Estenderlo, ridurlo, eliminarlo. Se c’è un argomento che spacca la maggioranza è il futuro del reddito di cittadinanza, percepito da 1,65 milioni di italiani per un costo complessivo di 8,3 miliardi. Il premier Draghi intende metterci mano per vincolare ancor di più l’erogazione del sussidio all’ingresso nel mondo del lavoro, il Pd sarebbe d’accordo, mentre il Movimento 5 Stelle lo difende a spada tratta, al contrario Italia Viva, Lega e Forza Italia vorrebbero abolirlo, trovandosi perfettamente allineati alla leader di Fratelli d’Italia, che l’ha definito «metadone di Stato».
A tre anni dalla sua introduzione, è la Caritas a realizzare un monitoraggio sull’antidoto alla povertà assoluta e a suggerirne una riforma, almeno per far finire il reddito nelle tasche giuste, visto che nel 56 per cento dei casi il reddito viene percepito da famiglie che non sono in povertà assoluta. «Una revisione servirebbe, ma è politicamente complicato metterci mano. Per aggiustare il tiro, bisognerebbe togliere il reddito a quanti lo percepiscono impropriamente ed estendere il sussidio al Nord del paese, dove molte famiglie vivono al di sotto della soglia di povertà perché il costo della vita è più elevato», spiega Cristiano Gori, professore all’Università di Trento, responsabile scientifico del rapporto Caritas e membro del Comitato Scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza, nominato dal ministro del Lavoro Andrea Orlando. Proprio il Comitato, presieduto dalla sociologa Chiara Saraceno, a breve fornirà al ministero una serie di indicazioni per modificare il reddito, che potrebbero già entrare nell’imminente finanziaria.
IL DIVANO O IL LAVORO
Il punto politicamente più controverso è l’attivazione al lavoro. Imprenditori e liberisti sostengono che il sussidio sia un deterrente alla ricerca di un’occupazione. Affermazione vera solo in parte, dal momento che, secondo la Caritas, è vero che «per il Meridione è alto il rischio di trappola della povertà, perché il valore del Rdc è troppo elevato, al punto da avvicinarsi ai salari medi di persone poco qualificate». Ma è altrettanto vero che nel 57 per cento delle famiglie con il reddito c’è almeno una persona che lavora. Il problema, dunque, sta piuttosto nei bassi salari, che non consentono a una famiglia monoreddito di vivere dignitosamente e, una soluzione potrebbe essere l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne: «Se in ogni famiglia lavorassero due persone anziché una soltanto, allora la quota di nuclei in povertà assoluta scenderebbe dal dieci al due per cento», conferma il rapporto Caritas, secondo cui il 70 per cento delle famiglie con il sussidio ha al proprio interno una persona, per lo più donne o giovani disillusi, che potrebbe lavorare. Soluzione più facile a dirsi che a farsi.
Perché in teoria il RdC prevede per tutti i componenti del nucleo famigliare un percorso di aiuto nella ricerca di lavoro, in pratica quasi nessuno ne ha trovato uno. Del milione e 650 mila beneficiari inviati ai Centri per l’impiego, poco più di un milione è risultato idoneo a sottoscrivere un patto per il lavoro, ovvero un impegno ad accettare un’offerta di lavoro, oltre a partecipare ai corsi di formazione. Di questi, solo 327mila hanno effettivamente sottoscritto l’accordo. E gli altri? Hanno dato forfait. E senza alcuna penalizzazione, dal momento che, a causa del Covid, è stata sospesa l’obbligatorietà all’attivazione al lavoro prevista per legge.
In questi tre anni meno di un beneficiario su quattro ha ricevuto almeno un contratto di lavoro e solo il 14 per cento è ancora occupato. Dunque il sistema di attivazione è un buco nell’acqua, se si considera che i beneficiari del reddito lavorano solo 0,6 giorni in più al mese rispetto a prima: «Quindi non c’è stato un “effetto divano”. Il reddito non disincentiva la ricerca di un lavoro», dice il rapporto Caritas. I motivi di una mancata attivazione sono da ricercare altrove: «Ci si dimentica che l’Italia ha una carenza intrinseca di posti di lavoro, figuriamoci per persone con bassissima qualifica come lo sono i percettori del reddito», dice Gori. I beneficiari sono persone molto deboli dal punto di vista lavorativo e in grande difficoltà economiche, psicologica e sociale, il cui problema non è tanto l’inserimento nel mercato del lavoro, quanto nell’attivazione sociale, nella scarsa autostima e incapacità di connettersi al mercato del lavoro. I centri per l’impiego non sono strutturati per aiutare persone così fragili e, per il momento, non vi è traccia dell’implementazione di un tale servizio nell’imminente riforma del Lavoro.
NELLE TASCHE SBAGLIATE
Anche se gli oltre otto miliardi messi a disposizione sarebbero sufficienti per andare in soccorso all’80 per cento delle famiglie in povertà assoluta, il reddito di cittadinanza ne aiuta solo il 44 per cento. In base alle ricerche del professor Massimo Baldini dell’Università di Modena il 36 per cento dei beneficiari non è povero, e se si considerano i dati della Banca d’Italia tale quota sale al 51 per cento. «Significa che non di rado la misura sbaglia mira. Perlopiù non si tratta di frodi, ma di errori nel disegno della misura. Il Reddito è stato costruito in modo da andare, in parte significativa, a persone con difficoltà economica che però non sono povere e dovrebbero essere aiutate in altro modo», spiega Cristiano Gori. Tra chi ne avrebbe diritto, ma è stato escluso, ci sono stranieri, lavoratori, famiglie con figli a carico e persone che risiedono al Centro Nord con case di proprietà. Al contrario, tra i falsi beneficiari ci sono famiglie con anziani, nuclei del Meridione, persone con disabilità, single che non lavorano. La Caritas invita a modificarne le regole di accesso in modo da limitare l’erogazione del reddito a chi ne ha davvero bisogno, «altrimenti, se si volesse usare il RdC per combattere l’intero fenomeno della povertà, servirebbero 32 miliardi l’anno», si legge nel dossier. La parte più complessa dell’agenda politica riguarda le sottrazioni: «Non esistono scorciatoie. Se non si toglie il reddito a chi non ne ha diritto, non è possibile tutelare in modo adeguato i poveri assoluti. Dare il reddito di cittadinanza a chi non è povero significa negarlo a chi lo è: può non piacere, ma le cose stanno così», dice Gori. Anche perché il numero dei beneficiari sta aumentando: erano 1,19 milioni di famiglie a marzo 2020, cresciute a 1,65 quest’anno. E parallelamente l’Istat dice che anche la povertà assoluta è in crescita, specialmente al Nord, dove quest’anno le famiglie gravemente indigenti sono passate da 331mila a 943mila.
«Nelle Regioni del Nord è più probabile che vi siano famiglie povere che non ottengono il sussidio perché le soglie economiche di accesso al Reddito sono uguali per tutta la nazione, mentre non si considera che il costo della vita al Nord è più alto che nel resto del Paese. Ecco perché al Nord solo il 37 per cento delle famiglie che ne avrebbe diritto percepisce il reddito, contro il 69 del Centro e il 95 per cento del Sud», dice Gori. D’altronde la gran parte delle famiglie che impropriamente riceve il reddito non vive nell’oro: «Servono risposte adatte alla loro situazione attraverso una molteplicità di altre politiche di welfare pubblico, dal sistema fiscale, all’assegno unico per i figli e gli ammortizzatori sociali, tutte misure in fase di riforma. A maggior ragione, è questo il momento per fare chiarezza sugli obiettivi del reddito di cittadinanza, così da intervenire in modo appropriato sulle altre riforme», sostiene Gori.
QUESTIONE STRANIERI
Spostare il peso del reddito di cittadinanza al Nord e avviare un forte investimento sulle politiche sociali e occupazionali per liberare i percettori del reddito dalla povertà assoluta, sono misure che stenteranno a trovare un padre politico. Figuriamoci quando si tocca la questione stranieri, in un paese dove lo Ius Soli è ancora un miraggio. Secondo il rapporto Caritas il 15,8 per cento dei percettori del reddito è straniero, ma esiste un vincolo rigidissimo per accedere al sussidio, ovvero dieci anni di residenza in Italia: «Il nostro è il paese europeo con i requisiti di residenza più stringenti d’Europa, insieme alla Danimarca (nove anni)», commenta Gori, secondo cui questa discriminante impedisce a quattro famiglie straniere in povertà su dieci di avere accesso al sussidio.
FUORI CONTROLLO
Infine la Caritas si concentra sull’assenza di controlli, su tutti i fronti. Nonostante il reddito abbia delle regole ferree nell’ottenimento e altrettante nell’attivazione al lavoro, non esistono forme di verifica, se non qualche controllo random da parte dell’Inps. Non c’è una sorveglianza automatica sui patrimoni mobiliari, nessuna verifica sulle dichiarazioni Isee, neppure le autocertificazioni vengono vagliate al setaccio. E i centri per l’impiego non segnalano irregolarità e neppure badano alla latitanza di chi dovrebbe darsi da fare per trovare un lavoro. Nulla di nulla.