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Dati, intelligenza artificiale e machine learning: chi sono i giovani italiani con il lavoro assicurato
Sono richiestissimi dalle aziende del nostro Paese e non solo, hanno buoni stipendi e possibilità di fare carriera. Le storie dei ragazzi impiegati in un settore in pieno boom
Nel 1997, Massimo Marchiori, matematico dell'Università di Padova, parlò ad una conferenza su Internet a Santa Clara, California. Larry Page era tra il pubblico. Marchiori stava lavorando ad un progetto chiamato Hyper Search, un programma che scansionava i link tra i siti web invece del testo su di essi. Page, già occupato nelle sue ricerche, lo avvicinò al termine della conferenza, parlò con lui e concluse “Amico, vorrei sviluppare la tua idea". Marchiori tornò a casa nella speranza di realizzare il suo ambizioso progetto. "Quando sono tornato in Italia, ho chiesto all'università 20.000 euro per sviluppare un motore di ricerca, ma invece hanno finanziato un progetto sulla storia della metallurgia del rame in Italia" ha detto.
Nel frattempo, Page ha ricevuto il suo primo assegno da 100.000 dollari da Andy Bechtolsheim, cofondatore di Sun Microsystems, e ha creato il motore di ricerca Google da 100 miliardi di dollari all’anno. Un’allegoria della situazione italiana, dove si formano menti geniali, ma non sono supportate da conseguenti finanziamenti.
Oggi, 25 anni dopo la conferenza di Marchiori, la trasformazione digitale traina il mondo del lavoro a livello globale e la situazione in Italia sta cambiando. I lavori emergenti sono Data Analyst e Scientist, specialisti in intelligenza artificiale e machine learning, e Robotics Engineer (WEF, Future of Jobs, 2020).
Questi profili sono molto richiesti, ma insufficienti: in Europa nel 2018, il 57% delle imprese che hanno assunto o cercato di assumere specialisti ICT (tecnologie dell'informazione e della comunicazione ndr) ha riferito di avere difficoltà a coprire i posti vacanti. L’Italia è tra gli ultimi paesi in Europa per competenze avanzate e sviluppo, ovvero laureati in materie ICT (DESI 2020, Commissione Europea). Dato il gap tra domanda delle aziende e offerta, i laureati magistrali in materie ICT vengono letteralmente risucchiati dal mercato del lavoro: 9 su 10 sono assunti subito dopo la laurea. All’opposto dei laureati dei gruppi art e design e letterario-umanistico, il cui tasso di occupazione è inferiore all’81% (dati Almalaurea 2021).
Almeno cinquanta aziende hanno contattato Edoardo Casiraghi, 28 anni, di Montevecchia, mentre stava terminando la laurea in informatica all’Università Bicocca di Milano. “Ho scelto quella che mi interessava di più, dove mi offrivano maggiori possibilità di sviluppo” racconta con disinvoltura questo consulente della Borsa italiana. In questo settore, infatti, sono i laureati a scegliere le aziende. Stefania Massetti, 26 anni, di Volpiano, neolaureata in ingegneria informatica al Politecnico di Torino, osserva “non ero contenta del mio primo lavoro dopo la laurea perché non avevamo margini di creatività, così ho deciso di cambiare”.
In Italia, i neolaureati in informatica ed ingegneria informatica sono rari e richiestissimi. Società di consulenza, startup e grandi aziende se li contendono in modo feroce, in quella che si può definire una vera e propria guerra all’assunzione. Questo processo si è intensificato durante la pandemia: l’incremento della digitalizzazione industriale sta accelerando la percezione dell’utilità dei dati in tutti i settori.
Se molte aziende non riescono a trovare personale, il problema non è certo la qualità della formazione. «C’è poco da fare, l’Italia è uno dei sistemi accademici migliori al mondo. Un laureato italiano è molto più preparato in media rispetto a coetanei di altri paesi» sottolinea Luca Longo, laureato in informatica all’Università dell’Insubria, ricercatore e professore di computer science alla Technological University di Dublino. Senza contare il costo moderato dell’università italiana dove le tasse scolastiche si aggirano intorno ai 2-3000 euro l’anno. Negli Stati Uniti per una laurea in informatica bisogna spendere 10-20.000 dollari all'anno in un'università pubblica e circa 50.000 in una prestigiosa istituzione privata, come Stanford, in California.
Carlo Torniai è d’accordo “la formazione italiana in ingegneria informatica è molto più completa e meno settoriale rispetto a quella anglosassone, che invece ha una spendibilità immediata per quanto riguarda certe skills, ma queste cambiano talmente rapidamente, mentre l’approccio di metodo che offre la formazione italiana è una base sempre utile”. Torniai conosce molto bene sia l’universo industriale che accademico. Dopo una laurea tra Firenze e Los Angeles e un dottorato in informatica, questo ingegnere è stato ricercatore tra Stati Uniti, Canada e Inghilterra, e ha poi lavorato per aziende prestigiose, come Tesla, Pirelli e FIFA. L’Italia è riuscita a recuperare questo talento nomade, e oggi lavora come Head of data, insights and artificial intelligence per Esselunga, dove dirige le evoluzioni relative al mondo dei dati.
Grazie al remote-working, molti informatici italiani possono lavorare per grandi aziende estere senza spostarsi. Provate a discutere cinque minuti con uno di loro: è come osservarne le sinapsi da vicino, la rapidità di ragionamento è vertiginosa e avrete la sensazione di essere uno studente del Dams finito per errore in un corso sulla rivoluzione quantistica. Con scioltezza vi parlerà di questioni complicatissime, senza preoccuparsi nemmeno di sapere se siete un esperto di linguaggi, librerie digitali o algoritmi.
Paolo Galeone è un giovane talento. Nominato Google Developer Expert, un riconoscimento della multinazionale californiana ad esperti in progetti informatici, questo ingegnere informatico di 28 anni è stato ricercatore presso il Computer Vision Laboratory dell'Università di Bologna, grazie al finanziamento di un’azienda bolognese. Oggi lavora per Zuru Tech, sede italiana di Zuru Toys, azienda che produce giocattoli fondata da tre ragazzi neozelandesi, con circa 5000 dipendenti e un fatturato di 460 milioni di dollari. Paolo racconta con un certo orgoglio «vogliamo espanderci nel settore dell’edilizia e creare un’applicazione per progettare edifici. Ciò che progetti nel software lo puoi acquistare direttamente: con un semplice click parte la prefabbricazione di muri, finestre, armature, travi». L’applicazione è sviluppata in Italia mentre la parte di robotica in Cina. Paolo è stato promosso «ora non solo gestisco un team di cinque developers (sviluppatori di software ndr) di machine learning (apprendimento automatico) e di visione artificiale, ovvero algoritmi che permettono di estrarre informazioni da immagini e video. Ora sono il technical lead (direttore tecnico) del progetto, mi occupo della qualità del codice e altre cose». Paolo è un vero e proprio appassionato: da sempre attivo nell’open source (software a licenza aperta), si diverte a sviluppare software nel tempo libero e li pubblica sui siti specializzati come GitHub. “Nel passato ho scritto un social network tematico per imparare la progettazione, sviluppo librerie, sono uno specialista di Tensorflow (libreria software open source per l'apprendimento automatico ndr)”. Nella sua azienda il modo di fare, dice, è diverso da quello italiano «c’è flessibilità sugli orari, faccio 40 ore a settimana e me le gestisco come voglio. C’è un’offerta di cose sfiziose come un’area relax, snack, bibite, tavoli da pingpong, caffé a volontà, una playstation», ma, al di là degli intrattenimenti californiani, osserva « mi danno carta bianca, come all’università : mi dicono guarda c’è questo obiettivo e dobbiamo usare delle tecniche nuove per battere gli altri, bisogna studiare e scoprire qualcosa di nuovo applicandolo al caso concreto ».
Ragazzi come Galeone vengono intercettati dalle aziende in una corsa globale al talento, nella quale la remunerazione è un fattore discriminante. Secondo code.org, un laureato in informatica guadagna in media il 40% in più dei laureati di altri campi. “Per fare lo stesso lavoro informatico all’estero ti offrono il doppio dello stipendio” osserva Vincenzo Manzoni, data science director di Tenaris.
In Italia un neolaureato guadagna tra i 22 e i 32.000 all’anno. In America un neolaureato magistrale bravo ha un contratto entry-level intorno ai 70.000 dollari; persone altamente qualificate nelle Big Tech possono guadagnare 100.000 dollari all’anno. “I migliori profili senior nella Silicon Valley arrivano a guadagnare 500.000 dollari all’anno” osserva Galeone. Tuttavia non è necessario attraversare l’oceano: basta spostarsi a Zurigo, a 250 km da Milano, dove un data scientist può guadagnare più di 100.000 franchi svizzeri. “Secondo me il salario non deve essere l’unico driver, bisogna seguire la curiosità, capire cosa si vuole davvero imparare. Sono andato negli Stati-Uniti per capire se interessava la ricerca e mi è costato, non solo in termini economici, ma anche rispetto ad un avanzamento nel mondo corporate che avrei potuto fare prima. Oggi le opportunità sono ovunque” evidenzia Torniai.
Al momento in Italia le realtà in grado di dotarsi di squadre interne di informatici specializzati sono le grandi aziende. Queste stanno assorbendo il cambiamento digitale, che prima di essere tecnologico è culturale. Matteo Palmonari, professore al dipartimento di informatica della Bicocca, osserva «oggi lavoriamo con le aziende su progetti di innovazione tecnologica per trovare nuove soluzioni, per il miglioramento di soluzioni o brevetti».
Negli ultimi anni nelle università italiane sono stati introdotti strumenti di dottorato executive e in alto apprendistato: nei primi le aziende finanziano un dottorato ai loro dipendenti, nei secondi invece le aziende assumono studenti garantendo loro un percorso di tre anni di dottorato. Le tecnologie di intelligenza artificiale sono molto più complesse, l’utilizzo di sistemi di produzione è spesso più vicino all’attività scientifica, ecco perché in questi anni «aziende come Banca Intesa, Spazio Dati, Enea, Sette Pixel hanno fornito borse di dottorato ai nostri studenti».
E’ quasi più facile realizzare attività scientifico-accademica per le aziende che per le università, dove una carriera è difficile se non quasi impossibile, con borse di dottorato da 1.200 euro al mese «i poveri dottorandi soffrono e i margini di carriera sono dilatati e molto lenti» commenta Longo.
I grandi gruppi come Pirelli, Barilla, Esselunga, Nexi, le compagnie telefoniche come Vodafone o Tim, le compagnie di media come Sky danno lavoro ai laureati specializzati.
Le aziende si ritrovano con una grande quantità di dati e nel momento in cui decidono di sfruttarli per generare nuovo profitto, entrano in azione le figure del data analyst o del data scientist per analizzare i dati e capire come sfruttarli al meglio. La capacità di creare un dipartimento di data science in un’azienda non è scontata, “è importante trovare un leader, perché i giovani professionisti in Italia sono attratti da una persona che li possa guidare in un percorso iniziale, qualcuno in grado di selezionare le persone, parlare con il business, cogliere e sviluppare opportunità, gestendo un cambiamento nell’organizzazione del lavoro” racconta Manzoni.
Un discorso più difficile per il resto del tessuto industriale italiano, dove i budget delle piccole e medie imprese destinati alla digitalizzazione sono ancora ingessati, “bisognerebbe permettere a queste aziende di prendersi dei rischi, per esempio con sgravi fiscali per le attività di data science” osserva Manzoni. In effetti le PMI usano il web, ma solo le grandi aziende integrano tecnologie più avanzate: nel 2020 l’82% delle imprese con almeno 10 addetti non ha adottato più di 6 tecnologie tra le 12 considerate dall’indicatore europeo di digitalizzazione. Inoltre solo l’8% delle PMI si avvale di almeno due dispositivi smart o sistemi interconnessi, di robotica e analisi di big data (dati ISTAT 2021). Uno studio della società Ernst&Young sottolinea “Il valore potenziale della data economy per l’Italia è almeno del 2,8% del pil pari a 50 miliardi. (…) Quello che manca è la trasformazione dei dati in valore“.
Molte aziende italiane affidano queste attività a società di informatica o a società di consulenza esterne, le più aggressive oggi in termini di assunzione. Per Tatiana Rizzante, ingegnere informatico, CEO di Reply, società di consulenza e multinazionale italiana IT quotata in borsa, “con il remote-working la guerra ai talenti è ancora più intensa, si possono assumere persone ovunque, con il solo vincolo del fuso orario e della lingua”. I primi stipendi si aggirano intorno ai 26-32.000 euro. “Assumiamo soprattutto dai Politecnici italiani e cerchiamo in particolare profili di software engineer, sui quali possiamo costruire molto”. Il fatturato, 1,25 miliardi di euro nel 2020, è in crescita e l’azienda è sempre alla ricerca di nuovi laureati “ora le aziende nell’automotive e nel turismo hanno rallentato le assunzioni ICT a causa della pandemia, e questo va a nostro favore”.
Anche per loro il gap tra offerta di laureati e domanda è un grande problema “i percorsi di formazione non sono sufficienti, le scuole non stanno producendo abbastanza profili informatici” osserva Rizzante. Nell’ultimo anno, Accenture, un’altra grande società di consulenza, ha assunto 3.500 persone in Italia. Anna Nozza, responsabile risorse umane, sottolinea «ci rivolgiamo anche a profili con percorsi interdisciplinari, che associano contenuti STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica ndr) a materie umanistiche. Un approccio che abbiamo definito “Stemanesimo” e che vede nell’apporto combinato delle due dimensioni l’elemento chiave per avere successo nel contesto attuale».
In questo periodo, aggiunge Nozza, «cerchiamo oltre 2.500 talenti per le divisioni chiave, tra le quali security, cloud & infrastructure, innovation, analytics”. Alcune aziende estere hanno scelto l’Italia per espandersi: l’1 giungo l’azienda Fintech svedese Klarna ha creato a Milano il suo quarto tech hub su scala europea, dove sta assumendo nuovi profili di software engineer. L’azienda Paytech italiana Nexi, in continua espansione, ha assunto l’anno scorso 80 persone e quest’anno conta di assumerne 50 nei settori IT, Data & Analytics.
La startup CARDO AI di Altin Kadareja, laureato alla Bocconi di origini albanesi, con un passato in BlackRock, la più grande società di investimento al mondo, si occupa di elaborare software per il mercato degli investimenti privati. L’assunzione di sviluppatori non è facile «passo il 60% del mio tempo ad occuparmi di questo, racconta. Il talent pool è scarso e per una startup non è evidente attirare i talenti che vengono risucchiati dalle grandi aziende americane». Un altro aspetto insidioso è il carattere degli sviluppatori «di solito tendono a non disturbare e a non farsi disturbare. Qualche settimana fa un ragazzo voleva dare le dimissioni di punto in bianco perché non gli abbiamo offerto subito la flexibility, ovvero orari e luogo di lavoro flessibili. Insomma devi trovare il modo di accomodarli prima che te lo dicano».
I laureati in materie informatiche, vere e proprie intelligenze scientifiche, sono risorse molto corteggiate e non sembrano soffrire la crisi. Tra loro una cosa fa l’unanimità: il governo italiano non investe abbastanza in ricerca e sviluppo, e pochi sono motivati a raggiungere il settore pubblico. In un mercato globale, infatti, la prova di questo è ITSART, “la Netflix della cultura italiana”, sconosciuta ai più: la registrazione sul sito, voluto dal Ministero della Cultura, costato 10 milioni di euro pubblici, con una grafica anni ‘90 e un catalogo molto ristretto, è inaccessibile fuori dall’Italia.