Le borse e il Pil salgono ovunque nonostante l’instabilità dei governi, la minaccia populista e le improvvisazioni di Trump. E l'Italia non fa eccezione

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Il 2017 sarà ricordato come l’anno in cui la politica non ha più governato l’economia. A leggere i dati americani ed europei, sembra che non ci sia più quel legame stretto tra stabilità e indici. Gli Stati Uniti, più di tutti gli altri, hanno macinato record a dispetto dell’amministrazione di Donald Trump che, a parte la riforma fiscale, è sembrata incerta, ondivaga, a volte improvvisata. Il Dow Jones nell’anno appena concluso, ha messo a segno la bellezza di 71 record consecutivi, una cosa che non era mai accaduta a Wall Street alle 30 blu chip, i migliori titoli di tutto il listino. E picchi analoghi sono stati toccati dal tecnologico Nasdaq e dallo Standard & Poor, dove ormai un quarto della capitalizzazione è composto dalle Fang (Facebook, Amazon, Netflix e Alphabet-Google).

Viaggiano alla grande le materie prime, con rame e palladio ai massimi livelli (sospinti dal business delle automobili elettriche), l’industria manifatturiera tira, il petrolio vale sempre un terzo di un’azione Facebook ma ha cominciato a rivedere quota 60 dollari, hanno ripreso vigore persino le domande di mutui. Il premio Nobel Paul Krugman sostiene che tutto questo ben di Dio non dipenda dalla politica “old economy” e “laissez faire” di Trump. Sarà vero, ma non svegliare gli spiriti dormienti della finanza ha sempre portato bene alla Casa Bianca.

Se continuerà a mantenersi intorno al 4 per cento il tasso di disoccupazione e il taglio delle tasse a imprese e benestanti di The Donald non comporterà scossoni al primo debitore al mondo (quasi il 30 per cento del totale, seguito da Giappone col 19 per cento) sarà l’economia a riconfermare il Presidente meno popolare della storia recente americana. Forse a prescindere anche dalle sue gaffes diplomatiche e dai tweet incendiari.

Nella vecchia Europa accade qualcosa di analogo. L’euro non è mai stato così forte sul dollaro da tre anni, il Pil dell’Eurozona a fine del 2017 è stato corretto al rialzo al 2,7 per cento. Fuori dalla moneta unica si cresce anche il doppio, gli indici manifatturieri dei primi tre paesi dell’Unione, sono tutti in segno positivo come non accadeva da anni, a dispetto del fatto che in Germania non ci sia ancora un governo e che in Italia si temano gli effetti delle prossime elezioni. Il quadro politico è talmente frastagliato che anche i risultati delle consultazioni austriache, dove ha vinto la destra, sembrano poter influenzare una comunità di 500 milioni di persone. Ogni voto che va ai nazionalisti in Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia o Olanda sembra destinato a incrinare l’assetto comunitario. Eppure non accade nulla. Le borse volano, la disoccupazione diminuisce, persino la Gran Bretagna, non è mai stata così bene, nonostante debba restare legata mani e piedi all’odiata Bruxelles fino al 2021 a causa degli accordi sulla Brexit.

L’Italia non fa eccezione. Al termine di una legislatura travagliata, i dati sono incoraggianti. La borsa di Milano è tornata finalmente ai livelli pre crisi, sopra i 22 mila punti, quando cinque anni fa il Ftse Mib era a 15 mila; il Pil, che nel 2013 era crollato del 2,9 per cento, ha chiuso il 2017 con un risultato mai visto in tempi recenti e vicino al +1,7 per cento; la disoccupazione continua ad essere ben sopra la media europea ma è lievemente calata dall’11,9 per cento di cinque anni fa all’11,2 di oggi; l’inflazione, di fatto sparita dai radar e congelata dai tassi zero e dall’effetto dell’economia digitale, è ancora ben lontana dall’1,6 per cento del 2013 (0,9 per cento); l’export traina molto di più l’economia italiana (+1,5 per cento l’aumento nel novembre del 2017 contro il + 0,5 per cento di marzo 2013) e lo spread, grazie al Quantitative Easing della Bce, è inchiodato intorno quota 150, quando cinque anni fa era ancora a 313. L’unico dato dolente è quello del debito pubblico. 

L’indebitamento complessivo è infatti cresciuto mostruosamente in termini assoluti, nonostante l’ombrello salva-spread dell’Eurotower e il costo del denaro azzerato, passando da 2.000,36 miliardi di euro (123 per cento del Pil) a 2.283 miliardi (132 per cento). Quasi trecento miliardi in più, oltre 600, se paragonati con il livello raggiunto nel dicembre del 2008, primo anno di crisi. Questo è l’unico elemento negativo che dipende direttamente dalla politica, incapace di tagliare la spesa. Ma tutto il resto va. Quasi incurante di chi ci sia un domani a Palazzo Chigi.