Il grande istituto svizzero viaggia ai minimi in Borsa. E l’aumento di capitale varato in autunno potrebbe non bastare per il salvataggio

Nelle Borse in balìa della peggiore tempesta finanziaria dai tempi della crisi dei mutui sub-prime, gli speculatori hanno messo nel mirino un bersaglio grosso. Il Credit Suisse, marchio paludato della finanza internazionale, da più di un secolo gestore e custode di patrimoni miliardari, ha perso la bussola del profitto e naviga a vista alla ricerca di un porto sicuro. Servono soldi, molti e in fretta, per evitare guai peggiori. Le dimensioni del disastro lievitano di settimana in settimana, tra indiscrezioni e fughe di notizie, spesso interessate. Quattro miliardi, poi sei, ora siamo arrivati a otto miliardi di euro: sarebbe questa la somma necessaria per mettere in sicurezza un gigante globale inserito dal Financial stability board nella categoria delle istituzioni di interesse sistemico, trenta in tutto.

 

In altre parole, secondo i guardiani della finanza internazionale, un ipotetico crac del Credit Suisse avrebbe ripercussioni pesanti sull’equilibrio del sistema e potrebbe diventare il detonatore di una crisi globale. Lo stesso film già visto nel 2008, dopo il dissesto dell’americana Lehman. A quattordici anni di distanza da quel terremoto, i mercati si trovano di nuovo in una fase di estrema tensione e le nubi nere in arrivo da Zurigo certo non migliorano il clima. Non pare casuale, allora, che di recente si sia sparsa addirittura la voce di un intervento del governo di Berna, pronto a finanziare il salvataggio. Sarebbe una soluzione estrema, un ribaltamento di ruoli per uno Stato, la Confederazione, la cui stabilità è sempre stata garantita dalle banche, e non viceversa.

 

Axel Lehmann, presidente Credit Suisse

 

 

La rincorsa parte dai 3,6 miliardi di perdite accumulate nel 2021 e nel primo semestre di quest’anno, ma sul futuro della banca grava soprattutto l’eredità di una catena di scandali che hanno fatto emergere, come minimo, clamorose falle nei controlli interni e gravi errori nella gestione dei rischi. Riesce difficile spiegarsi, altrimenti, come sia stato possibile che la filiale americana di Credit Suisse abbia potuto accumulare un’esposizione ai fondi d’investimento Archegos pari a 25 volte il valore massimo consentito in base ai regolamenti interni. Archegos, fallito nella primavera del 2021, ha provocato una perdita di 5,5 miliardi di dollari nel bilancio della banca elvetica.

 

L’anno scorso si è poi scoperto che Credit Suisse era uno dei principali partner di Greensill, un altro gruppo finanziario internazionale travolto dalle perdite. Nel tentativo di proteggere i propri clienti, l’istituto di credito con base a Zurigo è così stato costretto a chiudere alcuni fondi esposti per 10 miliardi di dollari nei confronti della società in bancarotta. Una parte del denaro è stata recuperata, ma sono migliaia gli investitori che reclamano oltre 2 miliardi inghiottiti dal crac. Serviranno anni per venire a capo di una vicenda a dir poco complessa. Poi ci sono i danni d’immagine. La missione dell'amministratore delegato Ulrich Koerner, affiancato dal presidente Axel Lehmann, pure lui in carica da pochi mesi, diventa se possibile ancora più impegnativa. Se non altro perché il Credit Suisse deve scrollarsi di dosso la polvere di altri casi imbarazzanti.

 

Nell’ottobre 2021 l’authority finanziaria elvetica ha sanzionato l’istituto zurighese per una serie di attività di spionaggio illegale autorizzate dai vertici aziendali nei confronti di alcuni top manager tra il 2016 e il 2019. È invece fin qui costata una multa di 475 milioni di dollari la vicenda dei tuna bond, una frode legata al collocamento di obbligazioni per circa 2 miliardi di dollari che nel 2013 avrebbero dovuto finanziare, tra l’altro una flotta di navi per la pesca del tonno e uno stabilimento per la successiva lavorazione del pesce. Si è però scoperto che il denaro raccolto tra gli investitori internazionali è andato in gran parte nei conti off shore di una cricca che comprendeva intermediari, politici mozambicani e anche manager della banca elvetica. Il fallimento di due società statali coinvolte nel progetto ha dato il colpo di grazia alle fragili finanze del Mozambico che nel 2016 ha dichiarato il default. L’indagine, partita negli Stati Uniti e in Gran Bretagna è ancora in corso, mentre si è concluso a luglio il processo che ha portato alla condanna del Credit Suisse per aver attivamente collaborato, una decina di anni fa, con l’organizzazione criminale del boss bulgaro Evelin Banev nel riciclaggio di centinaia di milioni di dollari, frutto del traffico di droga.

L'amministratore delegato di Credit Suisse Ulrich Koerner

L’eco internazionale della sentenza ha contribuito a dare un altro colpo all’immagine pericolante della banca guidata da Koerner, che a febbraio aveva dovuto affrontare anche l’onda mediatica dell’inchiesta Swiss Secrets. Grazie a un gigantesco leak di dati, un gruppo internazionale di giornali ha elencato i nomi di politici corrotti, trafficanti di droga, oligarchi ed evasori fiscali che negli anni scorsi avevano parcheggiato capitali per miliardi di dollari nei conti del Credit Suisse. «Storie vecchie, perché da tempo sono state introdotte regole antiriciclaggio più severe», ha replicato la banca. La smentita però non cancella l’imbarazzo. Per voltare pagina davvero e salvare i conti servirà ancora tempo e molto denaro.