Assunzioni zero. Concorsi fermi. Politiche rinviate, nonostante i soldi dell’Europa. Dovevano essere al centro dell’agenda: ma lo sono solo a parole

I giovani sono al centro dell’agenda politica. Mario Draghi lo ha ribadito due settimane fa agli studenti di un istituto tecnico di Bari: «Dopo anni in cui l’Italia si è spesso dimenticata delle sue ragazze e dei suoi ragazzi, oggi le vostre aspirazioni, le vostre attese sono al centro dell’azione di Governo». Contemporaneamente a Roma si discuteva l’estensione di quota 100 - ribattezzata quota 102 e 104 per il prossimo anno e quello successivo - tralasciando la bomba sociale che verrà dagli scarsi versamenti contributivi dei giovani, dal momento che metà degli under 40 percepisce redditi inferiori ai mille euro al mese e, per via del sistema contributivo, a partire dal 2035 le loro pensioni saranno altrettanto misere.

 

Qualche giorno più tardi si è dato il via alla riforma della concorrenza, dove è scomparsa la liberalizzazione degli stabilimenti balneari, uno schiaffo per quei giovani che speravano in un governo combattivo nei confronti delle rendite di posizione. A lungo termine il governo promette molto agli under 35enni: l’obiettivo è aumentare l’occupazione giovanile del 3,2 per cento abbattendo la dispersione scolastica, elevando i titoli di studio e le competenze, investendo negli istituti tecnici e professionali, sostenendo il sistema duale, puntando sulle competenze digitali e ambientali, aumentando le borse di studio, riformando il sistema di orientamento e le politiche attive. Ma nel breve periodo la distanza dalle istanze dei giovani è siderale.

 

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Partiamo dalla promessa di 300mila posti di lavoro nell’amministrazione pubblica. Secondo le analisi del Forum Pubblica Amministrazione, a stretto giro lo Stato dovrebbe assumere al Mef, alla Ragioneria di Stato, ma anche ai ministero della Giustizia e nei comuni, 12.860 persone per l’attuazione del Pnrr, il Piano di Ripresa e Resilienza che prevede di spendere entro il 2026 i 191,5 miliardi messi a disposizione dall’Europa. Ad oggi nessuno è stato ancora assunto, neanche le 821 persone che quest’estate hanno superato il famoso concorso dei 2.800 tecnici per il Sud, celebre perché le prove erano strutturate in modo tale che, nonostante il grande interesse, pochissimi sono riusciti a superare la selezione. Risultato: a distanza di sette mesi dall’apertura del bando nessuno è stato contrattualizzato. Altri 11.126 posti restano appesi a concorsi banditi, ma senza una data di conclusione, mentre sono ancora da pubblicare nove concorsi per 1.362 profili di alto livello.

 

Tre i problemi riscontrati dai giovani, come spiega Flavio Proietti, portavoce di Officine Italia, associazione di under 30enni nata per affrontare le sfide sociali ed economiche del paese: «La prima questione è l’equipollenza della laurea per chi ha studiato all’estero. Accedere ai concorsi pubblici significa intraprendere un percorso tortuoso e contro intuitivo per il riconoscimento dei titoli conseguiti fuori dall’Italia. Un esempio: viene chiesto a chi ha studiato a Londra di sostenere un ulteriore corso di lingua inglese, non essendo presente nel piano di studi straniero».

 

Il secondo nodo è la scarsa stabilità delle posizioni aperte per il Pnrr, per lo più a tempo determinato, mentre la terza criticità è di ordine economico, come spiega Proietti: «Oltre ad essere un lavoro a termine, non è remunerato a sufficienza per spingere professionisti di talento a intraprendere la strada di “civil servant”. Sono gli stessi elementi che, in generale, disincentivano i giovani eccellenti dal partecipare al percorso di ripresa italiana, prediligendo una più agevole carriera all’estero». Anche coloro che hanno provato a partecipare ai concorsi pubblici, pur riconoscendo l’impegno a rendere meno barocche le prove d’esame, lasciano perdere. Mesi fa Officine Italia aveva portato queste e altre istanze all’attenzione del governo: «Proposte mai concretamente accolte», dice Proietti, in cerca di un confronto con la ministra per le Politiche Giovanili, Fabiana Dadone.

 

È l’ultimo Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes a confermare l’aumento degli espatri di giovani tra i 18 e i 34 anni nel 2020. «C’è stato un calo del 16 per cento delle partenze, soprattutto di over 65enni e minorenni, ma continuano ad aumentare i giovani che prendono la via dell’estero, nonostante la pandemia in atto», spiega Delfina Licata di Fondazione Migrantes. A rientrare sono soprattutto 30enni con occupazioni incerte, lavoratori autonomi, ricercatori, inoccupati. «A seguito dell’emergenza sanitaria si è abbassata l’età di chi ha fatto ritorno e il Sud è diventato il protagonista dell’accoglienza sia perché il rientro non è dovuto a opportunità di lavoro trovate in Italia, quanto a questioni emergenziali, sia perché al Meridione è riservata un’agevolazione fiscale maggiorata dal 70 al 90 per cento nel caso in cui la residenza viene spostata dall’estero in un territorio del Sud», recita il rapporto Migrantes, che puntualizza: «A lasciare l’Italia, anche nonostante la pandemia, sono i giovani nel pieno della loro vitalità e creatività professionale, è su questi che si deve concentrare l’attenzione e l’azione della politica».

 

Perché le opportunità non mancherebbero, come fa notare Maria Chiara Prodi, presidente della Commissione Nuove Migrazioni e generazioni nuove: «Complice la pandemia, le condizioni di conciliazione con la vita privata o l’impatto sociale del proprio lavoro sono variabili sempre più prese in considerazione da chi migra, rispetto alle quali l’Italia può fare leva grazie alle proprie qualità paesaggistiche, culturali, climatiche. In questo senso, esperienze come il progetto it-Er International Talents Emilia Romagna, che offrono supporto ai progetti di ingresso o rientro su un territorio, saranno sempre più essenziali in futuro, perché al lavoratore serve un’intermediazione che faciliti la comprensione del contesto in cui un’offerta di lavoro si sviluppa».

 

Tuttavia, i piccoli progetti territoriali si scontrano con un disegno politico lontano dalle istanze di innovazione di una società contemporanea. La rinuncia alla liberalizzazione delle spiagge nel ddl Concorrenza «è un segnale di immobilismo e incapacità di scardinare interessi personali e rendite di posizione», dice Mario Calderini, docente di Economia alla School of Management del Politecnico di Milano, che continua: «Neppure questo governo è in grado di affrontare i nodi che ingessano il paese, e l’impossibilità di sciogliere questi nodi - dalle concessioni balneari, alla mancata riforma del catasto - non da il senso di modernità e sviluppo di cui l’Italia avrebbe bisogno. Siamo in un’epoca in cui c’è grande attenzione al bene comune, al godimento di spazi pubblici, spiagge, beni naturali, di accesso democratico alle risorse del territorio, ma le scelte del governo vanno in un’altra direzione». Calderini, a proposito della questione giovanile, critica l’assenza di una missione specifica nel Pnrr dedicata proprio alle nuove generazioni, come invece hanno fatto i francesi.

 

Lo smarrimento dei giovani italiani è giustificato dall’assenza di una visione industriale a lungo termine: «Il Pnrr prevede investimenti e riforme per accelerare la transizione ecologica e digitale coerentemente le indicazioni europee, tuttavia manca una chiara visione degli obiettivi di politica industriale che il paese intende raggiungere e non c’è un’analisi degli impatti e degli effetti sul tessuto produttivo», commenta Valentina Meliciani, docente di Economia Applicata alla Luiss di Roma, secondo cui «il quaranta per cento delle risorse destinate al sistema produttivo fa capo al progetto Transizione 4.0, simile al modello di Industria 4.0, ovvero offre incentivi alle imprese che investono in beni strumentali, ricerca, sviluppo e tecnologie. Tuttavia questa formula rischia di accrescere la disuguaglianza territoriale, perché a ricevere gli incentivi sono le aree del paese più ricche e dinamiche e le imprese più strutturate, dotate di quel capitale umano capace di sfruttare la tecnologia acquisita». Il resto degli interventi risulta invece più frammentato, fra strumenti di sostengo alle partnership pubblico-private, all’internazionalizzazione delle imprese, alle start-up.

 

«Il Pnrr dovrebbe aiutare le imprese a migliorarsi con l’ausilio del digitale e delle nuove tecnologie, tuttavia in base alle stime del Mef le attività che contribuiranno di più alla crescita del valore aggiunto saranno costruzioni e attività immobiliari», spiega Meliciani, che aggiunge: «Senza un’accelerazione degli investimenti in alcuni settori strategici, c’è il pericolo che il paese possa peggiorare i conti della propria bilancia commerciale perché l’assenza di una produzione interna di beni destinati a favorire la transizione ecologica e il digitale a fronte di una crescente domanda, comporterà l’acquisto dall’estero di questi prodotti». Un cortocircuito, se si pensa che da un lato si punta a incentivare gli istituti tecnici e favorire la formazione di alte professionalità, dall’altro si stima che sarà l’edilizia il settore più favorito. Già oggi la figura professionale più ricercata dalle agenzie interinali è quella del carpentiere per via del grande impulso dato dai superbonus edilizi.

 

Racconta Marco Cerasa, amministratore delegato del Gruppo Randstad, società di ricerca del personale, che una delle sfide maggiori del Recovery Plan sarà «la capacità di importare dall’estero medici, infermieri, informatici, ingegneri, architetti, tecnici e operai per mettere a terra le opere infrastrutturali in programma. Sono professioni che gli italiani non vogliono fare o non se ne formano abbastanza, a causa di percorsi formativi a numero chiuso». Sarà quindi importante svolgere un’azione di orientamento nelle scuole e nelle università: «Il Pnrr creerà 700 posti di lavoro nella sanità, nel digitale, nella cura dell’ambiente, nello sviluppo di tecnologie come l’idrogeno e la gestione dell’acqua. Il compito dei formatori è studiare questi sistemi e aiutare le persone a scegliere gli studi universitari con maggiori sbocchi occupazionali, nonché a sostenere percorsi di ricollocamento adeguato per i disoccupati». Un compito delicatissimo, affidato alla rete dei centri per l’impiego che attualmente è drammaticamente impreparata a svolgerlo.