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Tutto vero, tutto giusto, in teoria. Se non fosse che la retorica del campanile è stata infine smentita dai fatti. E dai bilanci. La banca pugliese gestita per tre decenni dalla famiglia Jacobini, il presidente Marco e i due figli direttori generali Gianluca e Luigi, è arrivata nei giorni scorsi al capolinea del commissariamento sotto il peso di prestiti a rischio per 1,2 miliardi, pari, al netto delle rettifiche, al 15 per cento del totale dei crediti. Una montagna di spazzatura finanziaria che si è accumulata negli anni per effetto di una lunga serie di favori agli amici e agli amici degli amici.
Peggio ancora. Mentre la Vigilanza di Banca d’Italia, nonostante i conti in bilico segnalati da ispezioni e controlli, non ha mai mancato di rinnovare la propria fiducia a Jacobini e soci, i vertici della Popolare Bari si sono lanciati in una corsa spericolata per salvare il salvabile, in una spirale di affari sul filo del rasoio difficili da spiegare se non con la ricerca disperata di consenso nel mondo della politica. Niente a che fare con il territorio, questa volta. I soldi generosamente elargiti dalla banca hanno preso il volo con destinazioni molto lontane dalla Puglia.
Dalle carte che L’Espresso ha potuto esaminare si scopre così che la banca degli Jacobini ha finanziato per esempio la famiglia Monferini, costruttori con base a Varese. È finita male. Le società del gruppo, cresciute a passo di carica un decennio fa, sono andate in bancarotta nel 2017. L’esposizione della Popolare di Bari verso questi creditori falliti ammontava a circa 10 milioni. Difficile non notare, a questo punto, che il prestito è stato accordato proprio quando al timone dell’istituto, con i gradi di amministratore delegato, c’era Giorgio Papa, anche lui di Varese, un manager molto vicino alla Lega, tanto da approdare nel 2011 alla poltrona di direttore generale di Finlombarda, holding pubblica della regione Lombardia.
[[ge:espressosite:espresso:1.322580:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.322580.1576770420!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]]Nella primavera del 2015 gli Jacobini scelsero Papa per sostituire Vincenzo De Bustis, destinato a tornare in sella, con il via libera di Bankitalia, a gennaio di quest’anno, quando la Popolare si stava ormai avvitando in picchiata. Quattro anni fa, il nuovo amministratore delegato si era portato in dote, tra l’altro, ottimi rapporti con i vertici della Lega, a cominciare dal numero due del partito, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, un altro varesino che ben conosce i Monferini, i costruttori falliti finanziati dalla Popolare Bari. Nel consiglio di amministrazione della banca pugliese aveva peraltro trovato posto di recente anche Giulio Sapelli, l’economista proposto da Matteo Salvini per la presidenza del Consiglio dopo le elezioni del 2018. Per il cattedratico sponsorizzato dalla Lega fu poco più che una toccata e fuga: nominato nel board della banca ad aprile dell’anno scorso e poi designato vicepresidente, otto mesi dopo Sapelli si era già dimesso, proprio in coincidenza con il ritorno al vertice di De Bustis.
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È a questo punto che arriva la ciambella di salvataggio gentilmente offerta dalla Popolare di Bari, pronta ad aprire i cordoni della borsa con l’imprenditore in difficoltà. I crediti targati Jacobini, con il leghista Papa amministratore delegato, andarono a finanziare Figepa, holding di Parnasi a cui faceva capo il controllo di Parsitalia, la principale società del gruppo con i conti in rosso profondo. A ottobre del 2015 l’istituto pugliese ha accordato un mutuo da 20 milioni a Figepa, che senza quei soldi rischiava di portare i libri in tribunale. Nonostante le gravi difficoltà di bilancio, la holding di Parnasi non ha però rinunciato a comprare azioni della Popolare di Bari per 5 milioni di euro. L’operazione ha tutte le caratteristiche di quelli che in gergo vengono chiamati “finanziamenti baciati”. In altre parole la banca presta denaro che viene in parte reinvestito dal debitore in azioni della banca stessa.
L’affare dev’essere sfuggito alla Vigilanza del governatore Ignazio Visco. Non sono emerse “significative evidenze di operazioni baciate”, questo infatti è quanto si legge nota ufficiale diffusa lunedì 16 dicembre dalla Banca d’Italia per riassumere le attività di verifica e controllo svolte negli anni scorsi a Bari. Da notare che a partire almeno dal 2014, Jacobini ha fatto una gran fatica fatica a rastrellare nuove risorse sul mercato. Il salvataggio della decotta Tercas, caldeggiato e pilotato da Bankitalia, aveva affossato i conti dell’istituto pugliese, chiusi nel 2015 con 275 milioni di perdite. Nel frattempo, migliaia di piccoli azionisti, nell’esercito degli oltre 70 mila soci, cercavano senza successo di mettere in vendita i loro titoli, trattati in una sorta di borsino informale gestito dalla Popolare.
Parnasi invece, a quanto risulta dalle carte ufficiali, è andato contro corrente. Forte anche dei soldi incassati grazie al prestito targato Bari, il costruttore ha scommesso 5 milioni sulla banca in crisi. Gli è andata male. Il valore di quei titoli è ormai prossimo allo zero. D’altra parte anche l’istituto farà molta fatica a recuperare il proprio credito: Figepa ha perso 26 milioni nel 2017, altri 6 milioni l’anno scorso e ad aprile è stata messa in liquidazione.
Vale lo stesso discorso per Ferrara 2007, un’altra società della galassia di Parnasi che a giugno è arrivata a fine corsa con un debito di 30 milioni nei confronti della Popolare di Bari. Quest’ultima, a conti fatti, ha quindi elargito almeno 50 milioni a un imprenditore con l’acqua alla gola, denaro che ora rischia di andare in fumo nel gran falò dei conti dell’istituto. Qui la Puglia non c’entra. Il prestito è partito in direzione Roma per finanziare attività che nulla hanno a che fare con il territorio che la banca degli Jacobini sarebbe chiamata a presidiare.
Di recente è anche capitato che la Popolare ora commissariata sia stata costretta a giocare di sponda nella capitale per aggiustare partite a rischio aperte a Bari. La pista questa volta porta a pochi metri da Fontana di Trevi, in uno dei luoghi più visitati della città e forse del mondo. Il fiume dei turisti scorre a fianco di un palazzo Art Nouveau che fino a pochi anni fa ospitava gli uffici dell’Authority delle comunicazioni. Due anni fa l’immobile ha cambiato proprietario. A vendere sono stati i Fusillo, famiglia di costruttori pugliesi pesantemente indebitata con la Popolare di Bari.
Nel ruolo di compratore è invece sceso in campo l’immobiliarista Salvatore Leggiero, che ha sborsato circa 50 milioni per aggiudicarsi gli oltre 5 mila metri quadrati su quattro piani e una magnifica terrazza sul tetto che si affaccia su via delle Muratte. Come confermano i documenti ufficiali consultati da L’Espresso, il conto dell’operazione è stato in buona parte pagato dalla banca degli Jacobini che ha finanziato una società di Leggiero, la Roma Trevi, con un mutuo di 32,5 milioni, cioè il 75 per cento circa del prezzo d’acquisto. Un altro prestito di circa 6 milioni servirà invece a pagare i lavori di ristrutturazione. Il cerchio si è chiuso, quindi. La Popolare di Bari è riuscita a cambiare cavallo in corsa trasferendo il proprio credito da un debitore in gravissima difficoltà a un altro che offriva maggiori garanzie. Una scelta azzeccata, possiamo dire con il senno di poi. Due mesi fa il gruppo Fusillo, già proprietario, tra molto altro, del palazzo a due passi da Fontana di Trevi, ha fatto crack.
Per gli Jacobini è stata una mazzata pesantissima. Per anni l’istituto aveva finanziato le iniziative della famiglia di costruttori finiti nei guai: centri commerciali, villaggi turistici, un polo della logistica a Rutigliano, solo per citare gli interventi più importanti. Già nel 2013 il Maiora group controllato dai Fusillo e dichiarato fallito a fine settembre, era il principale debitore della Popolare di Bari, esposta in totale per 131 milioni di ero. Questa situazione a dir poco allarmante era ben conosciuta da Bankitalia. Infatti, il rapporto della Vigilanza a conclusione dell’ispezione del 2013 nella banca barese recita testualmente che a favore del Maiora group “sono stati riscontrati ripetuti interventi creditizi non sempre sufficientemente vagliati né (….) esaustivamente rappresentati al consiglio (della Popolare Bari, ndr)”. Già all’epoca, peraltro, le aziende dei costruttori pugliesi erano in difficoltà. Nella relazione ispettiva si legge che «la concreta realizzazione» del piano di rilancio dell’azienda «andrà scrupolosamente monitorata».
Sono passati sei anni e nel frattempo qualcuno deve essersi un po’ distratto. I Fusillo sono andati dritti verso il crack, mentre la banca ha fatto i salti mortali per tappare le falle sempre più numerose nei propri bilanci. Maiora, per esempio, ha venduto immobili a un fondo comune del gruppo Sorgente interamente controllato dall’istituto barese. Tutto sotto gli occhi di Bankitalia, che solo pochi giorni fa ha finalmente deciso di staccare la spina. Troppo poco. Troppo tardi.