
Eccoli, gli ingredienti del tracollo di Borsa che nei giorni scorsi ha affossato il nostro sistema creditizio. Una tempesta perfetta. Perché di colpo, con l’entrata in vigore delle nuove regole sui salvataggi bancari, il cosiddetto “bail in”, è andata in pezzi ogni procedura che in passato è servita per affrontare le situazioni di crisi. «Nessuna banca deve fallire», era la regola non scritta che le autorità di vigilanza, Banca d’Italia in primis, sono sempre riuscite a far valere ordinando fusioni e acquisizioni, riordinando le pedine di un sistema chiuso in se stesso.
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Oggi nessuno metterebbe la firma sotto una promessa del genere. Il tappo è saltato. Gli sceriffi del credito adesso stanno a Francoforte, alla Bce. E a pagare il conto di eventuali crac d’ora in poi saranno i soci delle banche, insieme agli obbligazionisti, e anche i depositanti, quelli con un conto superiore a 100 mila euro.

La speculazione avrà certamente soffiato sul fuoco ma i problemi sono ben più profondi. E, soprattutto, si stanno manifestando tutti insieme. Ci sono le aggregazioni da fare, che i banchieri con i conti a posto vedono con diffidenza, perché temono di accollarsi ulteriori perdite e preferiscono lasciare nel limbo gli istituti in difficoltà. C’è la questione, nota da anni ma mai affrontata con la determinazione necessaria, dei prestiti accordati a clienti che spesso non meritavano di riceverli e che ora non sono più in grado di restituire il denaro.
Le statistiche parlano di almeno 200 miliardi di euro di crediti in sofferenza. Un numero a dir poco allarmante che è finito al centro di un nuovo scontro fra il premier Matteo Renzi e Bruxelles. Perché il governo, dopo aver tergiversato a lungo, potrebbe essere costretto a fornire alle banche un aiuto di Stato, al fine di permettere loro di rimettersi in carreggiata. Un’operazione non semplice, sia per i vincoli posti dall’Unione Europea, sia per la bagarre politica scoppiata dopo il decreto per il salvataggio di Popolare Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti.
Un ulteriore segnale che mostra come la fiducia nel sistema sia ormai intaccata viene dalle richieste di avviare una commissione d’inchiesta sul sistema bancario, arrivate da uno schieramento politico molto ampio, Cinque Stelle, Forza Italia e anche numerosi parlamentari del Pd di area renziana.
La questione è però controversa. Da una parte ci sono i pericoli: un’iniziativa di questo genere finirebbe per mettere nel mirino anche la vigilanza, ovvero la Consob - che dovrebbe tutelare il risparmio - e soprattutto la Banca d’Italia, che invece è chiamata a garantire la stabilità del sistema creditizio. E rischierebbe di alimentare la sfiducia proprio nel momento in cui è urgente un’azione chiara e convincente per ripristinare la tenuta del sistema creditizio, nella quale l’istituto di vigilanza guidato da Ignazio Visco non può non avere un ruolo determinante.
D’altra parte, tuttavia, non mancano le opportunità perché una commissione d’inchiesta, condotta in modo serio, possa aiutare a capire i motivi del disastro attuale. Perché tra banche salvate all’ultimo minuto e altre appese alla speranza di un intervento pubblico per liberarle dai crediti incagliati, certamente qualcosa in questi anni non ha funzionato. In attesa di capire come Renzi deciderà di muoversi su questo fronte, “l’Espresso” ha provato a raccontare come e perché il sistema dei controlli e della vigilanza si è inceppato, creando nuove crisi anziché risolverle.
1) SE COMANDA IL COMMISSARIO
“L’amministrazione straordinaria dura un anno (...) In casi eccezionali la procedura può essere prorogata per un periodo non superiore a sei mesi”. Così recita il Testo unico bancario (Tub), cioè il complesso di norme che regola l’attività degli istituti di credito. Nella realtà, però, le cose vanno diversamente. Lo dimostrano i casi recenti della ferrarese Carife e di Banca Marche. A fine novembre, quando sono state sciolte per decreto del governo, entrambe erano gestite da oltre due anni dai commissari nominati da Banca d’Italia. Anche l’amministrazione straordinaria dell’abruzzese Banca Tercas, salvata in extremis nell’autunno 2014, è andato ben oltre i limiti fissati dalla legge: 27 mesi. E così, una procedura studiata per affrontare situazioni di emergenza con l’andar del tempo ha finito per trasformarsi in una gestione di lunga durata, di cui non è facile valutare i risultati. Per farlo sarebbe necessaria una trasparenza completa sulle decisioni prese nel periodo di amministrazione straordinaria. E invece la legge prevede che i commissari debbano rendere conto soltanto a chi li ha nominati, cioè la Banca d’Italia. Tocca a quest’ultima autorizzare eventuali azioni civili di terzi nei confronti degli organi della procedura. In pratica la Vigilanza vigila su stessa.
All’occorrenza lo scudo di Bankitalia vale anche nei confronti della magistratura. L’anno scorso, quando Piernicola Carollo e Riccardo Sora, ex commissari alla Cassa di Rimini, furono coinvolti nell’inchiesta sulla gestione dell’istituto romagnolo, l’archiviazione arrivò anche grazie all’intervento di Banca d’Italia, che rispondendo a una richiesta del pm avallò l’operato dei due indagati. In altre parole, tutto si decide nelle segrete stanze di un’Authority chiamata a prendere le decisioni e allo stesso tempo a giudicare l’opportunità delle proprie scelte. Il sistema funziona se il commissariamento si prolunga giusto il tempo (pochi mesi) ad affrontare e risolvere gravi problemi di bilancio o di gestione. I rischi aumentano se invece, come è accaduto di recente, gli inviati di Bankitalia accentrano per anni tutti i poteri sull’istituto.
2) INUTILI ISPEZIONI
Lo hanno chiesto più volte a gran voce i risparmiatori che a novembre si sono visti azzerare i risparmi con il decreto del governo sulle quattro banche commissariate. E da mesi protestano anche i soci degli istituti del Nordest (Popolare Vicenza e Veneto Banca) che si sono visti svalutare le azioni dopo anni e anni di calma apparente. Possibile che gli ispettori, inviati più volte da Banca d’Italia a verificare i conti, non si siano mai accorti dei gravi problemi degli istituti di credito fino a quando la situazione non era ormai compromessa? La linea di difesa di Bankitalia è sempre la stessa: «Abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere», come ha ricordato anche il governatore Ignazio Visco nelle sue recenti uscite pubbliche. Resta però difficile comprendere come mai, per esempio, i prestiti per centinaia di milioni erogati dalla Popolare Vicenza per l’acquisto di azioni proprie siano emersi soltanto all’inizio del 2015, quando la vigilanza sull’istituto veneto è diventata di competenza della Bce di Francoforte.
Anche il rapporto con la Consob, chiamata a tutelare il pubblico risparmio, spesso è costellato di incomprensioni se non di quelle che appaiono come vere e proprie omissioni. Eclatante la vicenda di Banca Marche, che a febbraio 2012 lanciò un aumento di capitale per 180 milioni, (sottoscritto da migliaia di azionisti che ora hanno perso tutto) dopo che meno di due mesi prima Banca d’Italia aveva messo per iscritto in un rapporto le gravissime difficoltà dell’istituto. L’allarme, però, non è mai stato trasmesso alla Consob perché venisse inserito nel prospetto informativo per l’aumento di capitale. E così i risparmiatori sono stati tenuti all’oscuro di informazioni importanti per poter valutare il proprio investimento. In questo caso Bankitalia ha tutelato la stabilità del sistema, consentendo a Banca Marche di puntellare i propri conti grazie all’aumento di capitale, ma sono state sacrificate le ragioni della trasparenza, a danno degli investitori. Nessun problema fino a quando la Vigilanza ha potuto gestire in proprio le crisi bancarie, decidendo tempi e modi di fusioni e acquisizioni in modo che gli istituti più deboli uscissero di scena senza gravi danni per clienti, creditori e azionisti. L’avvitarsi della crisi economica con l’esplosione dei crediti incagliati ha moltiplicato le situazioni di crisi con l’effetto di rendere più complicati questi interventi in corsa. Infine, l’entrata in scena della Bce come authority di Vigilanza, sommata all’introduzione delle nuove regole sul bail in, ha sottratto poteri e margini di manovra alla Banca d’Italia che non è più libera di gestire i salvataggi in totale autonomia.
3) VIGILANZA & SCARICABARILE
Uno dei punti cruciali è chi deve vigilare sulle banche. Un esempio di quanto la situazione sia scivolosa arriva ancora dalle difficoltà di Popolare Vicenza e Veneto Banca. Il 28 maggio 2013 la Popolare Vicenza annuncia un aumento di capitale da 500 milioni di euro. Le nuove azioni vengono vendute ai soci al prezzo di 62,5 euro l’una. Nessuno può dire se si tratta di un prezzo adeguato: i titoli dell’istituto veneto non sono quotati in Borsa, dunque non esiste un mercato di riferimento per le valutazioni.
Tocca fidarsi delle promesse della Popolare, che riacquista i titoli che un socio volesse eventualmente vendere in una specie di mercatino interno. Ma il prezzo dell’aumento era giusto? La risposta è probabilmente no. La Vicenza sarà costretta a farne un altro un anno dopo, sempre a 62,5 euro per azione. E quando in seguito emergeranno consistenti perdite di bilancio, molti soci si ritroveranno con i risparmi bruciati. Un copione simile è andato in scena a Montebelluna, sede di Veneto Banca, i cui titoli erano stati piazzati nel giugno 2014 a 36 euro per azione. Ora che le due banche andranno in Borsa, costrette soltanto dalla riforma delle popolari voluta dal governo, quei titoli verranno negoziati a prezzi largamente inferiori.
Ci sono colpe delle autorità? Ci sono soprattutto interessi in conflitto fra loro. Bankitalia, dice la legge, deve vigilare sulla «stabilità patrimoniale e la sana e prudente gestione» delle banche. E quindi, in una situazione di difficoltà, può essere tentata di badare al sodo, e cioè al fatto che nuovi capitali arrivino a una banca, se questo serve a non farla fallire. Senza preoccuparsi più di tanto se, ad esempio, i titoli di Popolare Vicenza e Veneto Banca erano venduti a prezzi fuori mercato.
Sta invece alla Consob intervenire per difendere i risparmiatori. Perché, dice ancora la legge, la commissione presieduta da Giuseppe Vegas «è competente per quanto riguarda la trasparenza e la correttezza dei comportamenti» degli intermediari finanziari, e perciò anche delle banche. Ecco dunque il rimpallo di responsabilità. Quando una banca fa un aumento di capitale, questo viene prima approvato dalla Banca d’Italia, poi la Consob ne esamina il prospetto informativo. E mettere in discussione valutazioni già avvalorate da Bankitalia può essere difficile, oltre che opinabile: nei mercati finanziari si trova sempre un esperto in apparenza indipendente che si presta a giurare che un prezzo è non solo corretto, di più. Ma la Consob, restando al caso delle due banche venete, aveva un’arma: essendo i titoli non quotati in Borsa, poteva obbligare i due istituti a consegnare ai clienti interessati una “scheda prodotto” in cui avvertiva che si trattava di azioni “illiquide”, cioè non facilmente vendibili, con un elevato rischio di perdite. Non l’ha fatto.
4) CONSOB IN RETROMARCIA
La Consob, in passato, non ha esitato a muoversi contro gli interessi espliciti delle banche e, forse, di quelli impliciti della Banca d’Italia. Il caso più noto risale al 2009, quando la Popolare Milano all’epoca guidata da Massimo Ponzellini propone ai risparmiatori un bond dal profilo di rischio altissimo, noto come “convertendo”. La Consob impone una regola molto stretta: a chi lo compra, gli impiegati della banca devono consegnare una scheda con le caratteristiche del prodotto, dov’è riprodotta una tabella con il calcolo delle probabilità di rendimento del titolo (in gergo si chiamano “scenari probabilistici”). Vi si legge che il convertendo Bpm ha un grado di rischio pari a 5, su una scala da 1 a 5, e che il suo rendimento sarà negativo nel 68,5 per cento dei casi, con una perdita media in questo caso del 40 per cento. La Consob, però, non si limita a questo. Quando il prodotto è ancora in vendita, fa dei controlli e verifica subito che qualcosa non torna: il bond viene venduto a diversi clienti senza che siano informati a dovere. E, già in corso d’opera, impone di modificare le procedure, arrivando a sanzionare i vertici della banca. Queste verifiche saranno cruciali in seguito, quando i clienti raggirati decideranno di rivalersi sulla Bpm, che finirà per pagare i danni. Per un’autorità di difesa dei risparmiatori dovrebbe essere un trionfo. E invece la Consob fa marcia indietro.
5) E VEGAS CHIUDE LA PORTA
Alla fine del 2010 alla guida della Consob arriva Giuseppe Vegas, fino ad allora vice del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Dopo il caso Bpm, i malumori delle banche contro le “schede prodotto” e gli “scenari probabilistici” hanno già fatto breccia. Vegas dà il colpo di grazia. Convoca tavoli di consultazione a cui partecipano anche le associazioni di difesa dei consumatori. Una di queste, la Federconsumatori, redige un documento in cui afferma che quel tipo di rappresentazione dei rischi va confermato. Costituisce infatti lo «strumento fondamentale per veicolare le informazioni chiave che consentono di effettuare decisioni d’investimento consapevoli», dice il documento, che cita come esempio strumenti quali le obbligazioni convertibili e quelle subordinate, proprio quelle azzerate due mesi fa dal decreto Salvabanche.
Francesco Avallone, vice-presidente di Federconsumatori, racconta che «i risultati dei tavoli di lavoro istituiti dalla Consob non vennero mai resi noti» ma che, al contrario di quanto richiesto dalle associazioni, «gli scenari probabilistici sparirono». Un peccato, perché avere una scheda che comunicava con immediatezza i possibili guadagni e perdite di un investimento, con le relative probabilità, era certamente di grande aiuto. Non solo. All’investitore, e anche all’impiegato allo sportello, bastava leggere per capire se quel bond subordinato era conveniente, perché sarebbe stato impossibile classificare come a basso rischio un prodotto che aveva il 40-50 per cento di probabilità di causare perdite pari a due terzi del capitale. Non sono numeri a caso, sono gli scenari probabilistici di un bond subordinato della Popolare Etruria, pubblicati da “l’Espresso” a dicembre. Forse i clienti avrebbero voluto conoscerli prima.