
In questo primo scorcio d’inverno, con i contagi che quasi ovunque restano pericolosamente vicini al picco delle scorse settimane, il salvagente della liquidità appare più che mai indispensabile per evitare il tracollo dell’economia. «Gli aiuti pubblici non vanno ritirati in modo prematuro», ha ammonito il Fondo monetario internazionale due giorni prima di Natale, sottolineando che la ripresa potrebbe rivelarsi molto più «graduale» di quanto fin qui previsto. E anche la Commissione europea ha messo in guardia sui rischi di una «revisione al ribasso» delle previsioni per i prossimi anni formulate nel report pubblicato a novembre.
L’estrema incertezza sugli sviluppi futuri della pandemia rende quindi a dir poco aleatoria qualunque ipotesi sui tempi di uscita dalla crisi. Analisti, investitori e gli stessi governi si trovano costretti a correggere il tiro inseguendo i dati sul numero dei contagi. Su un punto però, almeno uno, tutti gli studiosi si trovano d’accordo. Per molti anni il debito pubblico resterà su livelli elevatissimi, mai raggiunti se non durante la Seconda guerra mondiale.
Una recente ricerca pubblicata dall’ufficio studi della Deutsche Bank segnala che in questi tempi di pandemia l’indebitamento dei maggiori Paesi industrializzati ha toccato in media il 70 per cento del prodotto interno lordo, il livello più alto degli ultimi 150 anni, a parte la parentesi bellica tra il 1940 e il 1945. Una volta terminato il conflitto, però, i bilanci statali ritrovarono velocemente un certo equilibrio.
A spianare la strada verso il risanamento furono all’epoca almeno due fattori: la forte crescita economica accompagnata da un’inflazione molto elevata. Quest’ultima, infatti, provocò un crollo del valore reale dei prestiti accumulati, mentre gli investimenti per la ricostruzione e la ripresa dei consumi innescarono l’aumento del Pil. Grazie a questa combinazione di eventi, nei primi cinque anni di pace anche l’Italia riuscì a recuperare buona parte del terreno perduto e a prendere la rincorsa per il successivo boom economico. Da allora, salvo la parentesi della rincorsa all’Euro nella seconda metà degli anni Novanta, il peso del debito è sempre aumentato fino all’impennata del 2020, scandita dai continui aggiustamenti di bilancio per affrontare l’emergenza virus.
«Le misure adottate per affrontare le conseguenze della crisi pandemica hanno finora complessivamente determinato un maggiore indebitamento di 100 miliardi di euro», si legge nelle carte del Nadef, la Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza pubblicata dal governo in ottobre. Con le nuove spese delle ultime settimane dell’anno il debito supererà la soglia record di 2.600 miliardi, pari a quasi il 160 per cento del Pil nazionale. In altre parole, nell’arco degli ultimi 12 mesi, è aumentato, seppur di poco, il distacco dell’Italia da altri grandi Paesi dell’area dell’euro come Francia e Spagna, che pure devono fare i conti un netto peggioramento dei loro parametri di bilancio, mentre è sempre più profondo il fossato che separa Roma dal gruppo dei cosiddetti frugali, che comprende Finlandia, Germania e Olanda. Il documento del governo prevede che già a partire di quest’anno, grazie anche al rimbalzo dell’economia dopo il crollo del 2020, nche il debito dell’Italia riuscirà a imboccare quello che viene definito «il sentiero decrescente». Nella migliore delle ipotesi, però, non si andrà oltre il recupero di una decina di punti percentuali nel rapporto tra debito e Pil: dai 160 del 2020 ai 151,5 ipotizzati nel 2023. Questo timido progresso non rappresenta certo la svolta necessaria a risolvere i nostri problemi di bilancio. D’altra parte, all’orizzonte non c’è neppure in vista un balzo del prodotto interno o una fiammata inflazionistica capaci di spianare la strada verso il riordino dei conti pubblici, come avvenne dopo la Seconda guerra mondiale. Anche le proposte di cancellazione di parte del debito, quello provocato dal Covid, restano per ora di difficile attuazione pratica oltre che politicamente a dir poco controverse. E allora, per il momento non ci resta che aggrapparci al salvagente lanciato dall’Europa.
La Banca centrale di Francoforte, che a marzo del 2020 ha avviato un programma d’emergenza per l’acquisto di titoli pubblici e privati, ormai possiede più del 20 per cento del debito tricolore, una quota destinata ad aumentare ancora visto che l’istituto presieduto da Christine Lagarde non cambierà rotta per tutto quest’anno e probabilmente anche per il prossimo. Solo per rinnovare i Btp in scadenza, nel 2021 l’Italia dovrà trovare 222 miliardi sui mercati finanziari. A questa somma, secondo le previsioni del ministero dell’Economia, vanno aggiunti altri 145 miliardi di ulteriore fabbisogno legato alle spese supplementari per pagare sostenere le categorie a rischio e rilanciare l’economia. Nel frattempo, i massicci acquisti di obbligazioni pubbliche da parte della Bce ha innescato un crollo del rendimento dei titoli di stato. La spesa alla voce interessi anche quest’anno non dovrebbe quindi superare i 58 miliardi, la stessa cifra pagata nel 2020 e due miliardi in meno rispetto al 2019. Non potrebbe essere altrimenti visto che il tasso medio del debito all’emissione è passato dallo 0,93 per cento del 2019 allo 0,59% fatto segnare nell’anno appena trascorso.
Grazie al crollo dei tassi, i Btp sono diventati competitivi anche rispetto ai 36 miliardi di prestiti del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità messo in campo da Bruxelles. La scelta di rinunciare a quest’ ultima forma di finanziamento, che permetterebbe di risparmiare qualche centinaio di milioni in interessi rispetto ai titoli di stato, è la preferita da chi nel governo, come gran parte dei Cinque Stelle, vorrebbe tenersi le mani libere nei confronti di futuri, ipotetici, condizionamenti o interferenze da parte del finanziatore, cioè l’Europa.
Meglio azzerare il rischio politico, quindi, cavalcando l’onda di un mercato drogato dagli acquisti della Bce. Questo, di fatto, è il ragionamento di quanti si oppongono al Mes. Diverso il discorso per quanto riguarda i finanziamenti del programma Next Generation dell’Unione Europea, cioè in pratica il cosiddetto Recovery Fund. In questo caso, i prestiti pari in totale a 127,6 miliardi (altri 63,8 miliardi sono sovvenzioni a fondo perduto) coprono un arco di tempo di che arriva al 2026 e si prevede che i tassi applicati, almeno da principio, saranno eccezionalmente favorevoli, vicini allo zero. Le prime tranche del Recovery arriveranno comunque non prima di maggio-giugno.
Nel frattempo, però, la situazione potrebbe ancora peggiorare proprio per gli effetti collaterali delle manovre con cui il governo, aprendo l’ombrello della spesa pubblica, ha messo il Paese al riparo dagli effetti più devastanti della crisi. Un esempio su tutti: le garanzie di Stato per i nuovi prestiti bancari alle aziende. I finanziamenti di questo tipo, secondo gli ultimi dati ufficiali in proposito, ammontano ormai a oltre 125 miliardi di euro per le piccole imprese, a cui si aggiungono altri 19 miliardi circa destinati a società di maggiori dimensioni. In totale si arriva quindi a 144 miliardi.
La domanda che a questo punto si fanno tutti gli analisti è la seguente: quanti di questi prestiti non verranno restituiti agli istituti di credito e si trasformeranno in sofferenze? In condizioni normali si potrebbe ipotizzare una quota non inferiore al 10 per cento, ma c’è il rischio concreto che la crisi da Covid abbia l’effetto di moltiplicare il numero delle crisi aziendali. E allora quel 10 per cento potrebbe facilmente raddoppiare. Di conseguenza, la massa delle partite incagliate lieviterebbe fino a superare i 30 miliardi e a questo punto lo Stato sarebbe chiamato a onorare la garanzia. Come? Indebitandosi, tanto per cambiare.