L’Italia non è stata l’unica a scommettere sui derivati. Delle nazioni che fanno parte dell’Unione europea, però, il nostro Paese è quello messo peggio. È questo uno dei dati più impressionanti contenuti nel libro “La voragine”, scritto dal giornalista dell’Espresso Luca Piana e appena pubblicato da Mondadori. Con un linguaggio comprensibile anche ai non addetti ai lavori, il libro indaga il complicato mondo dei derivati, strumenti finanziari che nel silenzio generale hanno scavato un buco enorme nei conti pubblici italiani, ?e i cui effetti rischiano di farsi sentire ancora per molti anni ?sulla vita pratica dei cittadini.
I derivati in teoria dovrebbero servire per assicurarsi contro i rischi, come per esempio l’aumento dei tassi d’interesse. Se i tassi aumentano, infatti, crescono generalmente anche i costi per chi si è indebitato. Poiché l’Italia ha uno dei maggiori debiti pubblici al mondo, può non sorprendere il fatto che il nostro Paese abbia sottoscritto parecchi derivati. I rischi connessi a questi strumenti sono però altissimi. E noti da tempo. Warren Buffett, considerato unanimemente il più grande investitore di Borsa di tutti i tempi, già nel 2002 li aveva definiti «armi finanziarie di distruzione di massa». Armi che hanno procurato ferite pesantissime al bilancio pubblico italiano, ma non a quello degli altri Paesi europei che li hanno sottoscritti. Gli unici dati ufficiali che permettono di tracciare ?un confronto con le altre nazioni risalgono al 2013, quando la situazione dei contratti firmati dal nostro ministero dell’Economia non era ancora degenerata ai livelli raggiunti negli anni successivi.
Già allora, tuttavia, la situazione era grave. Per capirlo bisogna prendere in considerazione il “mark to market”, valore che indica ?il guadagno o la perdita potenziale dei derivati comprati da un Paese. Ebbene, ?nel 2013 il mark to market dei derivati sottoscritti dall’Italia era negativo per 28,9 miliardi di euro. Tralasciamo pure il fatto che solo un anno dopo il rosso teorico era già arrivato a 42 miliardi. Il punto è un altro. E cioè che ai nostri vicini la scommessa è andata meglio, a volte molto meglio. Nel 2013 le perdite potenziali della Germania erano infatti pari a 16 miliardi, quelle ?della Grecia sfioravano i 4 miliardi, quelle del Portogallo ammontavano a poco più ?di 1 miliardo. Alcuni Paesi, come Spagna ?e Belgio, non hanno mai sottoscritto derivati, mentre tra quelli che hanno deciso di scommettere c’è anche chi potrebbe guadagnarci.
Nazioni come la Danimarca, l’Olanda, la Svezia, la Finlandia, l’Irlanda e la Francia segnavano infatti – sempre nel 2013 - mark to market positivi, ovvero potenziali profitti su quei contratti. Com’è possibile? I governi che si sono succeduti in Italia negli anni passati sono stati sfortunati nelle loro scommesse finanziarie o hanno consapevolmente scaricato le perdite sui loro successori? Risposte precise a queste domande sono impossibili da dare perché, come spiega Piana nel suo libro, «a dispetto degli interessi in gioco e del diritto degli italiani a essere informati sul modo in cui i loro quattrini vengono spesi, sui derivati esiste di fatto un segreto di Stato».
Insomma, non si possono conoscere i dettagli di tutti i derivati sottoscritti con le banche d’affari, e non si possono di conseguenza attribuire con certezza eventuali responsabilità dei politici o dei dirigenti che si sono succeduti al ministero dell’Economia. Di sicuro c’è un fatto. Come emerso grazie all’indagine della Commissione Finanze della Camera e ai calcoli contenuti ne “La voragine”, solo dal 2011 al 2015 l’Italia ha subito un costo di 23,5 miliardi di euro per effetto degli interessi netti pagati sui derivati e degli altri oneri connessi. In media equivalgono a 4,7 miliardi l’anno. Una somma enorme. Basti dire che ?per aiutare i cittadini più poveri lo Stato ?spende 1 miliardo l’anno.
La scommessa persa sui derivati ha dunque privato il Paese di risorse importanti in un momento di crisi. E potrebbe non essere finita qui. I contratti attivi restano molti, anche se non si sa con precisione quanti siano. Gli ultimi scadranno nel 2062.