Banche e fondi sono pieni zeppi di investimenti nelle fonti fossili. E continuano a puntare su gas e petrolio per crescere. Finché alla finanza non sarà impedito di investire nelle fonti fossili nessuna transizione sarà possibile

Fino a ieri il convitato di pietra alle annuali Conference of the Parties, ovvero le Cop internazionali convocate dalle Nazioni Unite per affrontare il tema del cambiamento climatico, era il combustibile fossile. Fino a ieri: perché nella Cop28 di Dubai le fonti fossili sono state il grande protagonista al tavolo e, nonostante non sia stato raggiunto un accordo totale o decisivo per stoppare l’uso di carbone, gas e petrolio, si è almeno ottenuto il consenso di tutti i Paesi della Terra, compresi i produttori di gas e petrolio, a «una riduzione delle emissioni in linea con il contenimento delle temperature entro 1,5 gradi», si legge nel documento finale. Che prosegue così: «Le parti hanno concordato di allontanarsi dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in un modo che sia giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico, in modo da arrivare allo zero netto nel 2050, come richiesto dalla scienza». Questa è la frase decisiva dell’accordo storico raggiunto sotto la presidenza del sultano Sami Al-Jaber. Storico perché, per la prima volta, si dice chiaramente che bisogna dire addio alle fonti fossili. Il testo ha un valore più politico che strategico, dal momento che non contiene indicazioni o deadline per interrompere la dipendenza da petrolio, gas e carbone. Del resto, affinché la Terra smetta di bollire, c’è un altro elefante nella stanza che deve smettere di muoversi in modo sgraziato: la finanza. Banche e grandi fondi di investimento devono correggere i flussi finanziari in modo che siano coerenti con un percorso di riduzione delle emissioni. Perché, finché un fiume di denaro continuerà a fluire in direzione delle multinazionali dell’energia per finanziare progetti di esplorazione, estrazione, ma anche per favorire l’acquisto di beni inquinanti, così come progetti non sostenibili, allora gli obiettivi posti dalla Cop28 resteranno una chimera.

Proprio alla finanza è stato dedicato il quarto giorno della conferenza di Dubai: «La Cop28 è iniziata piuttosto bene, con il grande annuncio del Loss and Damage Fund, inoltre abbiamo deliberato i 100 miliardi di dollari che, in base agli accordi, i Paesi ricchi avrebbero dovuto devolvere agli stati fragili entro il 2020. E ci sono una serie di buone notizie in termini di finanza a impatto positivo sul clima, con progetti e obiettivi per il futuro. Ma dobbiamo fare di più per la riduzione della dipendenza da fonti fossili, perché nonostante ci stiamo muovendo velocemente, il cambiamento climatico si muove ancora più velocemente», ha commentato Ambroise Fayolle, vicepresidente della Banca Europea per gli Investimenti, la Bei, al termine della giornata dedicata alla finanza. 

 

Non la pensa esattamente così Teresa Andersen, portavoce della Ong ActionAid a Dubai: «Credo che il ruolo della finanza nel cambiamento climatico sia l’argomento passato più sotto silenzio durante questa Cop28», argomenta Andersen, che continua: «È vero, c’è stata molta coesione da parte di tutti gli stati e delle organizzazioni nello stabilire l’uscita dalle fonti fossili. Così come per la creazione del Loss and Damage Fund, un fondo che chiedevamo da decenni per aiutare le comunità colpite dalle calamità naturali. Ma anche qui c’è stata avarizia: i Paesi hanno messo 700 milioni di dollari, cioè lo 0,2 per cento delle perdite che ogni anno i Paesi del mondo subiscono dai danni del cambiamento climatico. Più in generale, quello che è mancato, e continua a mancare, è un faro sulla finanza internazionale e sull’adeguatezza delle loro strategie». 

 

Racconta l’attivista che la giornata dedicata alla finanza «è stata una sfilata di buoni propositi. Non uno che abbia risposto alle evidenze del nostro report». In quella data ActionAid ha pubblicato un dossier per raccontare come nei sette anni successivi dalla firma dell’Accordo di Parigi per «rendere i finanziamenti coerenti con un percorso verso basse emissioni di gas serra e uno sviluppo clima-resiliente», recita l’articolo 2.1 dell’accordo parigino del 2015, nella sola Europa le banche hanno fornito 281 miliardi di euro alle imprese dei combustibili fossili. Che sono un mucchio di quattrini, una media di 40 miliardi l’anno, cioè quattro volte il sostegno economico dell’Europa ai paesi del Sud del mondo per affrontare l’emergenza clima. Secondo l’indagine di ActionAid le banche più coinvolte sono quelle francesi, nell’ordine Bnp Paribas con 33,4 miliardi di euro, seguita a breve distanza da Société Générale e poi Crédit Agricole con 28,6 miliardi di euro investiti a sostegno di progetti e imprese di fonti fossili. In base ai dati di ActionAid anche la tedesca Deutsche Bank ha investito 21,9 miliardi a favore dell’industria fossile e, in particolare, ha finanziato direttamente o indirettamente 83 “bombe di carbonio”, ovvero progetti con un potenziale di 272,3 gigatonnellate di anidride di carbonio emessa. Nell’elenco figurano anche la spagnola Santander e l’olandese Ing Grup, rispettivamente con un impegno di 17,9 e 12,19 miliardi. Nonostante sia in posizione arretrata, c’è anche l’Italia: Unicredit per 10 miliardi investiti e Intesa Sanpaolo a quota 8,3 miliardi. «La finanza dovrà per forza diventare il centro del dibattito delle prossime Cop», commenta Andersen, che fa notare come, sempre l’Europa, a parole si sia fortemente impegnata a sostenere l'uscita dalle fonti fossili, ma il giorno dopo la chiusura della conferenza di Dubai si è altrettanto impegnata a lasciare mano libere a banche e fondi finanziari nella scelta dei propri investimenti. 

 

Il 14 dicembre l’Unione europea ha emanato un’importante direttiva sulla filiera etica delle imprese, che saranno obbligate a svolgere una due diligence, ovvero verifiche approfondite sui propri progetti e fornitori, per accertare il rispetto dei diritti umani e della salvaguardia ambientale. L’accordo Corporate Sustainability Due Diligence Directive nasce all'indomani del catastrofico crollo del Rana Plaza in Bangladesh, avvenuto dieci anni fa, che provocò 1.138 morti e 2.600 feriti: erano lavoratori stipati nel grande edificio per confezionare maglioncini e pantaloni a basso costo per conto dell’industria del fashion. Nei giorni successivi al crollo nessun marchio di moda si fece avanti ammettendo di rifornirsi dalle fabbriche del Rana Plaza, ma gli attivisti e i giornalisti trovarono tra le macerie etichette dei vestiti o fogli ordini con i nomi di Benetton, Auchan, Gap, H&M, Mango, Primark. Per evitare il ripetersi di disastri simili, nel 2022 la Commissione europea ha avanzato una proposta per obbligare le multinazionali a mettere in piedi rigorose due diligence, ovvero sistemi di rilevazione dei rischi e di violazione di diritti umani e dell'ambiente lungo tutta la loro filiera. 

 

Come fa notare lo European Coalition for Corporate Justice, «pur trattandosi di un passaggio epocale nella definizione di requisiti e aspettative per il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente, gli attori finanziari sono stati esentati dai doveri di due diligence verso i loro clienti». L’Europa il giorno prima festeggia l’uscita dai fondi fossili, quello dopo protegge gli investimenti non proprio green delle banche. Eppure il dito non andrebbe puntato contro la finanza, come spiega a L’Espresso Gael Giraud, gesuita, economista e direttore dell’Environmental Justice Programme della Georgetown University: «I bilanci delle istituzioni finanziarie non sono altro che lo specchio delle nostre scelte sociali. Le nostre società hanno scelto deliberatamente i combustibili fossili e hanno finanziato questa scelta attraverso banche e fondi di investimento che ora portano nei loro bilanci le attività corrispondenti a queste scelte. Non c’è motivo di prendersela con le banche: noi continuiamo a dipendere dal petrolio e dal gas, li usiamo per muoverci e sostenere l’economia ed è più che normale che la finanza continui a sostenere le nostre scelte, i nostri investimenti». 

 

Nell’eurozona, spiega padre Giraud, le prime undici banche hanno derivati fossili per 530 miliardi di euro, il 95 per cento della capitalizzazione delle stesse banche: «Se domani ci fosse uno stop alle energie fossili, fallirebbero. Se domani decidessimo, come ha annunciato la Cop28, di bandire i tre idrocarburi fossili dalle nostre vite (carbone, petrolio, gas), il prezzo degli attivi finanziari detenuti dalle banche crollerebbe al punto da mandare in bancarotta la maggior parte degli istituti di credito. Quindi, dobbiamo trovare un modo per ricomprare questi attivi fossili, nello stesso modo in cui molti paesi hanno comprato asset subprime per salvare le loro banche dalla bancarotta nel 2008». Giraud pensa che, a differenza della Grande Recessione, stavolta non sarà possibile scaricare questi attivi su una bad bank nazionale, ovvero presentare il conto ai contribuenti: «Sarebbe molto più intelligente se questi attivi venissero acquistati dalla Banca Centrale Europea in cambio dell’impegno delle nostre banche private a non finanziare più progetti che hanno a che fare con gli idrocarburi. Cosa che, al contrario, si continua a fare».

Ma davvero il sistema bancario e finanziario è sull’orlo di una grande crisi provocata dal disinvestimento nelle fonti fossili? Secondo uno studio dell’Agenzia Onu per l’Ambiente, le previsioni dei governi dei maggiori Paesi produttori di combustibili fossili indicano un aumento della produzione del 110 per cento entro il 2030, una quantità nettamente superiore ai limiti stabiliti per mantenere l’incremento della temperatura globale al di sotto di 1,5 gradi centigradi e del 69 per cento oltre il limite per un riscaldamento globale di due gradi. Verrebbe quindi da pensare che l’industria degli idrocarburi sia tutt’altro che moribonda: «Dopo lo scoppio della guerra Ucraina e la disperata ricerca di accordi con altri produttori di gas e petrolio per sostituire la Russia, è risultata a tutti evidente la difficoltà di ridurre la dipendenza dalle fonti fossili. Il mercato e il mondo finanziario hanno quindi smesso di temere la spallata della transizione energetica e hanno ripreso a investire nel settore degli idrocarburi con ancora più vigore», racconta Filippo Addarii, professore di Finanza ed Etica all’Institute of Finance and Technology dell’University College of London e fondatore di PlusValue, società di consulenza specializzata nella finanza sostenibile. Del resto come racconta l’economista ceco Vaclav Smil, un’autorità nel campo dello studio delle transizioni energetiche, nel 2019 il mondo ha consumato circa 4,5 miliardi di tonnellate di cemento, 1,9 miliardi di tonnellate di acciaio, 370 milioni di tonnellate di plastica e 150 milioni di tonnellate di ammoniaca. Quattro elementi che inquinano e in varia misura dipendono dalle fonti fossili: «Dall’agricoltura, alla chimica, alla farmaceutica, alle costruzioni, alla microelettronica e ogni altro settore della vita civile l’uso di questi quattro materiali è indispensabile e la domanda di essi è crescente. E sostituirli con materiali differenti non è affatto facile, di certo non in tempi stretti», dice l’economista, docente emerito alla facoltà di Scienze Ambientali all’Università di Manitoba a Winnipeg.

La dipendenza dalle fonti fossili è diventata ancora più chiara con l’inizio della guerra in Ucraina: «Se fino a febbraio ’22 la finanza aveva preso in seria considerazione la possibilità di disinvestire dal settore gas e petrolio, oggi non è più così. Banche e grandi fondi di investimento continueranno a puntarci un sacco di quattrini finché quegli investimenti continueranno a generare ampi profitti», dice Addarii, che continua: «Se la finanza si convertirà alla transizione ecologica non sarà grazie a una provvidenziale mano invisibile, non sarà per merito della capacità del mercato libero di muoversi verso forme più sostenibili. La finanza si smuoverà dalle proprie posizioni solo grazie alla ferma mano dei governi e delle istituzioni internazionali che, attraverso regolamentazioni e incentivi spingeranno l’economia finanziaria verso la sostenibilità». E torniamo quindi alle parole di Teresa Anderson di ActionAid: «È inevitabile che ai prossimi tavoli, nelle future Cop il centro della discussione sarà la finanza. È il tassello centrale e mancante per invertire la rotta del riscaldamento globale».