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Economia
febbraio, 2025

Assalto al Tempio obiettivo Generali

Le manovre del Tesoro con Caltagirone e gli eredi Del Vecchio intorno a Mediobanca obbediscono all'obiettivo di Fratelli d'Italia di entrare nella stanza dei bottoni della finanza. Il cavallo di Troia è Mps, passato dalla sinistra al controllo della maggioranza. La variabile Orcel con Unicredit può scompaginare i piani di Meloni e Fazzolari.

Per tutto c’è sempre una prima volta. Il Tesoro dello Stato italiano, per esempio, non aveva mai partecipato a una scalata bancaria. Adesso si ritrova a essere il principale azionista di una banca, il Monte dei Paschi di Siena, che ha lanciato un’offerta pubblica di scambio di azioni per conquistare quello che era considerato il tempio della finanza italiana. E non è lì per caso, ma per una benedizione. Quella impartita dalla presidente del Consiglio al ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, a Francesco Gaetano Caltagirone e agli eredi di Leonardo Del Vecchio, che assaltano Mediobanca.

 

È la stessa Giorgia Meloni che il 24 gennaio del 2013, fresca fondatrice di Fratelli d’Italia, inveiva così in campagna elettorale contro il salvataggio del Monte: «Ancora una volta i soldi tolti alle famiglie vengono dati alle banche!». La prova che dal potere le cose del mondo si vedono assai diversamente.

 

Non sorprende quindi che oggi la premier rivendichi il «perfetto risanamento» del Montepaschi pronto a creare un terzo polo bancario anche grazie ai «soldi tolti alle famiglie». E volete mettere il godimento per aver trasformato la ex banca rossa disastrata da una sconsiderata avventura condotta dalla gestione targata Pd, nella punta di diamante della nuova offensiva dei Fratelli d’Italia? Certe cose non hanno prezzo.

 

Il disegno politico è definire il nuovo assetto di potere nell’Italia virata a destra. Un disegno che si salda perfettamente con l’interesse economico di chi vuole mettere le mani su Mediobanca per dare le carte nelle grandi manovre finanziarie. Dove sta il vero potere. Chi ha convinto Giorgia Meloni che la cosa s’ha da fare? Forse Caltagirone, determinato a spostare l’asse del potere finanziario da Milano a Roma, come ha spiegato ai piani alti del governo? Ci aveva già provato il banchiere già andreottiano Cesare Geronzi, arrivato ai vertici di Mediobanca e Generali. Ma i romani si sono fermati lì. 

 

Di sicuro un ruolo di primo piano nella vicenda l’ha avuto chi a Palazzo Chigi gestisce dossier tanto delicati. Ossia, il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari. Che non ha mai avuto cattivi rapporti con Caltagirone.

 

E gli alleati di governo? Sono fuori gioco. Matteo Salvini puntava sul matrimonio fra Bpm e Monte per rilanciare le aspirazioni leghiste sulle banche. E mastica amaro. Mentre Antonio Tajani insiste inutilmente perché lo Stato esca del tutto dal capitale del Monte. Tenerli a bada tocca al deputato di Fratelli d’Italia Marco Osnato. Proprio il genero di Romano La Russa, fratello di Ignazio La Russa. Fra tutti i politici in partita il presidente del Senato è per la sua storia il più informato dei fatti. Conosce Mediobanca come le proprie tasche. Ed è questa un’altra tessera importante del puzzle.

 

Prima Antonino La Russa, ex federale fascista di Paternò, senatore e deputato del Movimento Sociale, poi suo figlio Ignazio, sono stati per decenni qualcosa di più che i semplici avvocati del loro concittadino Salvatore Ligresti, amico per la pelle di Bettino Craxi e indissolubilmente legato al capo di Mediobanca Enrico Cuccia. Siciliano anch’egli, e di cui Ligresti eseguiva fedelmente le disposizioni. Fu Cuccia a tirarlo fuori dai guai con la quotazione di Premafin e fu il suo successore Vincenzo Maranghi a spianargli la strada per la scalata alla Fondiaria, con La Russa ad assisterlo nell’impresa. Antonino La Russa ha avuto una poltrona nel consiglio della holding di Ligresti fino alla morte, quando il posto è passato al nipote Antonino Geronimo, figlio di Ignazio. A completare il quadro, il fratello di Ignazio e Romano, Vincenzo, ex deputato Dc, ha passato 14 anni in Fondiaria Sai.

 

Fin dall’epoca di Cuccia prendere Mediobanca equivale a conquistare gioiello della corona: le Generali. Ciò che innanzitutto interessa a Caltagirone e ai Del Vecchio. Serviva soltanto uno strumento per lanciare l’offensiva. E il Monte dei Paschi sembrava perfetto.

 

È la banca più antica del mondo ed è l’unica rimasta sempre pubblica. Superata indenne l’epoca delle privatizzazioni, fino al crac dovuto all’acquisizione di Antonveneta era di una fondazione in mano alla sinistra. Il fallimento è stato evitato dal Tesoro, all’inizio con i «bond» ideati dal ministro Giulio Tremonti, al tempo dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi dove Giorgia Meloni aveva un ministero. Poi con una sequenza infinita di aumenti di capitale. Dal 2009, secondo i calcoli del Sole 24 ore, il Monte ha bruciato non meno di 30 miliardi. Il Tesoro ha venduto gran parte del capitale, ma ora è pur sempre il socio maggiore, con quasi il 12 per cento. E il consiglio di amministrazione rispecchia i rapporti di forza.

 

Nicola Maione è consigliere dai tempi del centrosinistra. Ma ci ha pensato Matteo Salvini, con un suo endorsment pubblico per l’avvocato napoletano a instillare nella stampa l’idea che fosse stato nominato presidente in quota Lega. Il vicepresidente Gianluca Brancadoro, invece, difficilmente può smentire la vicinanza al partito della premier. È stato uno dei membri nell’associazione È-uropa di Adolfo Urso, il ministro FdI delle Imprese che lo aveva anche nominato commissario dell’Ilva (incarico cui Brancadoro ha poi rinunciato). Quanto a Marcella Panucci, già direttrice di Confindustria, non si può qualificare come esponente di Forza Italia. Tuttavia è innegabile che fino all’autunno sia stata a capo del gabinetto della ministra dell’Università Anna Maria Bernini. E che durante il governo di Mario Draghi abbia ricoperto lo stesso incarico al ministero dell’ex capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta

 

Politicamente perfetto per puntare a Mediobanca in questo disegno di potere, il Monte dei Paschi mostra però qualche handicap evidente. Bruno Tabacci dice che è come se una sardina volesse mangiare un tonno. Con una capitalizzazione di borsa di 7 miliardi il Monte scala una banca che di miliardi ne capitalizza 13. Una sardina, aggiunge il deputato del Pd che ha fatto parte della commissione d’inchiesta sui crac bancari, peraltro ancora incerottata causa ferite della vicenda Antonveneta.

 

Per non parlare del fatto che nemmeno gli altri stanno a guardare. Dopo aver assediato la tedesca Commerzbank, Unicredit ha inquadrato nel mirino Bpm, irritando la Lega («È una banca straniera», Matteo Salvini dixit) che per la ex Popolare di Milano aveva altri progetti. E ora entra a gamba tesa su Generali. Andrea Orcel, capo di Unicredit, forse non ha il profilo del Cavaliere Bianco. Ma conosce perfettamente i punti deboli del Monte. Era alla Merrill Lynch e rivestì un ruolo centrale nella scalata di Santander-Fortis-Royal Bank of Scotland alla Abn Amro, che ebbe come sciagurata ricaduta del successivo spezzatino della banca olandese la vendita a un prezzo insostenibile dell’Antonveneta a Mps. Un gran brutto cliente, per le aspirazioni su Generali degli scalatori di Mediobanca. Che dovranno fare i conti anche con lui. 

 

La storia, insomma, dovrebbe insegnare. Non è la prima volta che gli obiettivi politici si saldano con i grandi interessi finanziari. Ma non è andata sempre benissimo alla politica. Il primo ex comunista della storia italiana a Palazzo Chigi, Massimo D’Alema, benedì la scalata a Telecom Italia di Roberto Colaninno con munizioni fornite anche dal Monte dei Paschi. Ed è finita com’è finita. Mentre l’infelice domanda del presidente dei Ds Piero Fassino rivolta nel delirio dei takeover bancari di vent’anni fa allo scalatore della Bnl Giovanni Consorte («Allora abbiamo una banca?») è rimasta senza risposta affermativa.

 

Per inciso, anche nelle scalate bancarie del 2005 c’era Caltagirone, che vendendo le sue azioni della Bnl all’Unipol di Consorte portò a casa una spettacolare plusvalenza di 255 milioni. Processato per insider trading, venne poi assolto. Nel frattempo aveva comprato un bel pacchetto di Mps, ed era vicepresidente quando partì la scellerata operazione Antonveneta. Disse soltanto che bisognava pensarci bene, e non aveva torto. Adesso eccolo di nuovo in pista, dopo aver citato per 741 milioni di danni la banca della quale in seguito è ridiventato azionista. E con cui ha dichiarato guerra a Mediobanca. Guerra, infatti, è. Nel respingere come ostile l’Ops del Monte, Mediobanca non ha mancato di puntare il dito sugli intrecci di azioni che potrebbero prefigurare un colossale conflitto d’interessi penalizzando anche gli altri azionisti.

 

Caltagirone e Delfin, società dei Del Vecchio, possiedono rispettivamente il 5 e il 10 per cento di Mps. Ma anche il 7 e il 20 per cento di Mediobanca. Nonché il 7 e il 10 per cento di Generali. Consob o Banca d’Italia, si aspetta con fiducia che qualcuno batta un colpo.

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