Sono oltre un milione, ne occorrerebbero altri. La penuria di autisti proprietari di mezzi incide sulle consegne. E negli altri Paesi non va meglio. Mentre la concorrenza si gioca solo ritoccando i costi

La sveglia suona alle 2.30 del mattino. Alle 3 Andrea inizia il giro di consegne per le farmacie della provincia. Rientra dopo 500 chilometri e 15 ore, salvo incidenti, code, neve, grandine o altri contrattempi. È la sua routine da 20 anni, per sei giorni alla settimana. «Una volta il nostro era un lavoro duro, ma ben pagato», dice. Oggi è vera solo la prima parte. «Negli ultimi 15 anni il mio fatturato è sceso del 40 per cento. Rispetto all’inizio del 2022, ogni mese spendo 500 o 600 euro in più di gasolio. Se dovessi cominciare nel mercato di oggi, sceglierei un altro mestiere».

 

Andrea appartiene alla categoria dei «padroncini», ovvero gli autisti che possiedono il veicolo con cui lavorano. È uno degli 1,1 milioni di autotrasportatori italiani. Sembrano tanti, invece non sono abbastanza. Per l’Associazione nazionale imprese trasporti automobilistici (Anita), che fa capo a Confindustria, ne mancano circa 20mila. Un problema grave per un Paese in cui, secondo Conftrasporto-Confcommercio, l’80 per cento delle merci viaggia su gomma. «L’origine del problema è stata la liberalizzazione non ponderata del settore, avvenuta in Europa quasi 20 anni fa», spiega Salvatore Pellecchia, segretario generale della Fit-Cisl. «Da allora la concorrenza tra le aziende non si gioca sulla capacità di organizzarsi meglio o di offrire un servizio superiore, ma sulla riduzione delle paghe dei lavoratori».

 

Tra gli autisti non c’è ricambio generazionale: in media, secondo dati del ministero dei Trasporti, i possessori della patente C, che permette di guidare un camion, hanno 51,6 anni. Per i ragazzi che pensano di diventare autisti, gli ostacoli arrivano ancora prima di cominciare. Tra le patenti e la Carta di qualificazione del conducente (Cqc), i costi possono arrivare a 6.000 euro. Di recente il governo ha stanziato 25,3 milioni per un bonus patenti destinato ai giovani tra i 18 e i 35 anni che vogliono entrare nel settore. Il contributo coprirà l’80 per cento della spesa sostenuta e non potrà superare i 2.500 euro. Una misura che i sindacati giudicano utile, ma non sufficiente a risolvere l’emergenza.

 

Per un po’ di tempo le aziende hanno provato a sopperire alla mancanza di autisti con assunzioni dall’estero. «Il decreto flussi prevede l’ingresso di conducenti extra-europei», dice Giuseppina Della Pepa, segretario generale di Anita. «Esiste però un cortocircuito normativo: gli autisti, per poter entrare, devono avere la Cqc, che è un’abilitazione europea. Poiché non vivono nell’Ue, non possono averla. Quanto alle assunzioni dal resto del continente, ora i conducenti scarseggiano anche lì».

 

Perché il problema non è solo nostro. In Europa mancano 400mila autotrasportatori. Poco più di un anno fa nel Regno Unito, complice la Brexit, molti distributori di benzina erano chiusi per mancanza di forniture. La situazione ha obbligato il governo a concedere migliaia di visti temporanei e a mobilitare l’esercito. Fuori dal nostro continente, una ricerca del Nomura research institute prevede che entro il 2030 la carenza di autisti metterà in dubbio la consegna del 35 per cento delle merci in Giappone. L’International road transport union, organizzazione mondiale del settore, denuncia la mancanza di 2,6 milioni di conducenti nel trasporto merci e persone in 25 Stati tra America, Asia ed Europa. Eppure, nei Paesi monitorati, i disoccupati sono 50 milioni.

 

Alcuni Paesi hanno provato ad alzare i salari per attrarre personale nel settore. La Gran Bretagna li ha aumentati del 18 per cento, ma non è bastato. Perché le condizioni di lavoro pesano almeno quanto le retribuzioni. «Per anni ho viaggiato su tratte internazionali e restavo lontano da casa anche per tre settimane», racconta Giovanni. «Ho passato tante notti a dormire, o a provare a dormire, sul margine dell’autostrada. Spesso, in estate, dovevo fermarmi alle 4 del pomeriggio e passavo il resto della giornata e tutta la notte nella mia cabina, senza sistemi di refrigerazione a motore spento».

 

Se la pandemia ha contribuito a creare una nuova sensibilità sull’equilibrio casa-lavoro, l’autotrasporto non sembra tenere il passo. Sulle pagine social dedicate ai camionisti molti lamentano la carenza di aree di sosta attrezzate. Il problema non sono le 9 ore di guida di una giornata standard, ma le attese interminabili nei porti o nei piazzali, al caldo in agosto e al gelo a gennaio. «Mi è capitato di uscire la mattina alle 5 per andare a Reggio Emilia, a 120 km da casa mia e tornare la sera alle 8. Ho guidato tre ore. Il resto della giornata l’ho passato ad aspettare che scaricassero la merce», racconta Roberto, che trasporta bidoni e frigoriferi nel Nord Italia. La paga dei suoi colleghi, prosegue, parte da 1.700 euro e arriva fino a 2.600 per chi percorre tratte più lunghe. «Non è una questione di stipendi, ma di stipendi rapportati alla mole di lavoro e ai ritmi di un mestiere che non lascia spazio a una vita familiare. Io sono separato e ho un figlio: se esco alle 5 del mattino, torno alle 7 di sera e posso vederlo fino alle 8 e mezza, come faccio a godermelo?».

 

Il nodo, denuncia Pellecchia, è che «più gli autisti scarseggiano, più aumenta lo stress per quelli disponibili. Le aziende devono completare in ogni caso tutte le consegne, perciò lo stesso carico di lavoro è suddiviso tra meno persone. Diventa sempre più difficile ottenere riposi o ferie. I ritmi e il livello di stress aumentano, e questo si traduce in pericoli per la sicurezza». Secondo dati Istat, nel 2021, 169 guidatori di mezzi pesanti sono morti sulle strade italiane: il 23,4 per cento in più rispetto al 2019, ultimo anno pre-pandemia. «Quando avviene un incidente, sentiamo chiedere più controlli, più ispettori, sanzioni più severe. Ma la sicurezza si garantisce con la prevenzione. In questo caso, lo strumento di prevenzione è il contratto di lavoro».