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Le statistiche allineano numeri senza precedenti. A Milano nel 2018 gli investimenti nel real estate commerciale, cioè escludendo le case d’abitazione, hanno raggiunto i 3,2 miliardi. Nel giro di due anni, considerando quindi anche il 2017, la somma totale piovuta sulla città si avvicina ai 7 miliardi. Gli uffici assorbono la fetta più grande del mercato: 2,1 miliardi nel 2018 e anche quest’anno è partito all’insegna del rialzo con nuove operazioni per 725 milioni nei primi tre mesi del 2019 secondo le stime pubblicate dal gruppo immobiliare Prelios.
Il dato che sorprende di più riguarda però il confronto con l’Italia nel suo complesso. Sulla sola Milano si è concentrato il 60 per cento degli investimenti totali nel mercato tricolore degli uffici. Questo dato, segnalato in un rapporto del colosso bancario francese Bnp Paribas, conferma l’immagine di una metropoli che viaggia a gran velocità e aumenta il suo vantaggio sul resto del Paese. Le incertezze sul futuro prossimo, un futuro sospeso tra stagnazione economica e instabilità politica, non fanno certo del nostro Paese un porto attraente per i capitali in cerca di un approdo redditizio. Agli occhi dei manager internazionali che manovrano miliardi sullo scacchiere globale della finanza, la città lombarda resta invece una destinazione tra le più promettenti d’Europa. Mario Abbadessa, responsabile per l’Italia di Hines, un gruppo con 110 miliardi di patrimonio in gestione, guarda a Milano come un’eccezione nel contesto nostrano. E questa unicità, secondo Abbadessa, non potrà che rafforzarsi nei prossimi anni. Per esempio, spiega, «attraendo, oltre a capitali e società, anche i cervelli in fuga dalle altre regioni».
A questo punto riesce facile il paragone con Londra, che ha continuato a crescere, quanto meno fino al referendum su Brexit, mentre il resto dell’Inghilterra veniva lasciato indietro. Ai tradizionali punti di forza nella finanza, nella moda, nel design, a Milano si sono moltiplicate le imprese che ruotano attorno a quello che viene definito il capitalismo della conoscenza, per esempio le start up tecnologiche in campo sanitario o dell’ingegneria. Questo esercito di aziende innovative si muove all’interno di un contesto che garantisce ottimi collegamenti con il resto d’Europa, una disoccupazione a livelli minimi, circa il 5 per cento, e un reddito pro capite tra i più elevati dell’Unione europea. Nuove occasioni d’investimento potrebbero aprirsi se Milano, insieme a Cortina d’Ampezzo, il 24 giugno venisse scelta dal Comitato olimpico internazionale come sede dei prossimi Giochi invernali, in programma nel 2026. Il mondo degli affari e anche la politica, a cominciare dal sindaco Giuseppe Sala, sperano che il kolossal sportivo a cinque cerchi ripeta il successo dell’Expo, che quattro anni fa si è trasformato in un veicolo di promozione e visibilità internazionale. La vittoria su Stoccolma, l’unico concorrente rimasto in gara, è tutt’altro che scontata. Di certo però, anche in caso di sconfitta, la città dei Navigli conserverà il suo posto in quella che appare come una sorta di superlega delle metropoli europee, un campionato a parte che vede l’Italia completamente tagliata fuori, con l’unica eccezione del capoluogo lombardo. Il gruppo comprende Londra, Parigi, Berlino, Amburgo, Amsterdam e pochi altri grandi centri urbani, quelli su cui si concentrano gli investimenti dei maggiori operatori globali del real estate.
Covivio, che ha sede a Parigi anche se il maggior azionista è l’italiano Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica ha inserito da tempo Milano nelle prime posizioni della propria agenda d’investimento. Su un totale di 23 miliardi in gestione sono quattro miliardi quelli che hanno preso la strada dell’Italia e di questi il 70 per cento circa è approdato nel capoluogo lombardo, dove il gruppo transalpino è sbarcato in forze in un’area nel quadrante meridionale della città, vicino allo scalo ferroviario di Porta Romana e non lontano dalla nuovissima sede della Fondazione Prada. Il progetto si chiama Symbiosys e vale circa 125 mila metri quadrati di uffici suddivisi in sette palazzi ultramoderni e ad alta efficienza energetica destinati a ospitare le sedi di grandi aziende. È il caso di Fastweb, che ha da poco trasferito il proprio quartier generale in questo nuovo quartiere degli affari. Restano almeno 100 mila metri quadri di spazi da costruire e poi affittare. Una scommessa rischiosa, secondo alcuni analisti, ma i manager di Covivio, che è quotata in Borsa, da mesi tranquillizzano gli scettici spiegando che per gli immobili di alta qualità e in zone ben servite dai mezzi pubblici, la domanda non manca di certo. I dati più recenti, però, segnalano che il vacancy rate, cioè la quota di uffici non locati, è molto più alta a Milano rispetto alle altre metropoli europee. Secondo Bnp Paribas si passa dal 5 per cento circa di Londra e Parigi al 10,6 per cento della città lombarda. La differenza, sostengono gli addetti ai lavori, si spiegherebbe con il gran numero di stabili antiquati, e quindi ben poco appetibili, disseminati nella periferia milanese, in gran parte eredità del boom edilizio tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Relitti ormai abbandonati a se stessi, quelli. Ora il mercato punta sulla qualità, ripetono come un mantra scaramantico gli investitori. Edifici cablati, a basso impatto energetico, dotati di tutti i comfort tecnologici: questo è lo standard che dovrebbe garantire grandi affari nei prossimi anni. Ci credono gli americani di Hines che di recente hanno annunciato investimenti a Milano per almeno 3 miliardi entro il 2021. Tra il 2013 e il 2014 il gruppo statunitense ha completato i nuovi grattacieli tra Garibaldi e Porta Nuova, poi ceduti agli arabi della Qatar investment authority. All’ombra delle nuove torri, tra cui quella, progettata dall’archistar Cesar Pelli, che ospita il quartier generale di Unicredit, è nato dal nulla un crocevia di affari e turismo in quella che prima era una zona in buona parte degradata della città. Nella stessa zona è ancora molto attivo anche il gruppo Coima guidato da Manfredi Catella, il manager che gestiva Hines ai tempi del progetto Porta Nuova.
I fondi targati Coima, che raccolgono capitali italiani e stranieri, qualche mese fa hanno comprato il “Pirellino”, palazzo di proprietà comunale a pochi passi dalla stazione centrale. Un’operazione da quasi 200 milioni di euro (per l’esattezza 193,6 milioni), somma lievitata in corso d’asta (si partiva da 87 milioni) che oltre a ingrassare le casse municipali, spiega meglio di qualunque discorso teorico quale sia l’ultima frontiera del business immobiliare milanese. I manager del settore parlano di rigenerazione, che significa ristrutturare interi palazzi adattandoli ai più elevati standard tecnologici e ambientali. Edifici storici, vecchi anche di un secolo, si aprono così a una seconda vita. Proprio questo sarà il destino del Pirellino appena comprato da Coima, un edificio che risale agli anni Sessanta e che a lungo era rimasto senza acquirenti. Un altro esempio eclatante di rigenerazione è quello dell’ex “Garage Traversi” di via Bagutta, nel cuore del quadrilatero della moda. Il primo parcheggio multi-piano della città, chiuso ormai da 16 anni, è stato acquistato dagli americani del gruppo Invesco e diventerà un centro commerciale di lusso. Una replica in scala extralarge dell’intervento che cambierà i connotati del vecchio garage Traversi sta andando in scena a poche centinaia di metri di distanza, nella centralissima piazza Cordusio. Qui, gli austeri palazzi che fanno da corona a uno degli snodi della vita cittadina, hanno ospitato per decenni inquilini del peso di Unicredit e Assicurazioni Generali. Di recente però i due campioni della finanza nazionale si sono trasferiti altrove, in uffici più moderni ed efficienti. Di Unicredit abbiamo detto. Generali invece possiede Citylife, l’altro grande intervento urbanistico che ha rinnovato la skyline della metropoli. Delle tre torri costruite nell’area della vecchia Fiera Campionaria, una ospita migliaia di dipendenti della grande compagnia di Trieste, un’altra è la sede italiana di Allianz, colosso delle polizze con targa tedesca, e l’ultima, che ancora deve essere completata, andrà alla società di revisione e consulenza Pwc. Rimasta orfana dei suoi storici marchi, piazza Cordusio rischiava il destino triste di una nobile decaduta, tra palazzi vuoti e insegne spente. La promessa di un futuro nuovo arriva dai progetti immobiliari che nell’arco di un paio di anni dovrebbero trasformare quella che un tempo era il cuore la City milanese, a poca distanza dalla sede della Borsa.
Le grandi manovre sono già partite. L’anno scorso hanno fatto scalpore le lunghe code nei primi giorni dopo l’inaugurazione del primo Starbucks italiano, aperto al piano terra di quello che era l’ufficio centrale delle Poste in Cordusio. Adesso il padrone di casa della famosa catena di caffetterie è l’americano Blackstone group, uno dei più ricchi investitori immobiliari del mondo. Il palazzo di fronte è stato invece comprato da Fosun, uno dei maggiori fondi cinesi. Il monumentale edificio liberty, già sede di Unicredit, diventerà entro il 2021 “The Medelan”, cioè negozi, uffici, ristoranti chic. Della vecchia struttura resterà solo la facciata, il resto verrà completamente ricostruito per adattarlo alle nuove attività. I lavori in corso riguardano anche il palazzo a fianco di Starbucks, che è stato comprato da Hines e tra qualche mese ospiterà le vetrine di Uniqlo, il marchio giapponese di abbigliamento. Sul lato che guarda verso il Castello Sforzesco, le Generali, che restano proprietarie dell’immobile saranno sostituite da un hotel della catena Melia.
La maxi rigenerazione di piazza Cordusio illustra alla perfezione la rotta verso la Milano del futuro. I grandi marchi conquistano il centro, gli uffici si moltiplicano tra grattacieli e nuovi centri direzionali. La città che verrà sembra disegnata per soddisfare in primo luogo le esigenze del big business internazionale. La metropoli diventa un semplice anello nella catena di un capitalismo globalizzato che ha colonizzato le metropoli europee. Il rischio concreto è che questa traiettoria di sviluppo finisca per tagliar fuori una larga fetta della cittadinanza, gli abitanti delle periferie, quelli che per reddito non possono permettersi il biglietto d’ingresso nei nuovi salotti urbani, tra marchi di lusso e residenze esclusive.
«C’è il rischio che la città si frammenti in isole per ricchi», riflettono Stefano Munarin e Maria Chiara Tosi, urbanisti dell’Università Iuav di Venezia. «La trasformazione di grandi aree», spiegano i due studiosi, «porta infatti a una ricomposizione sociale della città e crea nuove differenze. Si stabiliscono gerarchie, anche senza recinti evidenti». La nuova identità di quartieri storici o distretti in costruzione finisce così facilmente per definirsi in base al censo o alla capacità di spesa. Secondo Munarin e Tosi, l’unico modo per spezzare queste frontiere urbane, visibili e invisibili, è utilizzare «le risorse generate dalle grandi operazioni immobiliari, per favorire un miglioramento complessivo», che benefici tutti gli abitanti: spazi pubblici non commerciali, biblioteche, centri civici, alloggi popolari.
Tornando al caso concreto di Milano, va detto che proprio grazie ai tributi versati a vario titolo dai grandi operatori immobiliari il comune guidato dal sindaco Giuseppe Sala potrà contare su un ricco tesoretto. Una somma che dopo anni di magra potrebbe avvicinare i numeri da record registrati nel 2009, quando l’amministrazione ricevette più di 145 milioni di euro dai costruttori che stavano ridisegnando la città. Le demolizioni nel quartiere Isola per far spazio ai grattacieli di Porta Nuova e le fondamenta delle residenze eleganti di Citylife contribuirono a un bottino record in termini di oneri di urbanizzazione. Gli introiti sono poi diminuiti fino alla svolta dell’anno scorso. Nel 2018 gli immobiliaristi hanno versato alle casse municipali quasi 99 milioni di euro. Nel 2019 il comune prevede di incassare altri 88 e mezzo. Queste risorse contribuiranno a finanziare quello che l’assessore all’Urbanistica, Pierfrancesco Maran, definisce il nuovo modello Milano.
Senza gli incassi per gli oneri di urbanizzazione, spiega Maran, «non ci saremmo potuti permettere di destinare un miliardo e 600 milioni di euro per ristrutturare case popolari e scuole pubbliche, in quartieri in larga parte periferici, dove indirizziamo la maggior parte dei fondi». E poi, insiste l’assessore, oltre ai 300 milioni in servizi sociali, «ai costruttori viene chiesto più verde e più alloggi a prezzo calmierato, oppure in affitto a cifre medio-basse, di fianco alle nuove palazzine per le élite». Un approccio pragmatico, lo definisce Maran. Quello di una città che punta a tenere insieme sviluppo e coesione sociale. Nobili promesse, vedremo se resisteranno al vento forte del nuovo capitalismo del mattone.