I nuovi manager della compagnia dell’Eni annunciano 8.800 licenziamenti: “Colpa del petrolio”, dicono. Ma documenti giudiziari e bilanci rivelano una verità più complessa. Mentre la Russia di Putin mette l’azienda nel mirino e l'Italia cerca di salvarla da mire straniere

saipem
Botte da orbi per tre notti a Stavanger, in Norvegia. Da una parte gli uomini del posto, dall’altra i dipendenti della Saipem impegnati a costruire una delle prime raffinerie della Scandinavia. In mezzo: le ragazze della cittadina. Si racconta che la pace fu possibile grazie agli articoli dei giornali locali. Avevano scritto che i norvegesi usavano catene e bastoni, mentre gli italiani combattevano a mani nude; dettaglio che permise loro di attirarsi la simpatia del resto della popolazione ed uscirne vivi. Non si sa bene fin a che punto sia vera la storia ma, rispetto a quel 1966, la fortuna sembra aver cambiato verso per il colosso nazionale dell’ingegneria. Quella norvegese era solo una delle trentasei raffinerie costruite all’epoca in giro per il mondo, assieme al primo oleodotto capace di scendere fino alle Alpi e di attraversarle, la prima perforazione offshore, la metanizzazione dell’Italia, gasdotti posati in ogni angolo del globo. Imprese da record, per la “Società anonima italiana perforazioni e montaggi”. Almeno così è stato fino adesso. Perché oggi la Saipem è un’azienda con quasi 50 mila dipendenti e una crisi che si aggrava di trimestre in trimestre.

IN TRE ANNI PERSO 1 MILIARDO E MEZZO 
Colpa del prezzo del petrolio, ripetono i vertici. A ben guardare, però, il declino è cominciato prima del crollo del greggio. E ha a che fare con alcune operazioni molto particolari. L’ultimo campanello d’allarme è suonato a fine luglio, quando il gruppo di San Donato Milanese ha annunciato di aver perso nei primi sei mesi di quest’anno 920 milioni. Un rosso che si cumula a quello degli ultimi due anni e porta il pallottoliere a sfiorare quota 1,5 miliardi. In Borsa la botta è stata violenta. Rispetto a un anno fa, il titolo oggi vale la metà. E se il confronto si fa con il 2012 la picchiata è ancora più vertiginosa: da 40 euro a meno di otto. Una mazzata per le decine di piccoli azionisti e per lo Stato italiano, che controlla la Saipem attraverso l’Eni. Per spiegare l’ultimo tonfo dei conti l’amministratore delegato, Stefano Cao, arrivato da meno di quattro mesi per mettere le cose a posto, ha dichiarato: «L’ulteriore repentino calo del prezzo del petrolio ha creato una discontinuità significativa, che non prevediamo riassorbirsi nel breve-medio periodo». Analisi che lo ha spinto a annunciare una terapia shock: «Riduzione della forza lavoro dell’azienda di 8.800 persone». Un dipendente su cinque verrà lasciato a casa.

UTILI GIU' PRIMA DEL CROLLO DEL GREGGIO
Nata come costola dell’Eni ai tempi di Enrico Mattei, che la usò come grimaldello per far concorrenza alle Sette Sorelle del petrolio, la Saipem ha oggi una capacità ingegneristica così sviluppata che, si racconta, anche Vladimir Putin ci ha messo gli occhi addosso. Accaparrarsela permetterebbe alla Russia di sfruttare autonomamente i giacimenti più profondi nascosti tra i ghiacci siberiani. Vista la forza attrattiva del gioiello industriale, viene da chiedersi perché l’Italia dovrebbe lasciarselo sfuggire. La spiegazione è stata fornita più volte dall’amministratore delegato dell’Eni: troppi i 5,5 miliardi di debiti della società, ripete da tempo Claudio Descalzi. Se a questo si aggiungono le perdite degli ultimi anni e la recente cancellazione di una commessa importante come il South Stream, gasdotto pensato dalla Russia per portare altro metano in Europa, si capisce perché l’ipotesi di perdere una delle aziende che ha fatto la storia dell’industria italiana non è più un tabù. Tutta colpa del petrolio basso, dunque? Non proprio. Che qualcosa di strano sia accaduto lo suggeriscono i numeri. Con il greggio a 50 dollari al barile i margini di guadagno per la multinazionale italiana si sono ridotti, ma è successo anche alle concorrenti. La differenza rispetto alle parigrado è che i conti della Saipem hanno iniziato a peggiorare già nel 2012, quando il greggio era sopra i 100 dollari. Perché?

IL TEMPISMO PERFETTO DI BLACKROCK 
Una spiegazione viene leggendo le motivazioni con cui la Corte d’Appello di Milano ha confermato qualche mese fa la prima delle tre sanzioni da 300 mila euro totali inflitte dalla Consob alla Saipem per non aver comunicato informazioni rilevanti agli azionisti. Una delle accuse, confermata dalla Corte, è quella di non aver annunciato tempestivamente al mercato che gli affari andavano molto peggio del previsto. L’indagine nasceva da un episodio particolare: poco prima del 29 gennaio del 2013, giorno in cui la Saipem dichiara appunto l’allarme sui conti, il fondo americano Blackrock vende il suo ricco pacchetto azionario. Un caso fortunato, forse, ma secondo i giudici milanesi i vertici di Saipem e Eni sapevano da almeno due settimane che i conti erano peggiorati. E i registri aziendali delle persone che avevano accesso a quelle informazioni, ha stabilito la Consob, in quei giorni non sono stati aggiornati correttamente.

GLI AZIONISTI ACCUSANO: HANNO RIPULITO I CONTI
Casualità che alcuni azionisti non hanno preso bene: 64 soci internazionali hanno citato in giudizio la Saipem chiedendo 174 milioni di risarcimento. Motivo: «Una consistente sovrastima degli utili e quindi un prezzo delle azioni artificialmente gonfiato», ha spiegato Deminor, la società che rappresenta gli investitori arrabbiati. I quali sono convinti che gli improvvisi cali dei risultati annunciati a partire da quel 29 gennaio non siano stati frutto di circostanze impreviste. «Al contrario», ha detto il rappresentante di Deminor, Rosario Marcone, «sappiamo che è stata una vera e propria pulizia dei conti, come ammesso dall’ex amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, all’ex ministro per lo Sviluppo economico, Corrado Passera».

LE COMMESSE GONFIATE
Ma perché ripulire i conti? La sentenza della Corte aiuta a fare chiarezza anche su questo e apre un nuovo capitolo nella crisi, mostrando come i risultati dei bilanci siano stati modificati più volte dagli allora vertici della società e da quelli dell’Eni. Ua raffica di revisioni anomala, iniziata dopo che la magistratura aveva scoperto il pagamento di tangenti in Algeria. Il colloquio citato da Deminor, rivelato dal “Corriere della Sera”, è quello avvenuto a febbraio 2013, all’indomani dell’avviso di garanzia ricevuto da Scaroni per corruzione internazionale. La Procura di Milano sostiene che, per ottenere commesse in Algeria, i vertici Saipem - con l’accordo dell’allora capo di Eni - abbiano pagato mazzette per 197 milioni di dollari finiti a politici e mediatori locali, ma anche ad alcuni manager del gruppo italiano. Nella telefonata intercettata, Scaroni spiega a Passera che a inizio 2012, guardando i bilanci Saipem, si era accorto che qualcosa non tornava, e aveva così deciso di fare controlli più accurati. «Verso novembre ho cominciato ad avere i primi rapporti che mi dicevano che le cose andavano meno bene di quanto ce la raccontavano», dice Scaroni. Che a quel punto racconta di aver costretto alle dimissioni Pietro Franco Tali, l’allora numero uno di Saipem, e di averlo sostituito con Umberto Vergine, il quale «guarda i conti e scopre il buco da cui la vicenda di ieri», racconta all’epoca il capo di Eni, riferendosi all’inchiesta algerina.

Vergine non era un alieno calato in una nuova realtà: già membro del consiglio d’amministrazione di Saipem, oltre che direttore generale Eni, forse avrebbe potuto intuire che qualcosa non filava. Perché il problema non è solo l’Algeria: sono cinque i grandi appalti su cui i ricavi sarebbero stati «sovrastimati», ha detto la stessa società senza rivelare quali. Tra questi ce n’è di sicuro uno in Kuwait, chiamato Bs 171: un lavoro in cui i margini di guadagno sono stati rettificati di 200 milioni, ha scritto la Corte d’Appello di Milano, che per la prima volta ha fatto emergere con chiarezza uno dei cinque casi mantenendo la riservatezza sugli altri.

AZIONISTI IN ROSSO, MANAGER MILIONARI
L’eccesso di ottimismo è costato caro agli azionisti. Da quando la bolla è scoppiata, infatti, il titolo è colato a picco. Al termine delle indagini della Consob, che ha scelto di non impugnare il bilancio del 2012 ma di permettere alla Saipem di rettificarlo, la società ha effettuato svalutazioni per 245 milioni. Non è stato sufficiente. Tra l’anno scorso e quest’anno se ne sono aggiunte per altri 1,3 miliardi. Con conseguenti perdite e crescita ulteriore dei debiti, moltiplicatisi a ritmo rapidissimo proprio negli anni in cui le cose sembravano andare alla grande grazie alle “ricche” commesse. Ad aumentare sono stati peraltro anche gli stipendi dei manager. Tali, numero uno di Saipem dal 2008 al 2012, ha portato a casa 13,9 milioni, quasi 10 frutto dei bonus elargiti sulla base dell’andamento dei margini di guadagno. A beneficiare dei risultati della controllata è stato anche Scaroni, nello stesso periodo a capo dell’Eni, che di soli bonus annuali ha guadagnato oltre 21 milioni. Bei tempi. Ora la Saipem è diventata un fardello troppo gravoso per l’Eni, che vorrebbe vendere una fetta della partecipazione. Farlo ora vorrebbe però dire svendere. Per questo l’ipotesi più accreditata resta quella dell’ingresso dello Stato attraverso il Fondo Strategico Italiano e di un aumento di capitale che rafforzi la società.

LE PROSSIME SFIDE
Le grane per Saipem potrebbero però non essere finite qui. Continua ad essere monitorata dalla Consob. La Procura di Milano ha aperto un’inchiesta contro ignoti per insider trading e aggiotaggio. E le svalutazioni potrebbero proseguire, visto che il gruppo a fine luglio ha detto di aver in bilancio ancora 800 milioni di euro di “pending revenues”, cioè ricavi che non sa se riuscirà ad incassare. Senza l’aiuto del prezzo del petrolio alto, l’azienda creata da Mattei assomiglia sempre più a quei suoi dipendenti in trasferta in Norvegia, graziati perché troppo deboli rispetto agli avversari. Il mercato, però, potrebbe non avere altrettanta compassione.