«Il regolamento Ue è basilare perché i fondi pubblici non basteranno alla transizione. Serve anche la finanza privata» spiega il ministro. Ma gli esperti si dividono

«La transizione ambientale deve essere socialmente sostenibile. I progetti necessari per attuarla negli stretti tempi previsti devono essere realistici. E bene ha fatto l’Ue a regolamentare con la cosiddetta “tassonomia” i finanziamenti dei privati alle nuove centrali a gas e alla ricerca sul miglioramento della sicurezza del nucleare, fonte usata da 14 Paesi». Roberto Cingolani, ministro per la Transizione ecologica, non ne può più delle polemiche.

 

«Intanto stiamo nei tempi. Nel 2021 abbiamo centrato tutti e 7 gli obiettivi richiesti da Bruxelles e siamo in linea per gli 11 previsti per metà 2022: 4 investimenti e 7 riforme. E poi, i finanziamenti dei privati sono importanti».

 

Cingolani ci parla con passione venata di amarezza mentre in macchina - martedì scorso - viene a Roma per l’approvazione della legge che sancisce l’ingresso della tutela dell’ambiente nella Costituzione, «una bellissima vittoria». Ma mentre il compito della transizione, con 34,7 miliardi del Pnrr da investire entro il 2026, si rivela ancora più duro di quanto immaginato, ora c’è da fare i conti con le controversie scoppiate sulla bozza di regolamento approvata dalla commissione Ue il 2 febbraio: prevede che Bruxelles possa affiggere l’etichetta “green” ad azioni e obbligazioni emesse per gli investimenti nelle nuove centrali a gas (purché emettano non più di 270 grammi di CO2 per kWh e siano sottoposte a vincoli quali la destinazione di parte dell’energia al teleriscaldamento) nonché ai titoli creati per finanziare il miglioramento della sicurezza nel nucleare, anche qui con severi vincoli su sicurezza e stoccaggio dei rifiuti radioattivi.

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Le centrali potranno restare in esercizio solo con la clausola Dneh (Do not excessive harm). «In Italia», puntualizza il ministro, «non sorgeranno più centrali nucleari perché i referendum parlano chiaro, però è importante che le nostre più prestigiose strutture scientifiche partecipino alla ricerca comune sulla sicurezza dell’esistente, e anche sulle centrali del futuro più piccole e con poco se non nulla scarto».

 

Il regolamento dell’Ue «è basilare perché i fondi pubblici, pur cospicui, non basteranno alla transizione. Sono due partite separate: il Pnrr e la finanza privata, e sono entrambe cruciali. Intendiamoci: a tutti piacerebbe risvegliarci un bel mattino in un mondo tutto alimentato con le fonti rinnovabili, ma la transizione ha i suoi tempi e servono grossi investimenti per fare da “ponte” verso la decarbonizzazione del 2050. In questo periodo bisogna ricorrere alle fonti meno inquinanti possibile che però diano stabilità e certezza alle forniture energetiche, e investire in tal senso».

 

Quanto ai limiti previsti sul gas, ci tiene a puntualizzare Cingolani, «in Italia siamo avanti e i livelli fissati da Bruxelles sono già rispettati in alcuni impianti. Ma si può sempre fare meglio». L’Europa «vuole facilitare innanzitutto l’uscita dal carbone, e poi la sostituzione delle più vetuste centrali a gas, tenendo ferma la prospettiva di un sempre maggior contributo del solare e dell’eolico (oggi rispettivamente il 9 e l’8% delle forniture elettriche, ndr), verso i quali la spinta degli investimenti rimane fortissima. Mi sembra un quadro di realismo».

 

Nel nostro Paese con il carbone è alimentata ormai non più del 6% della produzione elettrica con sei centrali, quattro dell’Enel tutte in via di riconversione (Venezia, Brindisi, Civitavecchia, Portoscuso in Sardegna), una di A2A (Monfalcone per la quale è stata appena approvata la trasformazione a gas) e una a Porto Torres del gruppo ceco Eph. «Dovremmo farcela a riconvertirle tutte entro la data prevista del 2025 anche grazie alle tecnologie del gas “buono” ai sensi della direttiva Ue». Il tutto sempre tenendo sotto osservazione il pericolo di fare passi falsi che potrebbero avere conseguenze sociali e occupazionali, insiste il ministro, «come la rivolta dei gilet jaunes del 2018 in Francia che fu innescata dal rialzo del gasolio agricolo a fini ecologici».

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Insomma, il ricorso alla finanza privata è strategico e a questo fine Palazzo Berlaymont ha predisposto la “tassonomia”, appunto gli standard per poter definire “verde” un investimento e quindi aprire la strada ai titoli privati emessi per finanziarlo. Un report dell’8 febbraio di Standard & Poor’s, regina del rating, conferma il boom del mercato dei titoli destinati a finanziare la sostenibilità, che supererà quest’anno i 1500 miliardi di dollari, il 17% di tutti i bond emessi dalla finanza mondiale e il doppio del 2021. Il problema è che la bozza di regolamento ha scatenato un putiferio nell’Unione.

 

Di traverso si è già schierato un bel plotone di Paesi: Spagna, Olanda, Danimarca, Lussemburgo. Un ricorso alla Corte di Giustizia europea è stato minacciato da Svezia e Austria, ed è probabile che al pacchetto di mischia si unisca la Germania sotto la spinta dei Verdi neo-entrati nel governo. Il gas è fossile, è l’obiezione, e del nucleare neanche a parlarne. La battaglia ora si sposta nel Consiglio europeo e nel Parlamento di Strasburgo, che dovranno dare due pareri vincolanti in un periodo di quattro-sei mesi.

 

Un titolo “verde” non gode di particolari benefici fiscali né di vantaggi sui tassi. Può essere però inserito, qui sta il gioco, nei programmi d’investimento dei maggiori gestori di risparmio del pianeta, a partire da BlackRock, il più grande di tutti con qualcosa come 9500 miliardi di dollari amministrati, che aprì un anno fa la “strada verde” con una lettera ai sottoscrittori del fondatore Larry Fink: da allora in poi i “green bond” avrebbero avuto un canale privilegiato nelle scelte di allocazione delle risorse. Funziona così: BlackRock decide quali titoli comprare con i fondi dei risparmiatori e se un’azienda ha emesso un titolo “green” per finanziare un’opera ecologica, lì vanno i soldi.

 

Rapidamente quasi tutti gli asset manager del pianeta hanno condiviso la svolta. «È diventato allora fondamentale stabilire quando un bond è verde o no, con standard precisi, e per questo la pronuncia della Ue è così importante», commenta l’economista Giampaolo Galli della Cattolica. «Era stato il maggior finanziere individuale del pianeta, Warren Buffett, a lanciare l’allarme “greenwashing”, contro chi voleva semplicemente ripulirsi la coscienza senza preoccuparsi che i suoi soldi andassero a finanziare investimenti davvero ecologici. Bruxelles ha dato la risposta».

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Ma l’opposizione è forte. «Perfino la Banca europea degli investimenti si è detta perplessa», commenta l’economista Innocenzo Cipolletta. «Bisogna avere l’onestà di ammettere che la stessa parola “transizione” contempla la necessità di interventi graduali, che in questo caso sono rappresentati dai miglioramenti tecnologici per ridurre via via l’impatto di questa o quella fonte. Del resto, è sempre avvenuto così con gli sviluppi della scienza: con il Ddt fu debellata la malaria, anche in Italia, e poi si è pensato a ridurre gli impatti negativi del Ddt stesso. Ogni innovazione ha qualche effetto collaterale che poi sarà annullato con l’innovazione successiva. Ma il risultato, abolire la malaria, è acquisito. L’importante è non fermare la ricerca in modo che si possa arrivare al traguardo del 2050 senza intoppi rovinosi». Quando si parla di gas però non si può trascurare il fattore prezzo: «Le quotazioni sono impazzite per la forza della domanda indotta dalla ripresa economica, dopodiché si sono inserite le variabili geopolitiche», dice Cipolletta. «Se la tensione fra Nato e Russia continua, le conseguenze sul gas sono inevitabili».

 

Anche secondo Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, «la pronuncia dell’Europa sulla “tassonomia” spazza il campo dalle incertezze: il gas ci serve, e ci servirà per diversi anni ancora, sia per l’elettricità domestica che per l’industria. Ma le quotazioni continuano a essere sostenute: siamo sui 75 euro a megawattora contro i 47 dell’anno scorso e i 20 dei tempi “normali”. È importante per tutti, gli utenti e le aziende che sull’energia investono, permettere l’impegno sulle nuove centrali, nonché sugli impianti di rigassificazione per poter importare gas liquefatto e dei quali si dovrebbe potenziare il parco (oggi sono in funzione quello Snam di Panigaglia e l’Edison offshore di Rovigo, mentre è in alto mare la costruzione di quello di Porto Empedocle ndr)».

 

Del resto, dice Tabarelli, «sul gas si investe in molte parti del mondo a partire dagli Stati Uniti che esportano lo “shale” ottenuto con il fracking. Ogni incentivo a produrne di più è utile e permette di superare il problema Russia abbattendo i prezzi. Certo, se la Germania non minacciasse di non aprire il gasdotto Nord Stream 2, che raddoppierebbe da 50 a 100 miliardi di metri cubi l’anno le forniture, si starebbe più tranquilli». Insomma, all’obiezione iniziale del ministro Cingolani, che invitava a guardare laicamente al problema energetico, si aggiunge il lavoro ai fianchi sui prezzi con l’aumento della produzione, la rigassificazione del gas liquefatto (che quindi può arrivare anche da lontano), la diversificazione delle fonti. E l’Ue, ancora una volta, può giocare un ruolo centrale di “perno” degli investimenti, pubblici e privati.