Il 12 gennaio, ad Atene si sono aperte le buste per l’assegnazione del 67% del porto di Atene, la cui vendita dovrebbe dare, almeno per un po’, ossigeno alle disastrate casse greche.
Unico concorrente alla gara era la compagnia di logistica di Stato cinese Cosco (China Ocean Shipping Group Company); l’ammontare dell’offerta è ancora segreto ma, secondo indiscrezioni raccolte dal Wall Street Journal, dovrebbe superare i 700 milioni di euro.
Soldi che, se le cose fossero andate diversamente, avrebbero potuto piovere su Taranto, città che ne ha quanto mai bisogno e che, da anni, contende ad Atene l’attenzione degli operatori cinesi e la possibilità di diventare ‘la Rotterdam del sud Europa’.
Una sfida, quella tra Taranto e Atene, che va avanti da anni, per lo meno dal 2001, e che, alla fine, sembra aver premiato i greci.
Peccato, perché in un primo e lungo momento sembrava avesse vinto Taranto: nel 2001, in Puglia, erano arrivati i grandi investitori hongkonghesi di Hutchison Whampoa (il più grande terminal operator del mondo) e successivamente la taiwanese Evergreen che, attraverso la Taranto Container Terminal, erano di fatto i padroni del porto, nel quale prevedevano di riuscire a movimentare fino a due milioni di container all’anno.
Le condizioni sembravano esserci tutte: Taranto ha tutte le carte in regola per essere l’approdo naturale delle navi in arrivo da Suez: è dieci giorni di mare più vicina di Rotterdam, ha un grandissima pianura alle spalle, la ferrovia e l’autostrada a pochi minuti, tutta dritta ampia e senza nessuna frontiera da attraversare fino a Milano e al Brennero e, soprattuto, una posizione, unica e preziosa, al centro esatto del Mediterraneo.
C’era tutto. Solo gli investitori asiatici chiedevano alcune opere di ammodernamento. Niente di enorme, ma fondamentali, per loro: la ferrovia, da allargare e allungare un po’ in modo che arrivasse fino al porto; l’autostrada da prolungare di una ventina di chilometri in modo che arrivasse più vicina alla città e, soprattutto, il rifacimento del molo polifunzionale e il dragaggio del porto, da rendere un po’ più fondo, così da permettere l’ingresso in porto di navi più grandi e ampliare i traffici possibili.
Opere, almeno in parte, già finanziate, che aspettavano solo di partire. Nel 2012, l’allora ministro Fabrizio Barca aveva firmato un accordo che prevedeva investimenti pubblici per 300 milioni di euro e i lavori per la nuova foranea a protezione del porto. In cambio, Hutchison si impegna a non spostare il suo traffico sul Pireo.
Solo che, tra una cosa e l'altra, i lavori non partono mai, ma si incagliano in una serie di lungaggini, veti incrociati, ricorsi al Tar che bloccano tutto per mesi e per anni, fino a quando, nel 2014 i cinesi si stufano raccolgono le loro cose e se ne vanno a Atene, portandosi via i loro soldi e i loro i container.
I 568 operai vengono lasciati a casa con un sms: “Sino a nuova disposizione dal 28 maggio lei è dispensata da attività lavorativa” e dal settembre scorso sono in cassa integrazione a zero ore”.
A Taranto sulla banchina vuota, che nel 2015 ha movimentato zero TEU (contro i 900 mila del 2006 e i 600 mila del 2013) non rimane più niente. Anzi no, per ironia della sorte, cominciano i lavori di rifacimento del molo e di dragaggio del porto.
“Quello che da tempo i gruppi cinesi attivi nel porto chiedevano erano una serie di opere di ammodernato del porto- commenta il presidente dell’autorità portuale tarantino Sergio Prete-, primo tra tutti il rifacimenti del molo polifunzionale e il dragaggio del porto, così da consentire l’ingresso di navi più grandi. Questi lavori , nonostante alcuni intoppi, alla fine sono partite e, proprio in questi mesi si stanno compiendo. Ora che i vecchi investitori non ci sono più renderanno Taranto appetibile ad altri operatori. Il porto- continua Prete- non muore, anzi- insiste il presidente- nei prossimi mesi sarà pubblicato un nuovo bando di assegnazione della banchina sei, quella commerciale, lasciata dalle navi di Pechino, che più nuova e ricettiva, tornerà in attività”.
In buona sostanza si lavora per le enormi navi che sono dirette al Pireo.
Ambiente10.10.2012
Chi inquina paga? Dipende