Paese che vai, fisco che trovi: così le divisioni europee aiutano i paradisi fiscali
La mancata armonizzazione dei prelievi nei Paesi del Continente favorisce il fenomeno di società e persone che si spostano dove è più vantaggioso
Negli anni Settanta grandi e medi imprenditori andavano a caccia di franchi svizzeri mettendosi in fila ai valichi di Chiasso e Brogeda con due "paure", i rapimenti e i comunisti. La globalizzazione portò poi a una maggiore creatività degli evasori fiscali, a viaggi in "paradisi" meravigliosi o a latitudini panamensi, con un alibi che nasconde una certa ingordigia: la pressione del Fisco in Italia è troppo alta. «Chi dice questo è disonesto intellettualmente», incalza subito Francesco Tundo, docente di Diritto tributario all’Università di Bologna, se non ti va bene il sistema fiscale nel quale vivi e lavori, puoi trasferirti in un altro Paese».
Oggi la vita è un po’ più difficile per i furbetti delle tasse. Dopo decenni passati inutilmente, tra chiacchiere e disinteresse, le organizzazioni internazionali hanno deciso di stringere la cinghia. Merito, probabilmente, degli scandali scoppiati, file "rubati", liste pubblicate, migliaia di vip e non vip finiti loro malgrado sulle prime pagine dei giornali.
Un giro di vite c’è stato, sia pur non definitivo. Grazie all’Ocse e, da ultimo, al suo "Common reporting standard", sullo scambio internazionale di informazioni. Sottoscritto già da una settantina di Paesi, Italia inclusa, e altri pronti a firmare, che diventerà automatico a partire dal 2017. Prevede, tra le altre cose, l’obbligo degli intermediari bancari e non di acquisire il codice fiscale di tutti gli investitori stranieri. Panama non avrebbe mai collaborato e firmato il Crs, ma dopo le recenti rivelazioni sarà difficile restare fuori. Tundo sottolinea che piuttosto che rimanere isolate hanno preferito aderire al modello Ocse mete una volta predilette da persone e società a caccia di fisco zero e di anonimato facile come Svizzera, Montecarlo, Hong Kong e le mitiche Isole Cayman. Dal dicembre 2014 esiste poi una direttiva dell’Unione europea che percorre la strada aperta dall’Ocse.
«Per chi vive e svolge un’attività in Italia è quasi impossibile ormai trasferire illecitamente soldi all’estero, e le sanzioni sono elevatissime anche grazie alla legge sull’autoriciclaggio», sottolinea Tundo. Certo, se vuoi andare a Montecarlo per pagare tasse zero sul reddito o basse sulle società devi trasferirti, lavorare lì e portarti pure la famiglia, non bastano gli interessi economici nella nuova residenza, ci vogliono anche quelli affettivi. Il trasferimento fittizio è ora un’impresa ardita a Monaco, dove era stato pescato a suo tempo Luciano Pavarotti, come a Londra, scelta più recentemente da Valentino Rossi. Il trucco non riuscì.
Un passo avanti nella lotta all’evasione fiscale all’estero è stato ottenuto con il citato scambio di informazioni. Prendiamo la vicina e battutissima Svizzera. La guerra fatta dalle autorità americane e tedesche ai conti dei propri cittadini contribuenti nascosti nei bunker elvetici ha prodotto un risultato: la caduta del segreto bancario, in un Paese nel quale veniva considerato un’icona alla stregua di Guglielmo Tell.
Intendiamoci, il ricco o super-ricco che lì risiede resta coccolatissimo. Come non dimenticare l’esito del referendum promosso dalla sinistra e tenuto nel novembre 2014: vinse il no all’abolizione della tassazione a forfait, che si basa sul tenore di vita e sul "dispendio" del contribuente nel Paese e non sul patrimonio o sul reddito effettivo. Una proposta formulata per eliminare i privilegi fiscali dei milionari, sonoramente battuta con il 60 per cento dei consensi.
Erano residenti nella Confederazione e potevano continuare a godere dei notevoli vantaggi fiscali 5.600 facoltosi stranieri (dati 2012). L’imposizione sul "dispendio" è legge federale dal 1949, ma ha ricevuto qualche colpo da iniziative popolari in cantoni dove è stata abolita o digerita a patto di condizioni più severe. Il fondatore dell’Ikea, Ingvar Kamprad, per fare un esempio, vive da 40 anni nel Vaud e non ha mai pagato più di 200 mila franchi di tasse all’anno a fronte di un patrimonio valutato tra 21 e 36 miliardi di franchi.
Una moda molto in voga era l’esterovestizione e cioè farsi una holding finanziaria in Olanda e Lussemburgo, alla quale facevano capo società produttive con sede in Italia. Gli utili finivano sopra, godendo di tassazione privilegiata. «Ormai tutti gli ordinamenti nazionali», precisa Tundo «prevedono che la residenza delle società dipenda da dove si svolge l’attività e da dove questa è effettivamente amministrata. È finita quindi l’epoca dei "Dutch sandwiches", che molti pianificavano negli anni Novanta». Gruppi italiani di primo piano, come Luxottica, Ferrero, Fiat, le banche hanno comunque fatto tesoro di questa opportunità in Paesi dell’eurozona.
Restano forti gli elementi di concorrenza nell’area della moneta unica e ancor più all’interno dell’Europa nel suo insieme, in una sorta di corsa al ribasso delle tasse soprattutto societarie. Se non ci si trasferisce davvero, è possibile che si verifichino casi di elusione fiscale. Una zona franca resta l’Irlanda e lo dimostrano le recenti inchieste dell’Agenzia delle Entrate sulle società tecnologiche e Internet, da Google ad Apple, accusate di aver celato al Fisco centinaia di milioni di euro. Nelle attività sul web è forse più facile nascondersi ai controlli. Ma non solo. Nel settore farmaceutico la fusione tra Pfizer e Allergan è stata bloccata dalle autorità Usa perché l’obiettivo principale era quello di trasferire la sede sociale in Irlanda per pagare un’aliquota sugli utili molto più bassa. Secondo alcuni studi, l’elusione fiscale (versione legale dell’evasione) costa agli stati Ue 150 miliardi all’anno. Ai Paesi finora più battuti ne vanno aggiunti altri capaci di una concorrenza sotto questo aspetto molto forte. La Lituania, dove l’aliquota massima non supera il 21 per cento, Islanda, Malta e, fuori dalla Ue, Albania e Montenegro. Siamo certo molto lontani dall’agognata armonizzazione fiscale.
Un capitolo a parte merita la Gran Bretagna, a due mesi dal referendum del 23 giugno nel quale i cittadini si devono pronunciare se rimanere nella Ue. La credibilità del premier David Cameron vacilla dopo il suo coinvolgimento nei Panama Papers. Lui è a favore della Ue, ma ha contro una fetta consistente del suo partito, i conservatori.
Gli inglesi sono tradizionalmente euroscettici e una vittoria della cosiddetta Brexit è a questo punto possibile, se non probabile. Sulle tasse Londra ha sempre avuto un occhio di riguardo. Per gli elusori. A metà marzo il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, si è buttato alla rincorsa dell’Irlanda proponendo una riduzione delle tasse sulle imprese dal 20 al 17,5 per cento (a Dublino siamo al 12,5 per cento) entro il 2020 e sui capital gain dal 28 al 20 per cento, con alcune fasce addirittura al 10 per cento. La stessa Irpef sul lavoro dipendente è agevolata rispetto al resto d’Europa. Per non parlare, infine, di Guernsey e Jersey, le isole del Canale tuttora paradisi fiscali, dove risiedono molti trust e operano con disinvoltura hedge fund e fondi di private equity.
Il sogno europeo di tasse uguali per tutti i cittadini pare lontano dal realizzarsi. D’altronde a presiedere la Commissione europea, come sappiamo, i leader dei due principali partiti hanno messo Jean-Claude Juncker, già premier del "paradiso" Lussemburgo. Lo scandalo LuxLeaks del novembre 2014 non lo ha minimamente scalfito. E martedì 12, per rispondere allo schiaffone dei Panama Papers e lavarsi la coscienza, la Commissione ha deciso di pretendere da circa 6500 multinazionali comunicazioni su quante tasse pagano in ciascun Paese europeo, in altre aree e nei paradisi fiscali. Meglio tardi che mai.