Intervista

Così il salario minimo farebbe crescere l'economia italiana

di Gloria Riva   16 novembre 2023

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La proposta osteggiata da Governo e Cnel farebbe crescere i redditi di 3 milioni di famiglie. E sposterebbe 2,8 miliardi di euro dai profitti ai salari. «Inciderebbe in misura impercettibile sugli imprenditori, ma si trasferirebbe per intero ai consumi delle famiglie» spiega Leonello Tronti, ricercatore Istat

Governo e Cnel sono contrari all’introduzione di un minimo salariale. Eppure, chiediamo a Leonello Tronti, ricercatore dell’Istat, assicurare a tutti un lavoro dignitoso dovrebbe essere un tema politicamente condiviso. «Ha ragione. Si avrebbe uno spostamento di 2,8 miliardi dai profitti ai salari, che inciderebbe in misura impercettibile sugli imprenditori, ma si trasferirebbe per intero ai consumi delle famiglie, con il risultato di sostenere la domanda interna e le imprese che operano nel mercato dei beni di consumo. Farebbe crescere i redditi di 3 milioni di famiglie e le buste paga di chi svolge un lavoro povero (più 14 per cento), in particolare servizi, logistica, apprendisti, giovani e lavoratori del Sud. Scegliere di non sostenere il salario minimo è miope e si basa sulla sbagliata percezione che per crescere sia necessario continuare a sostenere i profitti delle imprese».

 

Il liberismo, il potere del mercato di autoregolarsi, non funziona più?
«Secondo l’Onu, in Italia le retribuzioni pesano sul Pil per il 56,5 per cento, in Spagna il 60,9, in Francia il 61,3, in Germania il 63,4. Se il reddito fosse distribuito più equamente tra imprese e lavoratori, secondo un modello di sviluppo fondato sui salari e sulla crescita della domanda interna, anziché su una competitività globale affidata a salari reali calanti e a rapporti di lavoro senza futuro, l’economia crescerebbe di più».

 

Dove abbiamo sbagliato?
«Il modello della contrattazione collettiva introdotto nel ’93 da Carlo Azeglio Ciampi, in vista dell’entrata in Europa, è divenuto sfavorevole alla crescita salariale. Lo sviluppo dei minimi fissati dalla contrattazione nazionale (primo livello), che avrebbero dovuto muoversi con l’inflazione programmata congiuntamente da governo, imprese e sindacati, nel 2009 è stato affidato a una semplice previsione tecnica e depurato dall’aumento dei beni energetici. Mentre la crescita del potere d’acquisto, delegata alla contrattazione di secondo livello, aziendale o territoriale, è rimasta confinata a una platea di lavoratori significativamente inferiore al 30% del totale. L’alta inflazione, dovuta agli aumenti di petrolio e gas naturale, tra il 2021 e il 2022 ha comportato la perdita di potere d’acquisto di ben 5,1 punti percentuali. Poi, ai lavoratori privi di contrattazione di risultato, vanno sommati: quelli con contratto nazionale scaduto (il 54%); quelli del sommerso (2,1 milioni, il 10,4%); i dipendenti flessibili e precari; quelli con contratti pirata, ispirati all’obiettivo del dumping salariale. La cittadella dei lavoratori che operano in imprese medio-grandi, tutelati da contratti nazionali firmati da associazioni sindacali e datoriali rappresentative e da contratti aziendali o territoriali capaci di accrescerne il potere d’acquisto, ospita una ristretta minoranza del lavoro: meno del 30%. Una costrizione della contrattazione salariale di questa profondità è estremamente dannosa per la tenuta sociale del Paese e per la crescita economica».

 

Sta dicendo che il salario minimo è un tema marginale?
«Sto dicendo che, oltre ai salari da fame, c’è un problema di continua riduzione della retribuzione reale – la perdita di potere d’acquisto dei salari è tanto consistente (-8,3% in 12 anni) quanto unica nell’Eurozona – che si somma a una riduzione del monte ore. Dal 2000 le ore lavorate registrano in Italia una caduta continua e indipendente dal ciclo economico: meno 7,9%, equivalente a un taglio di 133 ore l’anno. Quindi, la perdita di potere d’acquisto della retribuzione media è dovuta per meno di un terzo alla riduzione della retribuzione reale, mentre per due terzi è causata dalla caduta delle ore lavorate, dovuta alla progressiva diffusione dei rapporti di lavoro flessibili, saltuari o precari introdotti nell’ordinamento italiano dalle numerose riforme dei rapporti di lavoro, susseguitesi da ormai più di un quarto di secolo, in parallelo con lo spostamento della struttura produttiva verso le piccole e le microimprese. Forse la struttura dei rapporti di lavoro si è fatta più flessibile ed economicamente conveniente, ma non per questo l’economia ha mostrato una maggiore resilienza e capacità di sviluppo».

 

Quindi il Cnel ha ragione quando afferma che inserire il salario minimo non risolverebbe il problema?
«La risposta del Cnel, sollecitato dalla premier a seguito della raccolta firme per una legge che introduca in Italia un salario minimo di 9 euro l’ora, avviata dai maggiori partiti di opposizione, è sbagliata perché l’illusione che la compressione dei salari, a favore dei profitti, sostenga la crescita dell’economia si scontra frontalmente con l’evidenza dell’abnorme ritardo che l’Italia ha accumulato nei confronti della media dell’Eurozona. Tra il 1995 e il ’21, l’Italia è cresciuta 29,2 punti percentuali meno della media dei Paesi dell’euro, di cui è peraltro il terzo per dimensione economica. In altri termini, per ben 26 anni è stata prigioniera di una sorta di oscura condanna a crescere ogni anno un punto percentuale meno dell’Eurozona, incatenata a quella che si può chiamare “la legge del meno uno”. Per liberarsene, l’economia ha urgente bisogno di un mercato interno vivace, di consumi crescenti, tali da consentire alle imprese che vi operano di prosperare».

 

E il salario minimo sarebbe la soluzione?
«Alla luce dei diversi aspetti della stagnazione salariale italiana, una norma sul salario minimo è indispensabile, ma non basta a risolverla. E tuttavia, all’opposto, credere, come sottolinea la risoluzione del Cnel, che le parti sociali siano in grado di risolvere il multiforme problema del lavoro povero, senza la concreta sollecitazione di un’innovazione politica forte, quale quella proveniente da una norma che fissi il limite al di sotto del quale la remunerazione del lavoro è anticostituzionale, è pia illusione o, peggio, provocazione politica. Il mercato del lavoro italiano ha bisogno di operare all’interno di un quadro valoriale e comportamentale, prima ancora che normativo, di attuazione dei principi costituzionali, al cui interno non c’è contraddizione tra capisaldi quali la collaborazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, il giusto salario o la validità erga omnes dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni più rappresentative»