Il fenomeno
Cosa stanno facendo le città contro lo strapotere di AirBnB
Firenze mette un freno ai nuovi affitti nel centro storico e altri comuni italiani potrebbero seguirne l'esempio. Mentre il governo prepara un decreto sugli affitti brevi. Ma si tratta di soluzioni parziali. Intanto all'estero si provano divieti più stringenti
L’Italia è il terzo paese al mondo per annunci su Airbnb. Lo aveva dichiarato alcuni mesi fa Matteo Frigerio, country manager della società, commentando i dati del 2022, per un totale di 400 mila alloggi, subito dopo Stati Uniti e Francia. Numeri che restituiscono una fotografia molto distante dal famoso materasso ad aria messo in affitto a San Francisco per 80 dollari a notte da Brian Chesky - Ceo e fondatore di Airbnb - per arrotondare i costi quando era studente. E i dati sulle città italiane lo confermano: secondo Inside Airbnb, a Firenze quasi l’80% degli alloggi in affitto sono interi appartamenti e case. Solo lo 0,3% sono stanze condivise. Oggi il 29% delle case del centro storico del capoluogo toscano sono in affitto sulla piattaforma di home sharing più famosa al mondo.
E così anche nel resto d’Italia: a Roma il 70% dei 28mila annunci sono di intere case, a Napoli il 66%. A Venezia saliamo al 77% e a Milano si supera l’81%, con oltre 24mila alloggi sulla piattaforma. Non solo: sono sempre più evidenti i monopoli di chi gestisce gli appartamenti nelle città italiane: a Firenze cinque società gestiscono da sole rispettivamente tra gli 80 e i 193 appartamenti, a Roma IFlat e Welcome To Our Holidays Home 255 e 160. A Venezia Veniceapartement.com e Views on Venice 128 e 85. È chiaro che si tratti di un business che nel tempo è diventato sempre più appannaggio di multiproprietari e di società immobiliari e non di piccoli rentier per sbarcare il lunario.
Le città italiane sono state fino ad oggi le uniche in Europa a non aver introdotto alcuna regolamentazione e limitazione alla conversione di abitazioni residenziali in affitti brevi turistici, come ha sottolineato lo studio “Challenges and effects of short-term rental regulation. Annals of Tourism Research” di Filippo Celata e Gianluca Bei pubblicato appena qualche mese fa. Richieste di licenze e autorizzazioni, time-cap per chi supera un certo numero di giorni di affitto l’anno, restrizioni differenziate per zone della città con attenzioni particolari ai centri storici, autorizzazione di terze parti e obblighi per le piattaforme nella condivisione dei dati, sono alcune delle misure introdotte nelle città europee (Amsterdam, Barcellona, Parigi Londra e molte altre) per contrastare gli effetti degli affitti brevi. Lo studio ha anche dimostrato come, effettivamente, nelle città in cui sono state introdotte regolamentazioni di questo tipo, ci sia stato un calo in favore della residenzialità, degli affitti a lungo termine e del ripopolamento.
La delibera approvata dal Consiglio Comunale di Firenze e voluta da Dario Nardella, che prevede il divieto di nuovi Airbnb nell’area Unesco del centro storico e il taglio dell’Imu sulla seconda casa per tre anni, in favore di coloro che rinunceranno alle locazioni brevi, è un primo passo, ma per stessa ammissione del sindaco “non è una panacea”. Nel frattempo, la bozza del decreto del governo annunciato dalla ministra del turismo Daniela Santanché non sembra risolutivo: divieto di pernottamento inferiore a due giorni nei centri storici dei capoluoghi, affitto consentito per finalità turistiche solo per le seconde case e stretta sul numero di appartamenti associabili al regime fiscale degli affitti brevi, che passa da quattro a due.
All'estero invece si provano soluzioni più drastiche. New York, esattamente un mese fa, ha dato una stretta senza precedenti alle piattaforme di home sharing, tra cui Airbnb e Booking: l’affitto breve è ormai consentito solo agli appartamenti dove gli host, proprietari o affittuari, risiedono in prima persona e sono effettivamente presenti.
Ma del resto, la storia di Airbnb, non è mai stata quella di un’impresa nata dal basso, al contrario di ciò che la narrazione dell’azienda da sempre racconta: Brian Chesky ha messo a rendita il suo materasso quando il prezzo dell’affitto dell’appartamento in cui viveva si è alzato, per volere di un multiproprietario che non ha esitato a sfrattare i propri inquilini. Il ceo di Airbnb ha risposto con un business personale ad un problema collettivo: gli altri affittuari si rivolsero all'unione degli inquilini denunciando il caro degli affitti, vincendo la causa e costringendo il comune ad acquistare gli edifici. Chesky ha partecipato a una scuola di start up della Silicon Valley, Y Combinator: Airbnb, per come la conosciamo oggi, non è mai stata un modello di condivisione di stanze e case nato spontaneamente, ma il risultato di una iniezione ingente di denaro da parte di grandi investitori e di un’azione mirata per far crescere quella che, a tutti gli effetti, è diventata una multinazionale. Con un impatto sulle città che oggi è sotto gli occhi di tutti.