No, il nostro benessere non si misura con i punti del Pil
Il Prodotto interno lordo è una variabile screditata da anni e che non aiuta a misura davvero lo stato di salute di un paese. Eppure per la politica economica resta centrale.Ecco perché e cosa servirebbe fare per superarlo
Che il Prodotto interno lordo (Pil) non sia un affidabile misuratore del benessere è tesi tutt’altro che nuova. Ne troviamo un’eloquente espressione già nel celebre discorso di Robert Kennedy all’Università del Kansas (1968). E tuttavia, nonostante l’equivalenza tra Pil e benessere sia stata reiteratamente screditata, la sua influenza sul discorso pubblico e sull’elaborazione di politiche economiche rimane enorme. Non c’è variabile economica più compulsivamente invocata per trarne conseguenze politiche.
Il Prodotto interno lordo è il valore totale di mercato di tutti i servizi e beni finali prodotti dall’economia di un paese in un certo lasso di tempo. Concretamente il Pil finisce per essere la misurazione del monte reddituale totale in un’economia. Perché questo parametro sarebbe disgiunto da una valutazione del benessere della cittadinanza?
Una prima ragione è che il Pil non misura gli introiti dei cittadini di un paese (lo fa il Prodotto nazionale lordo), ma solo gli introiti prodotti sul territorio del paese. Ciò fa sì che la produzione e il guadagno di lavoratori o aziende stranieri in Italia conti come nostro Pil anche se, per ipotesi, tutto il relativo reddito finisse su conti correnti all’estero e venisse colà speso. Uno spostamento totale del reddito fuori dal paese di produzione è un mero caso di scuola, ma non lo è il fatto che accaparrarsi investimenti esteri a colpi di agevolazioni fiscali può far aumentare il Pil mentre non fa aumentare la ricchezza del paese.
Una seconda ragione, più radicale, è che esistono numerosi beni e servizi la cui unica funzione è di difenderci da problemi di nuova insorgenza. Spesso per venire incontro ai meccanismi di mercato si introducono cambiamenti sociali, ecologici, industriali con danni collaterali come l’aumento della criminalità, il degrado dell’ambiente, l’aumento di stress lavorativo, eccetera. Paradossalmente le nostre spese per difenderci da questi nuovi mali, dalle porte blindate alle assicurazioni sui beni, dalla depurazione dell’acqua alle cure mediche, ecc. finiscono nel conteggio del Pil. Naturalmente esse non segnalano l’appagamento di un desiderio, ma solo la neutralizzazione di una nuova minaccia.
Una terza ragione concerne il passaggio di beni e servizi dalla sfera informale a quella monetaria. Esistono beni e attività innumerevoli che esulano dalla sfera di mercato: possiamo passeggiare in un bosco, o bagnarci su una spiaggia, o lasciare i bambini alle cure di un nonno, senza metter mano al portafoglio. Ma se il bosco o la spiaggia vengono privatizzati, o se il nonno è indisponibile perché continua a lavorare, non potendo andare in pensione, ciò ci obbliga a ricorrere a transazioni economiche per ottenere la medesima utilità. Questi disagi vengono registrati come aumento del Pil, giacché per ottenere ciò che prima era gratuito ora dovremo guadagnare (lavorare) di più.
Una quarta ragione è che in tutti i processi di produzione vengono consumate risorse (naturali o sociali) il cui deperimento non compare nel conteggio del Pil. Ciò avviene in modo macroscopico sul piano ambientale, dove il processo di esaurimento di risorse come petrolio, pesce, legname, ecc. rimane invisibile al calcolo economico, in cui si manifesta solo come gioioso aumento produttivo.
Oltre a queste obiezioni ve ne sono di più dirette, come il fatto che il Pil sia una misura media (indifferente alle diseguaglianze interne), e che non catturi neppure l’intuitiva variabile “potere d’acquisto” (ignorando il rapporto con il costo della vita).
In linea di principio un paese può andare progressivamente a picco sul piano sociale, civile, culturale, ambientale, famigliare, psicologico mentre il suo Pil passa di trionfo in trionfo. Questa divergenza era stata catturata già negli anni ’70 dal cosiddetto “paradosso di Easterlin”, che notava su base statistica come all’aumentare del reddito disponibile il soddisfacimento personale aumentasse all’inizio, per poi appiattirsi e regredire.
Ora, posto che il nesso tra Pil e miglioramento della vita è o contingente o immaginario, e che questa verità, lungi dall’essere un’opinione esoterica, è da tempo un’istanza consolidata, ci si potrebbe chiedere com’è possibile che continuiamo a pendere dalle labbra del prossimo bollettino sul Pil e a determinare politiche pubbliche su questa base.
È però vero che variazioni del Pil possono mordere molto direttamente nelle carni dei popoli. Trattandosi di una variabile valutata dai mercati internazionali, e persino incastonata in quel totem europeo che è il rapporto Deficit/Pil, suoi spostamenti possono comportare ritiro di investimenti e disoccupazione. Ma questo significa solo che la misura del Pil ha effetti reali sul benessere collettivo perché alcuni individui in posizioni strategiche credono che abbia effetti reali.
Va peraltro osservato come quelli cui piace intrattenere questa credenza hanno spesso ragioni private, ma molto concrete, per farlo, giacché le alterazioni del Pil, se c’entrano poco con il benessere collettivo, c’entrano parecchio con i margini di profitto a breve termine del mercato dei capitali. Senza troppa malizia: la posizione di eminenza teorica del Pil nel dibattito pubblico, e nelle scelte politiche nazionali, deriva in ultima istanza dall’utilità di quella variabile per gli investitori internazionali e il ceto politico che li tutela.
Ci sono stati molti tentativi di mettere in campo una misurazione del benessere da opporre criticamente al Pil: dallo Human Development Index, all’Index of Sustainable Economic Welfare, fino agli ottimi rapporti BES dell’Istat. Tuttavia perché una tale proposta diventi una base significativa per orientare le politiche è necessario si pervenga a un indice unitario, affidabile e duraturo.
L’Italia è il primo paese ad aver introdotto ufficialmente, dal 2016, un tale indice, il che sarebbe motivo d’orgoglio, se la sua implementazione non fosse stata imbarazzante. L’indice attuale è determinato da soli quattro parametri (reddito medio, indice di diseguaglianza, tasso di inoccupazione ed emissioni di CO2) che sono palesemente arbitrari, non rappresentativi, e in parte sovrapponibili a quelli già conteggiati dal Pil. Questa scelta lascia presagire l’ennesima ammuina gattopardesca: difficile non pensare che si tratti di parametri scelti per dar a intendere che il tema sta a cuore, ma con la garanzia di non disturbare il conducente.
Peraltro non è difficile comprendere i timori di chi, non solo in Italia, voglia introdurre tali parametri alternativi. Farlo potrebbe infatti rivelare rapidamente ai più come le epiche tenzoni politiche incentrate su qualche decimale del Pil siano state grandi sceneggiate ad uso del pubblico votante. Mostrare come l’ossessiva misurazione del nostro “progresso economico” sia di fatto – magari all’insaputa degli attori che la inscenano – una recita mistificante, potrebbe dare il colpo di grazia ad una classe politica la cui credibilità presso l’opinione pubblica è da tempo ridotta a brandelli.