Così l'ossessione dei capi per il controllo dei lavoratori uccide lo smart-working
Il lavoro agile nel nostro Paese è frenato da una cultura dominatoria che non ne coglie i vantaggi. Ma tornare indietro non è possibile
Hai ripreso a lavorare? A molti di noi nei giorni post lockdown è stata posta questa domanda.
Quasi che il telelavoro, il covid-working o i pochi casi di autentico smart working fossero “vacanze”. In realtà, proprio per chi non aveva organizzato, contrattualizzato, ripensato impresa e lavoro, l’emergenza ha fatto improvvisare un po’ tutto. La cosa più bella è stata la valutazione che ogni tanto i giornali pubblicavano sullo smart working, intervistando persone che avevano praticato cose ben lontane dal lavoro agile. Le “smart-holidays” (a causa di dirigenti incapaci di ripensarsi alla svelta) o il cottimo digitale a 20 ore al giorno sono le cose più lontane dallo smart working. Che è invece il lavoro intelligente, su obiettivi il cui raggiungimento si fonda su uno scambio di maggiore libertà con maggiore responsabilità e fiducia.
Ora, però, c’è da ragionare. Se il mondo dopo il virus non può essere lo stesso, neanche il lavoro può tornare allo status quo ante. Siamo in grado di fare un passo avanti? Le ingiuste critiche di quanti pensano che questa forma di lavoro consenta, in effetti, una eterna vacanza - particolarmente ai dipendenti pubblici - devono essere rinviate al mittente. Le generalizzazioni mettono sempre i laboriosi sullo stesso piano dei lavativi. Le distorsioni esistono ovunque e questa retorica stantia nega solo il progresso che c’è stato e che ancora più potrebbe esserci in termini di crescita delle competenze, di rinnovamento delle organizzazioni, di miglioramento dell’equilibrio vita - lavoro, di minor impatto ambientale e, sì, di produttività. Agire in difesa dell’esistente non ci sta più bene e il diritto allo smart working, e a riprogettare il lavoro ben pensato, costruito a partire dalle esigenze delle persone, lungimirante perché collegato ad obiettivi di lungo periodo, non è più rinunciabile.
Nel libro appena uscito “Indipendenti, guida allo smart-working” (edito da Rubettino) ho tracciato degli obiettivi e proposto dei percorsi su come cambiare le imprese (e non solo) i loro tempi e i loro spazi, la cultura organizzativa, ma non solo, le città, rendere meno marginali le aree interne.
Lo smart working non riguarda solo i lavoratori coinvolti: cambia l’impresa, la mentalità, le gerarchie, le culture organizzative. Tutti temi che organizzazioni e imprese sposano in tutta la convegnistica ma che, digerite le tartine, voleranno via con le bollicine. Quello del controllo è lo strumento principe del management contemporaneo, lo si voglia ammettere o no. Perché la finalità principale della maggior parte delle organizzazioni economiche non è quella di creare valore condiviso attraverso l’azione coordinata e cooperativa di diversi soggetti, ma piuttosto indurre i lavoratori ad agire nell’interesse dei loro datori di lavoro.
Eterodiretti, controllati e spinti a fare qualcosa che, altrimenti - questa è la convinzione di fondo - non saremmo disposti a fare o a fare bene. Questa è l’immagine predominante. Naturalmente questo modello non solo è fattualmente falso, ma soprattutto inefficace, in particolare per quei lavori nei quali creatività e iniziativa sono elementi essenziali, lavori che oggi caratterizzano gran parte dell’economia mondiale. Perfino le organizzazioni a finalità sociale, i partiti sono spesso intrisi dalla cultura del controllo. E non si riesce a capire che accanto alla responsabilità, la libertà e l’autonomia sono le leve di generatività, di creazione di ricchezza umana, sociale ed economica.
Lo smart working era una opportunità, ora è una necessità urgente. È proprio il lavoro il crocevia delle grandi trasformazioni: digitale, demografica, ambientale. Non vi è dubbio che il digitale da anni ci stia mostrando lo scongelamento dei due elementi rigidi del lavoro, lo spazio (il luogo) e il tempo (gli orari) e un fattore abilitante di nuove riorganizzazioni dei tempi di lavoro, ivi inclusi nuovi diritti digitali (come il diritto alla disconnessione) e degli spazi, ovvero un grande ripensamento di “dove” lavorare. E facciamo attenzione: se c’è un lavoro che la grande trasformazione digitale sostituisce è il lavoro ripetitivo a basso ingaggio cognitivo. In particolare il lavoro impiegatizio con queste caratteristiche. Lo smart working, essendo per obiettivi, cambia la natura del lavoro impiegatizio e ne garantisce per molti motivi una minore sostituibilità dagli algoritmi.
Poi c’è la questione demografica, della denatalità: siamo scesi ai numeri del 1861 ed è previsto un raddoppio degli ultraottantenni. Lo smart working viene incontro alle esigenze di cura di bambini e anziani molto più del lavoro tradizionale. E la questione ambientale: l’impronta ecologica di uno smartworker è di gran lunga minore di quella di un lavoratore tradizionale. Viene posto un freno agli esodi quotidiani dei tanti lavori remotizzabili.
Lo smart working è una grande occasione per ripensare le città, non solo sotto lo slogan “smart”, ma affinché diventino policentriche e verdi. L’esodo quotidiano aree interne-città e periferia-centro è assurdo, inquinante, antieconomico. Invece di invocare il ritorno al vecchio lavoro, bisogna ripensare le città: da anni le periferie sono sempre più morte, gli esercizi commerciali chiudono etc. Bisogna rivitalizzarle lasciando li il lavoro. Per questo, altro che rifugiarsi nella caverna casalinga, bisogna riutilizzare gli spazi lasciati vuoti, con degli SmartWorkHub, degli spazi dove avere postazioni confortevoli, con una buona connessione, un buon ristoro, qualche piccola sala riunioni o formazione. Si ricreeranno relazioni sociali e di lavoro “scelte” tra persone di diverse aziende e professioni e si rivitalizzerà la città e non solo la vetrina ztl.
Il titolo “Indipendenti” non si riferisce solo alla nuova categoria di lavoro emergente ovunque nel mondo, fuori dal lavoro subordinato(dipendente) ma altrettanto dal lavoro autonomo. Peraltro uno degli ingredienti dello smart working è l’autonomia e non l’indipendenza. E vedremo quanto la mancanza di autonomia soffochi produttività e benessere delle persone al lavoro. E - aggiungo - nel lavoro agile è ancora più decisiva la relazione, il lavoro di gruppo, la capacità di coordinamento, con gli altri. Mi riferisco, piuttosto, a un salto di qualità dei processi di apprendimento: le organizzazioni e le imprese che creano “dipendenze” sono nocive, ingabbiano le energie migliori degli esseri umani. Per questo, avere lavoratori in-dipendenti, responsabili e felici deve diventare un obiettivo generale.
Ripensiamo al significato che ciascuno di noi assegna al proprio lavoro, ritagliamoci spazi di vera libertà interiore per fare bilanci onesti di senso e riniziamo a incoraggiare chi ritiene un diritto non dover lasciare il cuore e il cervello fuori dai cancelli, virtuali o metallici, dell’impresa. Anche perché la sfida per una nuova e migliore condizione umana e perché no per una maggiore produttività passa proprio di li.