I lavori della commissione d’inchiesta sul credito. E i giochi intorno al rinnovo della carica di governatore. Un cocktail micidiale che rischia di far traballare l’istituto

Palazzo Koch
Partiamo dalla testa, e cioè dalla Costituzione italiana. Dice l’articolo 47 che la Repubblica «tutela il risparmio in tutte le sue forme» e «disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito». È proprio in virtù di questi princìpi che, nelle prossime settimane, quando entreranno nel vivo i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario, i quaranta senatori e deputati che ne faranno parte dovranno rispondere ad alcuni delicati interrogativi. Perché in Italia, a dispetto di tutte le tutele previste, nel giro di pochi giorni sono arrivati a un passo dal fallimento ben tre importanti istituti di credito? E perché, se si torna indietro a fine 2015, salgono addirittura a sette le banche che hanno avuto bisogno di misure eccezionali per scongiurare un crac?

Come in Italia accade spesso, l’opera di approfondimento della commissione d’inchiesta incrocerà una questione di bruciante attualità, politica e istituzionale. Il prossimo primo novembre, infatti, terminerà il mandato di Ignazio Visco alla guida della Banca d’Italia, e il governo di Paolo Gentiloni dovrà decidere se rinnovare il mandato del governatore per altri sei anni o indicare un sostituto. La Banca d’Italia è oggi meno autonoma di un tempo e svolge il suo ruolo all’interno del sistema della Banca centrale europea (Bce), sia quando si tratta di decidere la politica monetaria dell’area euro, sia quando deve vigilare sulle banche. Eppure, a dispetto del prezzo pagato al processo di unificazione europea, l’incarico di Visco fa gola a tanti, nei partiti e nel sottobosco dei poteri forti.

È questo l’appuntamento che rende ancor più delicata l’attività che verrà svolta dalla commissione. Finora, nel dibattito sulla sua nascita, l’attenzione si è concentrata sugli aspetti più politici della tempesta bancaria, con il Movimento 5 Stelle deciso a cavalcare gli errori attribuiti ai governi di Gentiloni e soprattutto di Matteo Renzi, e quest’ultimo pronto a rivendicare il fatto che il dissesto delle banche ha origini e colpe più antiche rispetto al suo arrivo a Palazzo Chigi. Man mano che i lavori procederanno, però, saranno messe necessariamente a fuoco le mosse che in questi anni ha compiuto la Banca d’Italia, e il dibattito che ne seguirà potrebbe influire sul rinnovo dell’incarico di Visco.
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Quella di governatore, però, non è una normale poltrona pubblica: i compiti che svolge la banca richiedono le più ampie garanzie di indipendenza possibili. Ed è forse per questo motivo che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è intervenuto più volte nelle polemiche che hanno accompagnato le decisioni del governo sulle banche e la nascita della commissione. Ha ricevuto Visco al Quirinale a più riprese, manifestandogli il suo appoggio nei momenti di maggiore tensione. E si è espresso in maniera calibrata su diversi aspetti. «Sono consapevole di quel che sarebbe avvenuto se fossero fallite la più antica banca del mondo e due banche della regione più produttiva del nostro Paese», ha detto Mattarella negli ultimi giorni di luglio, riferendosi al salvataggio del Monte Paschi e dei due istituti veneti comprati per un euro da Intesa Sanpaolo, la Popolare di Vicenza e Veneto Banca.

Eppure, al di là delle finalità più politiche dei partiti che l’hanno promossa, va detto che la commissione d’inchiesta potrà essere un’occasione utile. La crisi delle banche ha infatti inflitto ai cittadini perdite ancora difficili da stimare. E se l’operato della Banca d’Italia dovesse essere valutato dai risultati, con sette banche fallite o quasi nel giro di così poco tempo, il giudizio non potrebbe essere più netto: il sistema della vigilanza non è riuscito a «tutelare il risparmio», come vorrebbe la Costituzione.

In un campo così complesso, però, più che il verdetto finale è importante capire i motivi di quanto è accaduto. E per farlo è necessario riavvolgere la pellicola dei dissesti bancari, tornando per un momento indietro al 2008. È in quel momento, con il fallimento della banca americana Lehman Brothers, lo scoppio della crisi finanziaria globale e le successive decisioni delle istituzioni italiane, che si creano i presupposti del disastro. Lo mostra il grafico a destra, che riporta l’evoluzione dei crediti deteriorati delle banche italiane. Quando un cliente non restituisce un prestito, la banca accusa una perdita, totale o parziale, a seconda di quanta parte del finanziamento non tornerà indietro. Ebbene, già nel 2009 i crediti deteriorati si impennano, raddoppiando nel giro di tre anni e arrivando poi alla cifra record di oltre 360 miliardi. Una valanga che finirà per travolgere banche sulla cui solidità le istituzioni sembravano pronte a giurare.

La Banca d’Italia ha capito da tempo che l’esplosione dei crediti deteriorati è uno dei punti deboli del proprio operato. Ha messo sul web un approfondimento rivolto al grande pubblico e ha sempre sostenuto che il boom è legato all’eccezionale profondità della crisi e soprattutto al fatto che le recessioni sono state due, la prima più finanziaria, la seconda più devastante. Si racconta che, con la commissione d’inchiesta alle porte, Visco abbia chiesto a Luigi Zingales - un economista con fama di grande autonomia e ben considerato anche nel Movimento 5 Stelle – di partecipare a uno studio per verificare se la crescita dei crediti inesigibili è stata coerente con il ciclo economico. Un modo per dire: non è colpa della vigilanza se il sistema bancario è finito al tappeto, ma di una congiuntura sfortunata.

La figura di pagina 47 riporta però un secondo dato, che illumina un altro aspetto e mette in dubbio le argomentazioni difensive. Con l’arrivo della crisi, le banche hanno ridotto le svalutazioni che devono effettuare di anno in anno per far fronte alle future perdite legate ai crediti deteriorati. Questo fattore si chiama tasso di copertura e mostra che soltanto nel 2015 è tornato ai livelli pre-crisi. Per usare una metafora: a un malato che si stava aggravando, il medico ha smesso di dare gli antibiotici, passando all’aspirina. Perché? Per un motivo intuibile facilmente: fare maggiori svalutazioni avrebbe fatto emergere pesanti perdite in bilancio, azzerando la possibilità di distribuire dividendi ai soci e mettendo in difficoltà i manager.

I numeri inducono il sospetto, dunque, che fin dal 2008 le conseguenze della crisi siano state sottovalutate. E in effetti, quando l’americana Lehman Brothers viene giù, in Italia la lettura dei fatti più diffusa è che gli istituti nazionali siano al sicuro, perché votati ad attività tradizionali come i prestiti, con scarsi investimenti in derivati o nei titoli tossici che fanno tremare i gruppi internazionali.

Per averne un’evidenza, basta rileggere gli interventi che il vertice della Banca d’Italia prepara per la riunione annuale dell’Associazione bancaria italiana (Abi), la lobby degli istituti di credito. L’8 luglio 2009 il governatore è Mario Draghi, che salirà alla presidenza della Bce a fine 2011. Nel suo discorso, lancia un monito sull’aumento delle sofferenze. Ma i toni non sono pessimistici. Anzi, la tesi è che proprio i criteri molto stringenti adoperati dalla Banca d’Italia permettano di guardare al futuro con fiducia: «Sappiamo che il rigore che usiamo (...) è sembrato in passato porre le banche italiane in posizione di svantaggio rispetto a quanto succedeva in altri Paesi», dice Draghi, che rimarca con orgoglio gli esigenti criteri della sua istituzione: «Abbiamo voluto che fosse così anche in tempi in cui il mercato sembrava tollerare livelli di rischio particolarmente elevati. Queste prassi, questi criteri di valutazione, messi a dura prova negli ultimi due anni, hanno finora comportato benefici per le banche, per l’economia, per le finanze pubbliche». La risposta dell’allora presidente dell’Abi, Corrado Faissola, è radiosa: «Il livello di patrimonializzazione delle banche italiane», sostiene, «è rimasto negli standard nonostante la riduzione della redditività. Il nostro è un patrimonio di buona qualità, come richiesto dagli stringenti vincoli posti dalla Banca d’Italia».

Ecco le parole d’ordine di quel momento: la vigilanza in Italia opera con «vincoli stringenti», e il patrimonio delle banche è «di buona qualità». Si tratta di valutazioni che non muteranno per molto tempo, ma che saranno radicalmente sconfessate a partire dal 2014, quando la vigilanza passerà alla Bce. Nel frattempo, però, la percezione che il sistema bancario vuole trasmettere al’esterno è di essere solidissimo. Così viene respinta l’idea – attuata in tutti gli altri Paesi europei - di un sostegno con soldi pubblici o di una “bad bank” nazionale, ovvero un fondo o una società statale che acquisti dagli istituti le attività a rischio (come i crediti in sofferenza), per aiutarli a superare le difficoltà. A suggerire l’ipotesi c’è, il 20 gennaio 2009, l’allora ministro Giulio Tremonti, che due settimane dopo si dice però rassicurato sul fatto che da noi non serva: «Bankitalia ha una competenza assoluta sulle banche e informa il governo: attualmente ha dato solo indicazioni positive», dice.

Tra il 2008 e il 2013 i governi europei spendono per ricapitalizzare le rispettive banche 636 miliardi di euro, per poi adottare un sistema di regole che rende molto più difficile salvare con denaro pubblico gli istituti in difficoltà. Dal 2013 entrerà in vigore il “burden sharing”, dal 2016 il “bail in”, come si legge nella cronologia che inizia nella pagina a sinistra. Prima delle nuove regole, però, gli altri Stati europei hanno provveduto a rimettere in sesto i conti delle loro banche, spesso statalizzandole temporaneamente. In Italia, invece, il dibattito su un eventuale salvataggio pubblico non decolla, e tutti si affrettano a dire che non serve. Lo fa fin da subito l’Abi, che non cambia linea neppure nel 2013, quando le nuove regole europee sono in arrivo e la Spagna ha varato la sua bad bank: «Da noi non ci sono aspetti patologici tali da richiedere cure sistemiche come avvenuto in Spagna. Mentre in Italia i crediti deteriorati sono rilevati in modo rigoroso, in altri Paesi le prassi sono disomogenee», dice il 12 marzo 2013 il direttore generale, Giovanni Sabatini.

Lette con gli occhi di oggi, con sette banche al tappeto, 17 miliardi di euro stanziati per salvare le due venete, la nazionalizzazione del Monte Paschi, queste affermazioni stridono parecchio. È difficile dire quali fattori abbiano pesato nel respingere un intervento pubblico tempestivo, che sarebbe servito per rendere il collasso meno fragoroso. Le ipotesi sono tante: i governi non avevano forse i soldi per agire da soli e, quando si è ventilata l’ipotesi di una richiesta di sostegno internazionale, ai tempi di Mario Monti premier, si sono temute le ripercussioni di un intervento del genere.

Sarà dunque interessante capire dalla commissione d’inchiesta qual era la salute del sistema bancario che veniva descritta al governo. Qui sono prevedibili veri fuochi d’artificio, dal punto di vista politico. Matteo Renzi nel suo libro “Avanti” ha scritto infatti parole pesantissime, che lo fanno iscrivere tra i nemici di Visco: «Quando arriviamo a Palazzo Chigi il dossier banche è uno di quelli più spinosi. Ci affidiamo quasi totalmente alle valutazioni e alle considerazioni della Banca d’Italia, rispettosi della solida tradizione di questa prestigiosa istituzione. E questo è il nostro errore, che pagheremo assai caro».

L’attacco, per il galateo istituzionale, è inusuale e potrebbe nascondere l’imbarazzo nel quale si è trovato il suo governo quando Pier Luigi Boschi, padre dell’appena nominato ministro Maria Elena Boschi, venne promosso alla vice presidenza di una banca come la Popolare Etruria, già prossima al crac. Anche a Renzi e al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, potrebbero essere infatti chieste spiegazioni interessanti. Un esempio per tutti: davvero il Qatar con il suo fondo sovrano voleva sottoscrivere a fine 2016 l’aumento di capitale del Monte Paschi? E davvero si ritirò, facendo tramontare l’operazione, dopo la sconfitta di Renzi al referendum sulla riforma costituzionale, costringendo il governo alla nazionalizzazione?

Nei mesi scorsi erano circolate indiscrezioni che vedevano un Renzi tentato dalla possibilità di sostituire Visco con un economista esterno alla Banca d’Italia, Marco Fortis. I quotidiani hanno parlato di «assalto» alla poltrona di Visco, poi più niente. Anche in questo caso, però, è prevedibile che le tensioni non resteranno sotto traccia a lungo, se la commissione d’inchiesta vorrà affondare il colpo. Anche a occhi neutrali, infatti, gli interrogativi sull’accaduto sono molti. L’intervento pubblico, ad esempio, fu ritardato perché i banchieri temevano di vedere sconvolti gli assetti proprietari degli istituti sui quali comandavano? Nel 2013, quando i banchieri tuonavano contro la “bad bank”, stavano arrivando le nuove regole europee, e la pubblica opinione aveva preso coscienza di quanto fosse esplosiva la questione dei crediti. Visco, diventato governatore a fine 2011, vi aveva dedicato gran parte della relazione già alla sua prima assemblea dell’Abi, l’11 luglio 2012. Anche lì, però, non erano mancate parole di fiducia sulla capacità della vigilanza di fare una corretta radiografia del problema: «Nella prima metà del 2012 le ispezioni della Banca d’Italia mirate al rischio creditizio hanno interessato 14 intermediari, cui fa capo il 59 per cento degli impieghi dei gruppi bancari. Le analisi ispettive si sono concentrate sulle procedure e sui controlli nella fase di erogazione dei prestiti, sull’adeguatezza dei modelli interni, sulla quantificazione degli attivi a rischio, sulla congruenza delle politiche di accantonamento».

Saranno probabilmente questi gli argomenti sui quali, in autunno, la linea difensiva della Banca d’Italia verrà messa sotto pressione in commissione. Come raccontiamo nella cronologia che inizia a pagina 48, dubbi sull’operato del management della Popolare Vicenza e di Veneto Banca erano infatti di pubblico dominio fin dall’inizio degli anni Duemila, e nessuno, alla vigilanza, sembra essersi adoperato per frenare l’espansione che ha trasformato i due istituti da banche locali a nazionali. I due istituti veneti hanno una peculiarità di cui si è parlato parecchio: le loro azioni non sono quotate in Borsa, vengono vendute direttamente ai clienti ed è la stessa banca a ricomprarle, a un prezzo che viene stabilito annualmente in maniera unilaterale. Su come viene formato questo prezzo, però, i dubbi sono antichi. Popolare Vicenza, anno 2000: l’allora direttore generale dell’istituto, Giuseppe Grassano, lascia l’incarico in rotta con il presidente Gianni Zonin. Scrive una dettagliata relazione su numerosi punti critici, che anticipa quanto verrà alla luce in questi ultimi tempi e che giunge anche alla Banca d’Italia. Gli ispettori si recano a Vicenza e ci restano cinque mesi. La loro relazione dice esplicitamente che il prezzo di vendita e di rimborso ai soci «non è ispirato a criteri di oggettività». Ma dai 44 euro di allora, quel prezzo non scenderà mai, anzi arriverà fino a 62,5 euro. I soci che compreranno a quei valori, sempre più numerosi, perderanno tutto, così come accadrà in Veneto Banca, perché a un certo punto i due istituti non potranno più rimborsare chi vuol vendere.

Anche se la Banca d’Italia sostiene di aver denunciato per tempo alla magistratura gli episodi di malversazione, non manca - tra chi frequenta la sede di Palazzo Koch - chi si pone domande sull’efficacia della vigilanza e sulla lentezza delle procedure di crisi. Si osserva che Visco e gli altri membri del direttorio hanno tutti una formazione da servizio studi, non di vigilanza. E qualcuno nota che le polemiche potrebbero aver prodotto qualche strascico. Dopo la crisi del 2014, quando la regia dei controlli è passata alla Bce, si è verificata una sorta di avvicendamento interno, non dichiarato: uno dei membri del direttorio, Luigi Federico Signorini, ha rarefatto gli interventi pubblici in tema di vigilanza, che ora sono quasi sempre tenuti da un altro membro, Fabio Panetta.
È presto per dirlo, perché la commissione con i suoi 40 parlamentari deve ancora riunirsi. Tuttavia, se vorrà far luce sulle questioni strutturali, potrebbe lasciare un segno importante in tema di trasparenza nei confronti dei risparmiatori. Perché la crisi ha dato a tutti una lezione feroce. Il caso delle due popolari venete è, forse, il più evidente. Quando facevano un aumento di capitale chiedendo soldi ai soci, era la Banca d’Italia a dare il via libera. Ma era la Consob, la commissione presieduta da Giuseppe Vegas che vigila sui mercati, che doveva approvare i prezzi di collocamento delle azioni ai risparmiatori. I fatti hanno dimostrato che quei prezzi erano gonfiati e quando i risparmiatori si sono ritrovati con il valore dei loro titoli azzerato e sono scesi in strada per protestare, fra le due istituzioni c’è stato un rimpallo di responsabilità. Un cambiamento delle normative, per scongiurare che situazioni simili si ripetano, potrebbe essere una novità benvenuta. Ma la questione è più ampia, non riguarda soltanto i titoli delle banche quotate o no.

L’Espresso ha chiesto a Consultique, società indipendente di consulenza finanziaria, di elaborare i dati delle obbligazioni subordinate emesse dal 2008 dalle sette banche finite in risoluzione o salvate dallo Stato. Oltre a Popolare Vicenza, Veneto Banca e Mps, ci sono Popolare Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti, liquidate a fine 2015. Considerando i titoli censiti dall’agenzia Bloomberg con un taglio minimo acquistabile da un risparmiatore, fino a 10 mila euro, ne viene una sequenza di ben 21 titoli, per un totale di 3,7 miliardi di euro. Perché così tanti? Spiega Patrizio Basile, analista senior di Consultique: «La crisi del 2008 ha generato alle banche grosse difficoltà per raccogliere fondi. Il mercato istituzionale era praticamente bloccato; se volevano finanziarsi sul mercato dei capitali le banche, quando ci riuscivano, trovavano finanziamenti a tassi esorbitanti, corrispondenti al rischio che il sistema riconosceva. Per rastrellare fondi hanno incrementato la raccolta dalla clientela al dettaglio, collocando obbligazioni di propria emissione».

Tra le obbligazioni, quelle subordinate hanno per il cliente uno svantaggio: in caso di dissesto, vengono rimborsate solo dopo che sono stati soddisfatti tutti gli altri creditori. Sono titoli in qualche misura a metà strada fra le obbligazioni normali e le azioni, perché i compratori partecipano al rischio d’impresa. Continua Basile: «Proprio la contiguità alle azioni fa sì che le obbligazioni subordinate rientrino nel “patrimonio di vigilanza”, uno degli indicatori che gli ispettori utilizzano per la valutazione della solidità degli istituti e della loro capacità di sostenere stress di mercato. Collocare obbligazioni subordinate alla clientela retail negli anni immediatamente dopo lo scoppio della crisi, e anche oltre, ha permesso alle banche di raccogliere risorse equiparabili alle azioni, a rendimenti contenuti e più bassi rispetto a quelli che i grandi investitori avrebbero richiesto per lo stesso tipo di titoli».

Anche qui, nel proliferare delle vendite di titoli che sembravano simili ai Btp dello Stato e erano invece “quasi azioni”, più rischiose, il sospetto è che la Banca d’Italia possa aver privilegiato l’interesse delle banche, che per mettersi in regola avevano bisogno di capitali. A vigilare sul fatto che quei titoli fossero venduti a persone consapevoli dei rischi che correvano, avrebbe dovuto poi essere la Consob, in una distinzione formale di ruoli che non ha aiutato i clienti a salvarsi dal patatrac. Ecco: uscire dalle ambiguità che caratterizzano questi processi potrebbe essere un risultato notevole.

Il caso delle obbligazioni subordinate è molto sentito, perché si tratta di titoli su cui le nuove regole europee hanno avuto un impatto fortissimo. Da quando nel 2014 è entrato in vigore il “burden sharing”, infatti, se la banca va in dissesto lo Stato non può più farsi carico di rimborsarle agli acquirenti. La Banca d’Italia è stata accusata di essersi detta contraria tardivamente al “bail-in”, come si chiama la procedura che completa il “burden sharing” e che è in vigore dal 2016. Per difendersi, Visco ha fatto mettere sul web un documento del marzo 2013 nel quale la delegazione italiana al Consiglio europeo - di cui la Banca d’Italia faceva parte - chiedeva di escludere i titoli collocati in precedenza all’entrata in vigore del “bail-in” e di prevedere un periodo transitorio per dar modo alle banche di prepararsi. Non fu fatto nulla di tutto questo, e sarebbe interessante capire chi, fra governo e Banca d’Italia, in quella primavera di trattative decise di rinunciare alla richiesta e in cambio di quali altre concessioni. Ma il punto è un altro, come argomenta l’economista Angelo Baglioni in un interessante libro dal titolo “Banche di nebbia”. La nuova normativa europea, in linea di principio, ha un senso, perché i salvataggi pubblici possono essere molto costosi per i contribuenti.

Il problema, però, è che nell’opinione pubblica pochi erano ben coscienti delle nuove regole, fino a quando è scoppiato il caso di Banca Marche, Etruria & C. «Una regola, di per sé accettabile», scrive Baglioni, che insegna Economia politica all’Università Cattolica, «si è rivelata dirompente perché ben pochi risparmiatori conoscevano la differenza tra una obbligazione subordinata e una normale, e tantomeno sapevano che le subordinate erano diventate improvvisamente più rischiose». Perché i risparmiatori non vennero avvisati con chiarezza? Perché non fu effettuata una massiccia campagna informativa per far capire a tutti cosa stava per accadere? Difficile dire, oggi, se la Commissione d’inchiesta saprà rispondere a queste domande, visto l’incrocio pericoloso fra il dibattito che ne nascerà e la fine del mandato del governatore. Una previsione è però possibile: se gli uomini dei partiti coglieranno i lavori come un’occasione per concludere vendette personali o costruire carriere per i propri sostenitori, di chiarezza ne verrà fatta poca.