Nel mirino dell’antitrust di Bruxelles per la sua posizione dominante, contestato dagli ecologisti, in guerra con i sindacati per le condizioni dei lavoratori. E molto altro ancora. Ecco i fronti aperti della superpotenza di Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo
di Federica Bianchi
10 luglio 2020
Jeff BezosCi sono voluti 11 giorni di sciopero, dal 16 al 27 marzo, perché Amazon fornisse a tutti i dipendenti del suo principale centro logistico in Italia una mascherina. Il coronavirus aveva preso a devastare il nord Italia, gli ospedali sceglievano chi salvare e chi lasciare morire, Piacenza era uno dei centri dell’epidemia.
Eppure il colosso della tecnologia e della distribuzione mondiale, lo stesso che durante il lockdown ha visto i suoi ricavi aumentare del 26 per cento rispetto all’anno scorso a oltre 75 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2020 e il cui proprietario, Jeff Bezos, è diventato l’uomo più ricco del mondo, era lì a negoziare con i suoi dipendenti da 1.250 euro netti al mese su mascherine e centimetri di spazio e minuti di lavoro.
Ma i 1.600 lavoratori di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, sono stati fortunati. Nessuno è deceduto. E alla fine la quadra con il sindacato per il rispetto delle misure previste dal protocollo nazionale del 14 marzo è stata trovata. «Abbiamo implementato oltre 150 misure per la salvaguardia dei dipendenti», dalla distanza di due metri al controllo della temperatura, fa sapere l’azienda da Milano.
In Germania invece, il secondo mercato più importante al di fuori degli Stati Uniti, i lavoratori di sei siti Amazon erano ancora in sciopero al 30 giugno, dopo che alcuni erano risultati positivi al coronavirus, raccontano i sindacalisti di Ver.di. In Francia è dovuta addirittura intervenire la magistratura che, dopo avere costatato in aprile la mancanza di misure sufficienti di protezione in sei snodi logistici, ha ordinato ad Amazon di sospendere la vendita dei prodotti non essenziali fino a quando le misure non fossero state attuate. Negli Stati Uniti i lavoratori che hanno protestato contro la negligenza della multinazionale sono stati direttamente licenziati. Nel pieno della crisi il colosso della modernità aveva messo i suoi dipendenti davanti a un bivio: o state a casa senza paga o lavorate e rischiate il contagio.
«Il Covid ha accesso i riflettori su problemi antichi», dice Christy Hoffman, segretaria generale di Uni Global Union, il sindacato globale con sede in Svizzera, nato per rafforzare i diritti dei lavoratori dei servizi e della logistica delle grandi imprese multinazionali: «È da cinque anni che ci battiamo per tutelare i diritti dei lavoratori di un’azienda che rifiuta l’intermediazione sindacale. L’Europa qualche passo in avanti l’ha fatto, grazie alle tutele previste per legge. In America i lavoratori sono lasciati soli».
È il modello Amazon. Aprire giganteschi capannoni in aeree depresse, dove scarseggia il lavoro e abbondano gli snodi autostradali. Assumere manodopera non specializzata, giovane e in salute. Offrirle il salario di mercato per un lavoro generico, rara opportunità in quelle zone. Farla lavorare senza sosta e senza diritti, in un clima di subordinazione totale, in cui nessun tipo di contraddittorio è ammesso. amaz2-jpg «Amazon è il futuro con il volto del passato», dice Tania Scacchetti, segretaria generale della Cgil: «I lavoratori sono ingranaggi della macchina». Rimpiazzabili. O, come dice un ex dipendente americano in un documentario per il programma americano Frontline, «non sono trattati come esseri umani, e nemmeno come robot, solo come parte dello scorrere dei dati».
Quei dati, quelle informazioni, su cui fin dall’inizio, un quarto di secolo fa, Jeff Bezos, imprenditore ambizioso e visionario, ha costruito le radici del futuro colosso del commercio digitale. Un futuro scritto già nel nome, Amazon, come il fiume con la portata d’acqua maggiore al mondo. Che è poi la versione commerciale di “Relentless”, Inarrestabile, il nome originario pensato da Bezos.
Perché fin dai tempi della vendita dei primi libri, scelti in quanto categoria merceologica con il più ampio numero di articoli, l’idea era già quella dell’espansione senza sosta, della conquista di nuovi mercati, prodotti, clienti. Della crescita infinita, inarrestabile appunto, anche a costo di sacrificare i primi dieci anni di utili pur di riuscire a tessere una tela digitale intorno al globo. «Pensiamo in grande, pensiamo per il lungo periodo», ripeteva Bezos ai suoi investitori quando gli utili non decollavano e i suoi amici tiravano fuori l’articolo giornale dei tempi del liceo in cui lui già progettava abitazioni spaziali.
Ma inarrestabile in Amazon è anche il ritmo di lavoro, lo chiamano “Amazon pace”: tra i 15 e i 20 chilometri al giorno a piedi per i “picker”, i colletti blu che raccolgono i pacchi impacchettati dai “packer” e li trasportano da una parte all’altra del magazzino, lì dove l’automazione non ha ancora preso piede, e tra le 160 le 250 consegne quotidiane per gli autisti, la rete di conducenti formalmente indipendenti, di fatto lavoratori subordinati senza tutele contrattuali.
«La pressione di Amazon sui lavoratori è consentita dalla qualità della sua occupazione», spiega Scacchetti: «Tra contratti interinali, piattaforme, agenzie, contratti a tempo, è di fatto destrutturata così che è facile dividere i lavoratori e metterli uno contro l’altro». La mancanza di accordi di lavoro collettivi per questa nuova tipologia di lavoratori del digitale è diventata un problema talmente grave che la Commissione europea ha appena lanciato una consultazione pubblica per creare una nuova legislazione a proposito. «Nel mercato di lavoro attuale la differenza tra lavoratore dipendente e indipendente non è più netta», ha detto la vice-presidente esecutiva della Commissione Margrethe Vestager lo scorso 30 giugno: «Di conseguenza molti lavoratori non hanno altra scelta che accettare un contratto come indipendenti. Dobbiamo aiutare la loro negoziazione collettiva per migliorarne le condizioni di lavoro».
In Germania è dal 2013 che i sindacati domandano l’applicazione dell’accordo collettivo per il commercio. L’azienda si rifiuta, dicendo che non è un’azienda commerciale ma appartiene al settore della logistica. «Ma se negli Stati Uniti si definiscono un’azienda del commercio è perché gli stipendi della logistica sono più alti!», sbotta André Scheer, sindacalista dei Ver.di, che al telefono aggiunge: «Si rifiutano di parlare con il sindacato, sostenendo che è sufficiente parlare con il Comitato dei rappresentanti dei lavoratori che siede anche nel Cda dell’azienda, sapendo che il Comitato agisce solo nell’interesse aziendale e non ha facoltà di negoziare stipendi, ore di lavoro e misure per la protezione della salute dei lavoratori». Porta l’esempio del centro di Winsen, nella Bassa Sassonia, dove gran parte della forza lavoro è assunta per pochi mesi: «A chi protesta per le condizioni di lavoro, anche adesso con il Covid, o a chi sciopera non è rinnovato il contratto».
Negli Usa ha fatto storia il video postato di recente su Twitter da un giovane autista di colore, Derick Lancaster, in cui ha abbandonato il furgone delle consegne in un parcheggio di Detroit, dicendo «non posso più lavorare 13 ore al giorno, ne va della mia salute mentale». In un altro momento il tweet sarebbe passato inosservato, magari con qualche “like” di sostegno da parte degli amici. Con il Covid-19 in piena espansione e il movimento Black Lives Matter in ebollizione, è diventato virale: «Posso guadagnare 15 dollari l’ora anche tagliando l’erba», ha detto Lancaster, sottolineando come il lavoro da colletto blu presso Amazon stia perdendo il fascino da start up digitale dei primi anni per diventare la versione contemporanea del friggitore di patatine di McDonald’s.
Come avveniva due decadi fa con i ristoranti del gigante del fast food, anche nel caso di Amazon l’apertura di un nuovo capannone comincia ad essere vissuta con insofferenza, soprattutto in Francia, sede di tre grandi snodi logistici e di altri tre centri di distribuzione di dimensioni inferiori. GettyImages-1207653336-jpg A Fornés, una cittadina del Sud non lontana da Avignone, Amazon sta per costruire un nuovo magazzino gigante vicino all’antico ponte romano di Gard. A opporsi sono l’Associazione per la difesa del patrimonio Primavera e l’ong ambientale Gli Amici della Terra, a cui si è unita anche la Confederazione dei Commercianti di Francia. Il messaggio è chiaro: Amazon non fa bene al patrimonio turistico, né a quello ambientale e tantomeno al piccolo commercio. La scelta è tra posti di lavoro poco qualificati e molto sfruttati e la rivitalizzazione commerciale della cittadina. «Cosa vogliamo per i nostri figli?» si chiede su Le Monde il deputato di MoDem Philippe Berta: «Amazon è un modello di sviluppo del passato, come gli ipermercati in periferia». E difatti tra le misure ecologiste proposte dall’Assemblea cittadina convocata dal presidente francese Emmanuel Macron il mese scorso, una di quelle accettate è stata la moratoria sulla creazione di nuove zone commerciali periferiche.
Il colosso di Seattle è nel mirino. E la sua nomea sui temi ambientali non aiuta: gli stessi dipendenti, a costo di perdere il posto di lavoro, come è da poco accaduto a due impiegate americane, l’accusano da mesi di non intraprendere azioni efficaci contro il cambiamento climatico. Come risposta la società ha annunciato di voler raggiungere emissioni nette pari a zero entro il 2040 e di utilizzare il 100 per cento di energie rinnovabili entro il 2025, utilizzando veicoli elettrici e investendo nell’eolico e nel solare. Non tutti i dettagli sono ancora chiari. Certo è che gli obiettivi climatici non dovranno rallentarne la crescita esponenziale, complice quest’anno un’epidemia che ha messo in ginocchio il commercio fisico al dettaglio.
In poco più di 20 anni Amazon ha compiuto circa 130 acquisizioni e assunto decine di partecipazioni in aziende che potevano fornire nuova tecnologia, mettere fuori gioco un potenziale concorrente o aprire mercati al di fuori degli Usa, dall’Europa all’India, passando per gli insuccessi cinesi e i recenti tentativi di espansione in Medio Oriente, sottolineati dall’acquisto della piattaforma Souq. Negli Stati Uniti, il suo mercato di riferimento con il 70 per cento delle vendite (esclusi i servizi digitali), Amazon serve circa il 15 percento della totalità delle transazioni commerciali e il 40 per cento di quelle online. Non un oligopolio ma quasi. Eppure «Amazon resta un piccolo attore del commercio mondiale», sosteneva ancora l’anno scorso Bezos: «Ci sono rivenditori molto più grandi in ogni Paese in cui operiamo». Stati Uniti inclusi: i ricavi annuali di Walmart hanno superato nel 2019 i 500 miliardi di dollari. La strada per la conquista del mondo è ancora lunga, «perché è questo il suo obiettivo finale», scherza, ma non troppo, la sindacalista Hoffman.
Amazon non è più soltanto un venditore universale. È diventata l’infrastruttura con cui è gestita l’infrastruttura del commercio, dalle piattaforme digitali al trasporto, dai sistemi di pagamento alla sicurezza informatica. La divisione Aws (Amazon web services) aperta nel 2006 per offrire a individui, società e governi servizi di infrastruttura informatica - stoccaggio di dati su Cloud, contenuti digitali e di cybersicurezza - produce oggi il 77 per cento del reddito operativo consolidato. In altre parole, è la vera fonte di utili della multinazionale. Qui vengono create le risorse con cui alimentare le nuove acquisizioni di Amazon, come Zoox, la società californiana di veicoli a guida autonoma; la costruzione di nuovi business come Haven, una società di assicurazione medica, a cui Amazon sta lavorando insieme a Berkshire Hathaway e JP Morgan Chase, e i progetti personali di Bezos, dal quotidiano The Washington Post alla società spaziale Blue Origin, fondata nel 2000 con l’obiettivo di creare colonie spaziali.
Tornando sul pianeta Terra, se a Washington la politica non ha ancora avuto da ridire sulla posizione dominante di Amazon e sulle sue conseguenze per la concorrenza, grazie ad una legislazione risalente agli anni Ottanta e mai aggiornata, in Europa, dove Amazon ha conquistato il dieci per cento delle vendite online (un quarto della quota di mercato degli Usa), Vestager, la zarina dell’Antitrust, ha cominciato a indagare. Nel mirino, il duplice ruolo di Amazon come piattaforma commerciale e commerciante in proprio. Negli ultimi anni Bezos ha acquisto una serie di rivenditori sempre più importanti, da Whole Foods, il celebre supermercato, all’abbigliamento online di Zappos, che la mettono in diretta concorrenza con i rivenditori che ospita.
Così la questione è se Amazon utilizza i dati dei venditori raccolti dalla piattaforma a proprio vantaggio e, nel caso, come impedirlo. «Stiamo guardando come sono selezionati i prodotti pubblicizzati tra i Consigli d’acquisto», dicono fonti vicine all’indagine: «La domanda è: Amazon approfitta del suo algoritmo per sponsorizzare soprattutto i propri prodotti a scapito di quelli dei terzi e per decidere in che settori merceologici sia più conveniente investire? E più in generale: come sono utilizzati i dati forniti dagli oltre cinque milioni di rivenditori operanti sulla piattaforma?»
Le risposte potrebbero arrivare nel giro di poche settimane. Ma prendere posizione contro l’uomo più ricco del mondo non sarà facile.