
Di fatto la parola Stato, che ha perso negli ultimi anni molto del suo valore, come evidenzia la fiducia in picchiata presso i cittadini delle sue istituzioni, dalla magistratura al Parlamento (lo ha appena documentato il Rapporto Demos di Ilvo Diamanti), ha trovato un avvocato difensore che intercetta un’esigenza: riaccreditarne il concetto, soprattutto in campo economico. Una necessità nata dal caso Monte dei Paschi, la grande banca in cui lo Stato si appresta ad entrare come azionista di controllo persino con il placet rassegnato di un ultra-liberista coma Luigi Zingales, che ha ammesso che di fronte al rischio di crisi dell’intero sistema non si poteva fare altrimenti. Ma che fa tornare alla mente che fu proprio così, per far fronte alla crisi delle banche, che negli anni Trenta nacque l’Iri: doveva essere temporaneo ed è durato settant’anni, diventando il centro della politica economica del Paese in chiave statalista. Senza contare che è stato il grande scandalo di Tangentopoli, e cioè la mancanza di una intercapedine tra potere politico e imprese pubbliche a determinare le privatizzazioni italiane.
Che le teorie del libero mercato, con tutto ciò che le accompagna, dalla globalizzazione alle grandi istituzioni multilaterali nate dopo la guerra, fino all’Unione europea con la moneta unica, stiano vivendo un momento di riflusso ovunque, è un dato. Che non sfugge ai politici che vogliono avere un futuro, come hanno dimostrato le campagne per le primarie in Francia, dove il campione della gauche Arnaud Montebourg, sempre avverso al binomio liberismo-globalizzazione, lo ha condito con l’idea di finanziare una agenzia nazionale di sostegno della cultura “made in France”, e con lo stesso messaggio - la celebrazione del prodotto francese, il ritorno alla produzione in casa piuttosto che l’import - si è mosso per i socialisti l’ex primo ministro Manuel Valls.
Da noi un politico ambizioso come Andrea Orlando ha promosso all’indomani del referendum un suo think tank chiamandolo “Lo Stato presente”, con la dichiarata volontà di ricostruire lo Stato, denigrato perché “sentito come assente”. Mentre Carlo Calenda sta interpretando il ruolo di ministro dello Sviluppo economico con una verve statalista sconosciuta ai suoi predecessori: mena fendenti su Alitalia («è stata gestita male»), scende in difesa dell’Italia («terreno aperto per ogni tipo di incursione speculativa»), apre il cantiere per rafforzare il “golden power” che lo Stato usa in settori specifici (difesa, sicurezza, trasporti, energia e tlc) e si affianca al governo tedesco per chiederne una versione più incisiva. Soprattutto, modernizzando un colbertismo vecchia maniera, Calenda lancia il progetto dell’industria 4.0, che vuole essere una versione aggiornata della politica economica tanto vituperata fino a poco tempo fa dai sostenitori degli spiriti animali.
Il riflusso verso lo Stato non sfugge neanche agli economisti, tra i quali finora il mainstream è stato convintamente pro mercato. Nel Gruppo dei 20, creato e animato da Luigi Paganetto, presidente della Fondazione Tor Vergata Economia, di recente si è dibattuto fino a che punto lo Stato potesse o dovesse intervenire nel caso Mediaset-Bolloré in difesa dell’azienda di Berlusconi, e nelle banche per salvarle dal crack. Anche se la parola d’ordine resta “via libera allo Stato solo se il mercato fallisce”, Franco Bassanini ha ricordato come le nostre imprese si misurino con altre che hanno dietro sistemi molto più statalisti, e che quando le nostre banche vengono acquisite dall’estero, è il risparmio italiano che va fuori confine. «Credo che il ritorno a un ruolo attivo dello Stato sia opportuno», afferma Gianfranco Viesti, docente di economia applicata a Bari, e autore con Fabrizio Onida del libro “Una nuova politica industriale in Italia”: «Noi l’abbiamo ridotto ai minimi termini, mentre gli altri - Germania inclusa - lo hanno usato per alimentare la domanda pubblica. Da noi si pensa che meno fa lo Stato, meglio è: occorre rovesciare questo clima».
«Di certo oggi c’è meno pudore nel sostenere gli interventi discrezionali dello Stato», sbotta Alberto Mingardi, politologo e direttore dell’Istituto Bruno Leoni, fortezza del liberismo: «Lo dimostra il caso Mps, dove anche il tentativo di una soluzione di mercato per salvare la banca è stato pilotato dalle stanze del ministero dell’Economia in veste di banca d’affari. Un balletto stucchevole». «Quello che manca in questo Paese non è l’intervento pubblico, ma una chiara strategia di policy», taglia corto Paganetto, «non ha senso difendere Mediaset che ha un modello di business superato, ma avrebbe senso uno Stato che promuovesse un Fondo del risparmio italiano al servizio degli investimenti qui da noi».
E l’impresa privata di questa marea montante di statalismo che dice? Mentre la Confindustria è sedotta dalle promesse sull’industria 4.0 di Calenda sperando che un grande programma nazionale di stampo pubblico possa finalmente promuovere quell’innovazione che il nostro apparato di imprese non riesce a fare da solo, l’Abi assiste al ritorno dello Stato banchiere con distacco: si tratta di qualche mela marcia in un mondo di banche sane, e niente più. Ma come fa notare Marcello Messori, direttore della scuola di Economia politica della Luiss, «nel mondo bancario i casi problematici oggi sono già una decina: vedremo poi cosa succederà tra le Popolari dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ne ha bloccato la trasformazione in spa, e cosa bolle tra le banche di credito cooperativo». Insomma: Siena, per lo Stato, potrebbe essere solo la prima fermata.