario che coinvolge business anche oltre confine. Con questa acquisizione, i dipendenti della Gsk in Italia saliranno a 4.500 unità e il giro d’affari raddoppierà, da uno a due miliardi di euro. Il gruppo britannico ha investito in Italia quasi 240 milioni di euro nel biennio 2013-2014. La metà della somma è servita per rilanciare gli impianti di Verona e il centro di ricerca, che era stato pesantemente ridimensionato tra mille polemiche nel 2010.

QUELLE NOZZE TRA ALFA E SIGMA
Proprio la produzione dei farmaci è il punto di forza dell’italia. Nel decennio 2004-2014, è aumentata del 41 per cento, un dato composto da due tendenze plasticamente opposte. A un calo del 23 per cento per i farmaci destinati al mercato interno, si contrappone l’impennata delle esportazioni, cresciute del 115 per cento.

Nel 1991, le medicine erano al numero 53 della graduatoria italiana dei settori, in termini di export. Ora sono arrivate al terzo posto. «tanto che il governo non perde l’occasione per definirlo un “asset fondamentale”, come ha fatto col filmato presentato al forum di davos, la tradizionale mega riunione dei potenti della terra», ricorda con enfasi il presidente degli industriali farmaceutici. «anche alla luce di questa consapevolezza confido che spinga le regioni a cambiare atteggiamento sui tagli di 2 miliardi di euro alla spesa sanitaria, emerso dall’incontro del 27 febbraio con l’esecutivo», s’infervora scaccabarozzi.

C’è tempo per modificare l’intesa fino al 31 marzo e i signori di big pharma puntano sull’intervento diretto di Matteo Renzi. «a ottobre abbiamo portato i capi delle maggiori multinazionali dal governo, che ha ribadito l’interesse del paese a catalizzare gli investimenti garantendo stabilità.

Ecco perché l’accordo di fine febbraio mi ha lasciato di stucco. Io ci credo al governo, quando sostiene che non vuole penalizzare un settore che sta contribuendo alla ripresa e attrae investimenti», afferma il leader di farmindustria. Il quale, da numero uno in italia della Janssen (del gruppo statunitense Johnson & Johnson), si è appena impegnato a investire altri 80 milioni nella fabbrica di latina, portando a 180 milioni i quattrini messi sul piatto nello stabilimento laziale. Il polo a sud di Roma è il più votato all’export, tra quelli italiani: l’anno scorso ha venduto all’estero farmaci per 7,2 miliardi di euro.
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Accanto alle multinazionali, anche i gruppi italiani hanno voglia di crescere. Certo, è bene non illudersi: un megagruppo come la vecchia Farmitalia Carlo Erba difficilmente lo rivedremo. Però qualcosa si muove: nello stesso distretto dove sta gonfiando i muscoli la Janssen, ha sede la Sigma Tau, protagonista di una delle più significative fusioni tra aziende domestiche del comparto.

Gareggiare con i big non è una passeggiata: così la Sigma Tau della famiglia Cavazza e la bolognese Alfa Wassermann della famiglia Golinelli hanno deciso di sposarsi. Un matrimonio a cui si lavora da un annetto, che porterà alla creazione di una nuova società da 2.500 dipendenti, con ricavi superiori al miliardo e la prospettiva della quotazione in Borsa. La maggioranza resterà in mano alle due famiglie, mentre dall’affare resterà fuori il ramo yankee della Sigma Tau, che nel Maryland si occupa dello sviluppo clinico di prodotti per contrastare le malattie rare, come la leucemia acuta linfoblastica.

COME UNA FERRARI
Alfa Wassermann e Sigma Tau s’accoppiano anche per fare più ricerca, per battere dunque su un tasto dolente. «Non siamo fortissimi su questo fronte, perché le aziende italiane sono piccole rispetto alle multinazionali. Le nostre imprese, per quanto abbiano in misura divesa investito in ricerca, si sono spesso poi sviluppate attorno a un modello diverso, caratterizzato dal “co-marketing”: si lanciano sul mercato molecole sviluppate dalle multinazionali sulla base di accordi di licenza», dice Claudio Jommi, docente all’Università del Piemonte Orientale e alla Bocconi. «Questo modello», continua, «entra però in crisi quando scade il brevetto, arrivano i generici e sui nuovi farmaci in fase di lancio le multinazionali ricorrono meno, per diversi motivi, alla concessione di licenze. Questo ha rilanciato la ricerca anche nelle nostre imprese». Come ad esempio, spiega ancora Jommi, hanno fatto Chiesi e Zambon.

A Vicenza, nel principale stabilimento di quest’ultima, la produzione è fortemente automatizzata ma la manodopera continua a ricoprire un ruolo importantissimo. «Una linea produttiva costa in media 8 milioni di euro e parecchi milioni di manutenzione costante. Questi impianti sono come una Ferrari: non basta possederla, bisogna saperla guidare e i nostri dipendenti sono i migliori piloti in circolazione», dice Maurizio Castorina, l’amministratore delegato della Zambon, 2.600 addetti, di cui mille italiani.

La sua ricetta è divisa in tre: espansione geografica; investimento sugli impianti; shopping di promettenti società di ricerca e sviluppo. Zambon esporta in 73 Paesi e punta a sbarcare in altri due entro l’anno. Nel settembre 2014 ha sborsato 40 milioni per modernizzare la fabbrica vicentina. L’anno prima s’era comprata l’inglese Profile Pharma, creatrice di un farmaco contro la fibrosi cistica. Azionista al 9,1 per cento della Newron di Bresso (Milano), Zambon ha acquistato da quest’ultima il brevetto per produrre lo Xadago, un farmaco che combatte il Parkinson. Per svilupparlo ha speso 132 milioni, assumendo anche 200 persone negli ultimi tre anni.

Anche se il clima volge al bello stabile, la storica biforcazione tra ricerca e produzione resta: debole la prima, forte, molto forte la manifattura di qualità. Lo conferma Alexander Zendher, numero uno di Sanofi Italia, ramo tricolore del colosso francese (con 6 stabilimenti italiani che esportano il 90 per cento): «In generale, in Italia si investe poco in ricerca, sia di base - fondamentale per scoperte e innovazioni - sia avanzata. Ciò può penalizzare lo sviluppo futuro del Paese e sta ritardando la sua uscita dalla crisi economica. Tuttavia, l’Italia ha un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza sul fronte produttivo: la qualità, la specializzazione, le conoscenze e le capacità tecniche del capitale umano. Attenzione però: anche le economie emergenti si stanno sempre più specializzando e il vantaggio competitivo dell’Italia si sta assottigliando».

ORA SERVE UN CENTRAVANTI
Fra un po’, dunque, cinesi e indiani potrebbero riuscire a raggiungere gli stessi standard qualitativi, garantiti anche da un indotto a cui fanno ricorso tutte le multinazionali. Perché è da noi che s’inventano e realizzano le macchine più efficienti per produrre medicine. Nel distretto bolognese del packaging c’è la Marchesini, mille dipendenti e un giro d’affari da 247 milioni di euro, che sforna linee complete, dal dosaggio all’imballaggio; a Padova c’è la Stevanato, 300 milioni di ricavi e 1.900 addetti. Produce fiale in vetro e le esporta per il 90 per cento. Il made in Italy, insomma, è glamour anche nel complicato e delicato business farmaceutico.

«Nel 2011 abbiamo comprato a Singapore un’azienda che si chiamava Invida. Pensavamo di lasciarle il nome originario ma i manager locali ci hanno chiesto di poter usare il brand Menarini, perché la pillola tricolore è sinonimo di alta qualità», racconta Domenico Simone, direttore della toscana Menarini, quella del Fastum, 16.100 dipendenti nel mondo (3.500 dipendenti in patria) e un giro d’affari di oltre 3,5 miliardi.

«Si cresce facendo squadra con le altre società del settore, italiane o estere, investendo in ricerca e sviluppo e non facendosi scappare le occasioni sul mercato», continua Simone, che nel 2013 ha messo le mani sulla start up più innovativa d’Italia, la Silicon Biosystem, nata all’Università di Bologna. Sta sviluppando una biotecnologia che ha l’obiettivo di isolare le cellule antitumorali in modo specifico per ciascun paziente e di dire addio all’amniocentesi, un esame rischioso per il feto. «Farmaci realizzati su misura per ogni malato: il futuro è quello», profetizza il manager. Morale: va bene tirar dritto con la buona fabbrica. Ma la Serie A, tra qualche anno, potrebbe non bastare. Bisognerà trovare il modo di giocarsi anche la Champions League, schierando un centravanti chiamato ricerca.