Ogni anno in Italia 110 miliardi di euro non dichiarati: ma la lotta all'evasione arranca
L'Europa ha deciso di combattere paradisi fiscali e riciclaggio, eppure il nostro Paese tarda ad adottare le misure richieste e siamo all’ultimo posto nel registro dei titolari effettivi delle società: in alcuni stati è pubblico, in altri riservato alle autorità e da noi non esiste
di Paolo Biondani
5 gennaio 2021
ue-soldi-bandiere-jpgIl 2021 sarà l’anno d’inizio della fine per la grande evasione fiscale? Le premesse, in teoria, ci sarebbero tutte: le autorità europee hanno varato una serie imponente di nuove norme per combattere il riciclaggio di denaro sporco, imporre la trasparenza economica e favorire la raccolta e lo scambio automatico dei dati fondamentali sulle società di capitali e sui conti bancari. Evasione e riciclaggio sono problemi collegati: come dimostrano le più importanti inchieste anti-mafia, la criminalità internazionale nasconde e reinveste i profitti dei reati con gli stessi sistemi, fondati sull’anonimato delle ricchezze e sulla finanza offshore, che vengono utilizzati da una casta mondiale di ricchi e potenti per non pagare le tasse. Le direttive di Bruxelles, rafforzate in questi drammatici mesi di pandemia da dettagliate risoluzioni del Parlamento europeo e da un “piano d’azione” della Commissione, hanno però bisogno di leggi e decreti nazionali di attuazione. E alcuni paesi sembrano già decisi ad aggirare, svuotare o almeno ritardare la svolta. Compresa l’Italia, che in questa classifica europea compare all’ultimo posto. Anche se nel nostro paese è nata la mafia e l’evasione raggiunge cifre stellari: secondo l’Istat, ogni anno sfuggono al fisco redditi non dichiarati per 110 miliardi.
I danni per i cittadini sono enormi in tutto il mondo. Il rapporto 2020 del Tax justice network quantifica in oltre 427 miliardi di dollari le tasse che vengono sottratte agli stati nazionali, ogni dodici mesi, solo attraverso la cosiddetta finanza offshore. Sono soldi rubati alle masse dei contribuenti onesti, costretti a pagare al posto degli evasori più ricchi. Con i tesori accumulati annualmente dai signori delle offshore, osserva il network, si potrebbero assumere circa 34 milioni di operatori sanitari: ogni secondo sparisce dai radar del fisco una somma equivalente all’intero stipendio annuale di un infermiere. Da notare che la stima è molto prudente, perché questa organizzazione internazionale per la giustizia fiscale non tiene conto dell’evasione in contanti, molto diffusa in Italia (il lavoratore che si fa pagare in nero), ma solo dei bonifici registrati dalle autorità internazionali: redditi e patrimoni trasferiti all’estero, con normali trasferimenti bancari o societari, in paesi dove la tassazione è bassissima o nulla.
Al centro del sistema della grande evasione ci sono le cosiddette offshore. Sono società estere che offrono due vantaggi concatenati: hanno sede in paradisi fiscali e permettono di non registrare i veri titolari, che restano sconosciuti. Il segreto del successo è proprio l’anonimato, che garantisce l’impunità. Dopo vent’anni di boom della finanza offshore, diversi stati nazionali, a partire dalla crisi del 2008, hanno spinto le autorità internazionali a combattere i paradisi bancari e societari. In questi mesi l’emergenza coronavirus e la conseguente esplosione dei debiti (pubblici e privati) hanno reso il problema fiscale ancora più grave. La strategia varata dalle autorità europee si fonda su un’idea semplice: creare un registro dei titolari effettivi delle società. Come dire: giù la maschera. Basta prestanome, intestatari apparenti, fiduciari, trust, fondazioni di comodo. Stop all’anonima evasori. E al riciclaggio offshore dei tesori di mafiosi, narcotrafficanti, dittatori e politici corrotti. Purtroppo l’Italia è uno dei pochi paesi che non hanno ancora attuato questo registro, previsto già tre anni fa da un’apposita direttiva europea.
Una lacuna che il procuratore di Milano, Francesco Greco, grande esperto di lotta all’evasione, ha definito «la prima criticità» in una recente audizione in parlamento dedicata alla lotta al riciclaggio. Il decreto italiano di attuazione del registro era previsto nel luglio 2018, poi è slittato al luglio 2020, ma anche questa scadenza è rimasta ignorata. Eppure in questi anni, nel nostro Paese, sono state scoperte lunghissime liste di evasori con i soldi nei paradisi fiscali; mafiosi di Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta con i fiduciari a Panama o in Svizzera; aziende strategiche di radar militari controllate segretamente da società anonime delle Antille olandesi; colossi del gioco d’azzardo in concessione statale che riversano fiumi di denaro in tesorerie occulte degli Emirati arabi.
Nel resto d’Europa i decreti approvati sono molto diversi da un paese all’altro. La direttiva europea impone di registrare i titolari delle società costituite in ciascuna nazione, ma autorizza ad allargare l’obbligo anche a quelle straniere. Quindi le nazioni meno rigorose si adeguano allo standard minimo e ignorano le società estere, anche se controllano ricchezze nazionali: fatta la legge, trovato l’inganno.
L’Espresso ha chiesto a vari professori universitari cosa ha fatto la Germania, il paese europeo con l’economia più forte. Risposta: a Berlino il registro c’è. E non riguarda solo le aziende tedesche: tutte le società estere, compresi i trust, hanno l’obbligo di registrare i titolari effettivi, ad esempio, se comprano un immobile. E in Germania c’è chi propone norme ancora più severe: in particolare le opposizioni di sinistra (Verdi e Linke) contestano il riconoscimento dei registri di altri paesi, compresi paradisi europei come Malta o Cipro, finiti al centro di clamorosi scandali di riciclaggio. Altra questione aperta è la libertà d’informazione. In Francia, Spagna e nella maggior parte del continente, il registro è accessibile solo alle agenzie statali, spesso controllate dai governi. Mentre in Norvegia, Svezia e pochi altri paesi è consultabile anche dai cittadini, compresi i giornalisti, che possono così controllare direttamente la trasparenza di ogni società (e l’efficienza delle autorità di vigilanza).
L’altro pilastro delle riforme europee è la direttiva sullo scambio automatico delle informazioni fiscali e finanziarie, che equivale a una rivoluzione economica: l’abolizione del segreto bancario. Le agenzie nazionali (in Italia la Uif, che fa capo alla Banca d’Italia) si vedono recapitare ogni anno la lista completa di tutti i cittadini con i soldi all’estero. Senza nemmeno chiederlo, senza dover fare rogatorie: perfino la Svizzera, storica tesoreria degli evasori nostrani, ormai collabora con il fisco italiano. Qui il problema è la circolazione delle informazioni: chi gestisce tutti questi dati? E chi controlla i controllori? Nelle audizioni in parlamento il sottocapo di Stato Maggiore dei carabinieri, Mario Cinque, ha sollevato la questione del «comma 1 bis» di un decreto del 2019, che in pratica «estromette le forze di polizia» dal circuito delle denunce anti-riciclaggio. Si tratta di decine di migliaia di «segnalazioni di operazioni sospette», trasmesse ogni anno dalle banche alla Uif, che oggi può condividerle solo con il nucleo valutario della Guardia di finanza o con la Direzione antimafia e antiterrorismo. Carabinieri e polizia ne sono esclusi. Il comma incriminato impone alla Uif «il segreto d’ufficio perfino rispetto alla polizia giudiziaria» e quindi alla magistratura. Anche il pm Greco descrive un doppio muro che blocca o ritarda le indagini anti-riciclaggio: «La Uif ha l’obbligo di comunicare le segnalazioni su richiesta delle procure, che spesso però ne ignorano l’esistenza. Mentre la Uif non ha acceso ai dati investigativi e fiscali, per cui spesso ignora chi siano i soggetti segnalati».
Nei rapporti tra Stati, l’ostacolo maggiore è la collaborazione solo a parole: alcuni paesi (anche europei) inviano dati solo per i reati più gravi, come mafia, terrorismo, ma si rifiutano di aiutare le indagini contro l’evasione. E nei casi di corruzione rallentano. O firmano assurde trasmissioni di notizie «con divieto di utilizzarle nei processi». La Commissione europea definisce «estremamente preoccupanti» queste mancate collaborazioni tra nazioni e gli stop alle forze di polizia. E nel suo piano d’azione prevede di creare un’agenzia europea anti-riciclaggio, con un archivio centrale di tutti i conti bancari, ovviamente accessibile solo agli inquirenti. Da collegare a Eurojust, Europol e all’ormai prossima Procura europea.
Un altro problema emergente, segnalato da Francesco Greco, riguarda le tecnologie applicate alla finanza, in grado di evitare tutti i controlli standard: «Con piattaforme di uso comune come Googlepay, Applepay o Samsungpay, i pagamenti arrivano in Italia senza l’indicazione del mittente. Questo fa saltare il principio “conosci il tuo cliente”, che è alla base delle verifiche anti-riciclaggio imposte alle banche. A Milano abbiamo provato a fare una rogatoria in Gran Bretagna, che ci ha detto di chiedere in Irlanda, da dove ci rimandano a Londra: nessuno ancora ci ha risposto».
I paradisi fiscali britannici, secondo Tax Justice Network, sono responsabili di più di un terzo di tutte le perdite di tasse subite dagli stati nazionali con la finanza offshore: almeno 160 miliardi all’anno, il 37 per cento del totale mondiale. Gli europarlamentari più impegnati nella lotta all’evasione ora propongono di usare la Brexit per costringere i governanti inglesi a tenersi le loro offshore e restituirci le nostre tasse. Negli Stati Uniti, dopo le elezioni presidenziali, il vento è cambiato: Camera e Senato hanno approvato a larga maggioranza, superando così il veto minacciato da Trump, una legge che assegna all’agenzia anti-riciclaggio (Fincen) il compito di identificare i titolari effettivi di tutte le società, anche straniere. Il partito globale delle offshore però resta fortissimo. Le inchieste giornalistiche del consorzio Icij (rappresentato in Italia dall’Espresso) hanno svelato in questi anni migliaia di tesorerie anonime controllate dalla cerchia dei potenti del mondo: ministri di Trump, oligarchi intimi di Putin, riciclatori protetti da Erdogan, familiari del presidente cinese Xi Jinping, sovrani arabi, dittatori africani, premier asiatici, politici sudamericani, big dell’economia, stelle dello sport e spettacolo, oltre a criminali, terroristi, trafficanti di droga e armi. Tutti offshore, insieme ai grandi evasori.