Si fa presto a dire “aziende zombie”. Che poi sarebbero le imprese schiacciate dalla concorrenza e con i conti in perdita cronica, tenute in piedi a suon di prestiti di Stato e sussidi vari. Se ne fa un gran parlare ormai da qualche settimana. Da quando a metà dicembre il G30, un gruppo di studio internazionale con base a Washington, ha dedicato all’argomento uno dei suoi quattro rapporti annuali. In Italia, la pubblicazione sarebbe passata sotto silenzio fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, se il consesso di luminari e top manager non fosse stato presieduto da Mario Draghi, affiancato per l’occasione da Raghuram Rajan, l’ex governatore della Banca centrale indiana ora docente all’università di Chicago. Che fare di queste aziende condannate dal mercato e sbrigativamente liquidate come “walking dead”, morti che camminano? Chiamato a guidare l’Italia fuori dalle secche di una recessione pesantissima, ora tocca proprio a Draghi misurare la distanza che separa la realtà dagli scenari teorici. In un mondo affamato di risorse come quello che si lascia alle spalle (si spera presto) la pandemia, ogni sforzo va indirizzato a favore delle imprese capaci di reggersi in piedi da sole una volta superata la crisi.
Queste le conclusioni del gruppo del G30, sottoscritte anche dal futuro presidente del Consiglio italiano. Discorso condivisibile. E d’altra parte chi mai s’iscriverebbe al partito dello spreco? In pratica, però, quando ci si cala nell’arena delle scelte politiche, l’applicazione concreta delle ricette accademiche diventa di gran lunga più complicata. Va detto che al presidente del Consiglio non fa certo difetto la conoscenza diretta del palazzo, almeno dai tempi in cui da direttore generale del Tesoro dal 1991 al 2001 gestì, tra l’altro, le più importanti privatizzazioni della storia della Repubblica. Così come, in veste di banchiere, negli anni alla guida della Bce, ha dato prova di avere ben chiari gli effetti concreti di ogni suo intervento sui mercati finanziari, fino al clamoroso “whatever it takes” che nell’estate del 2012 evitò il naufragio dell’euro.
Anche adesso, come nove anni fa, Draghi scende in campo per fronteggiare un’emergenza senza precedenti. Sullo sfondo c’è la gestione degli oltre 200 miliardi del Recovery Fund, il salvagente lanciato dall’Europa per evitare il naufragio del sistema Italia. Altre scelte, però, vanno fatte in un orizzonte temporale ancora più ristretto. E in questi giorni in cui il caos politico si sovrappone alla depressione economica, torna quindi più che mai d’attualità il destino delle cosiddette aziende zombie, che sono migliaia, forse addirittura 15 mila, secondo le stime più recenti di fonte Banca d’Italia.
La pandemia ha moltiplicato le situazioni di crisi, ma i sussidi pubblici e le moratorie generalizzate sui prestiti hanno evitato la resa dei conti del fallimento per migliaia di imprese, favorite anche dal crollo dei tassi d’interesse sui debiti. Il sistema è stato in qualche modo ibernato come misura estrema di difesa contro l’avanzata del virus e della conseguente recessione economica, ma ora che il vaccino offre una concreta speranza di ritorno alla normalità il sistema degli aiuti d’emergenza rischia di trasformarsi in un colossale spreco di risorse sottratte agli investimenti, alla ricerca e a settori più vitali dell’economia.
Che fare, allora? Tempi e modi dell’intervento fanno la differenza tra un atterraggio morbido e uno schianto che spazza via centinaia di migliaia di posti di lavoro. Tanto per cominciare anche Draghi, come i suoi predecessori, sarà costretto a gestire i dossier di Alitalia e Monte dei Paschi, due colossali zombie di Stato, fin qui salvati dal crack a suon di iniezioni miliardarie di capitali pubblici. I governi che si sono succeduti a Roma tra il 2017 e il 2020 hanno accordato prestiti e nuovi capitali per oltre 3 miliardi ad Alitalia, che si trova ancora in mezzo al guado dell’ennesimo salvataggio. La banca toscana ha invece chiuso anche il 2020 in rosso per oltre 1,6 miliardi. Le perdite accumulate dall’istituto a partire dal 2011 ormai superano i 23 miliardi e il Tesoro, azionista di maggioranza con una quota del 68 per cento, ha già bruciato 5 miliardi per evitare il crack. Come noto, l’origine di tutti i guai di Mps va ricercata nella sciagurata acquisizione di Antonveneta alla fine del 2007. All’epoca il governatore di Banca d’Italia era proprio Draghi, che diede luce verde a un affare destinato a dissanguare il bilancio del compratore proprio alla vigilia della grande crisi della finanza esplosa negli anni successivi.
A partire dal 2011, l’ex banchiere centrale italiano è stato chiamato a vigilare sull’istituto di Siena anche in veste di presidente della Bce. E adesso si trova di nuovo ad affrontare la colossale grana del Monte, passato sotto il controllo dello Stato e bisognoso di almeno un paio di miliardi di capitali freschi per evitare il tracollo. Ironia ella sorte, se alla fine fosse Unicredit il cavaliere bianco chiamato in soccorso di Siena, il salvataggio, con la benedizione del governo Draghi, la complicata operazione verrebbe gestita dai due manager di vertice della banca milanese. E cioè il presidente Pier Carlo Padoan e l’amministratore delegato Andrea Orcel, entrambi ben conosciuti nella città del Palio. Il primo, da ministro dell’Economia, nel 2017 scongiurò il crack investendo oltre 5 miliardi di fondi pubblici e poi, nel 2018, è stato eletto deputato proprio nel collegio di Siena. Orcel invece, all’epoca manager di punta della banca d’affari Merril Lynch, tra il 2007 e il 2008 era uno dei consulenti più ascoltati dai capi di Mps quando comprarono Antonveneta.
È il passato che ritorna, mentre il grande zombie del credito è ancora tra noi, con il suo carico di perdite e crediti a rischio. Sul Monte il nuovo governo rischia grosso, come pure su Alitalia, anche perché Bruxelles, dove pure Draghi gode di gran credito, non sembra più disposta a fare sconti. La ripartenza della compagnia di bandiera, reduce dall’ennesimo salvataggio è ancora appesa giudizio dell’Unione europea.