Nei piani del governo per l’emergenza idrica ci sono anche desalinizzatori. Che grazie a nuove tecnologie diventeranno più convenienti. Ma consumano ancora molta energia, producono scorie tossiche e una legge varata da poco ne ostacola la costruzione

Pensa in grande il sindaco di Genova, Marco Bucci. E sembra crederci davvero quando spiega a L’Espresso il suo progetto per «dissetare la Pianura Padana sempre più arida». Come? «Recuperando l’acqua dei depuratori e miscelandola con quella del mare, opportunamente trattata con un nuovo impianto di dissalazione», risponde Bucci. Ecco, i desalinizzatori. Parola tornata di gran moda in questi mesi di eccezionale siccità, con il Nord della penisola che al pari di buona parte dell’Europa occidentale, soffre in modo particolare le conseguenze del cambiamento climatico. Meno piogge e per di più concentrate in poche settimane nel corso dell’anno. Questo, in breve, il futuro prossimo descritto dagli scienziati.

Non c’è tempo da perdere, allora. E l’acqua del Mediterraneo, pronta all’uso in quantità pressoché illimitata, viene descritta come la scorciatoia ideale per affrontare l’emergenza dell’Italia in secca. «Il mare può essere una risorsa», ha scandito nei giorni scorsi a favor di telecamere Luca Zaia, presidente di una regione, il Veneto, dove la siccità potrebbe mettere a rischio la vendemmia del prossimo autunno.

Di recente, anche il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin si è speso per la causa dei desalinizzatori. «Sono una misura tra le più efficaci», ha detto in un’intervista. Può darsi, ma intanto, per passare in tempi brevi dalle parole ai fatti, andrà trovato il modo di aggiornare (o di aggirare) la legge cosiddetta “Salvamare”. La riforma voluta da Sergio Costa, predecessore di Pichetto Fratin al tempo del governo gialloverde, è stata presentata ad aprile del 2019 e approvata solo a distanza di tre anni, nel maggio scorso. Le norme licenziate dal Parlamento neppure dieci mesi fa impongono una serie di limiti e di severe prescrizioni proprio agli impianti su cui ora Pichetto dice di voler puntare. In pratica, i desalinizzatori vengono descritti come una soluzione estrema a cui si può ricorrere, si legge nel testo, solo «qualora sia dimostrato che siano stati effettuati gli opportuni interventi per ridurre significativamente le perdite della rete degli acquedotti e per la razionalizzazione dell’uso della risorsa idrica». Ogni nuovo progetto dovrà inoltre essere sottoposto alla valutazione d’impatto ambientale (Via), una procedura burocratica che può posticipare anche di dieci-dodici mesi l’inizio dei lavori.

In Italia si parte da zero, o quasi. Solo lo 0,1 per cento dell’acqua potabile consumata nel nostro Paese arriva dal mare e serve a rifornire alcune piccole isole altrimenti a secco, come per esempio Ventotene. All’Elba è da poco al lavoro il cantiere per un impianto che, nella migliore delle ipotesi, aprirà nell’estate dell’anno prossimo, mentre l’acqua dissalata di Sarroch, in Sardegna, è destinata alla vicina raffineria del gruppo Saras. L’unica iniziativa di dimensioni rilevanti che ha già superato lo stadio della semplice ideazione, è quella promossa a Taranto da una società pubblica, l’Acquedotto Pugliese. Al momento però non è stata ancora bandita la gara d’appalto (prevista entro l’anno) e con una certa dose d’ottimismo si può immaginare di tagliare il traguardo dell’inaugurazione non prima del 2026 per un’opera che, comunque, servirà non più di 350 mila persone.

In tutto il mondo si contano oltre 16 mila dissalatori, compresi quelli di piccole e piccolissime dimensioni. Quasi la metà però si trova nei Paesi del Golfo Persico (Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti), mentre in Europa, solo la Spagna sfrutta da decenni il mare per ricavarne acqua dolce. Una rete di oltre 700 desalinizzatori copre quasi il 10 per cento del fabbisogno idrico del Paese, che comprende territori da sempre molto aridi come l’Andalusia e le isole Canarie.

L’impianto di Barcellona, il più grande di tutta la costa europea del Mediterraneo, funziona già dal 2009, dopo due anni di lavori e altrettanti per passare dal progetto all’apertura dei cantieri, e può soddisfare all’incirca un quinto dei consumi di acqua potabile dell’area metropolitana della città catalana, che conta quasi 5 milioni di abitanti. In Spagna, il desalinizzatore di Barcellona si è rivelato decisivo già la scorsa estate per far fronte alla crisi idrica innescata dalla siccità. In Italia, invece, sarà difficile ottenere risultati simili prima di alcuni anni. «Almeno cinque», prevede Alessandro Marangoni, economista della società di consulenza strategica Althesys, specializzata in questioni ambientali.

«Noi siamo pronti a partire», insiste da Genova il sindaco Bucci, che spera di poter presentare al governo «entro qualche settimana» una proposta concreta, in attesa dei finanziamenti per un’opera che potrebbe arrivare a costare oltre 100 milioni di euro. Per far fronte ai prossimi investimenti, Roma potrebbe attingere anche a una parte dei fondi del Pnrr, che mette a disposizione 2 miliardi per le «infrastrutture idriche primarie». Non è chiaro, però, se questo capitolo di spesa comprende anche i desalinizzatori. Nel frattempo, il profumo degli appalti ha già stimolato l’interesse delle imprese specializzate in grandi opere di ingegneria civile. In prima fila ci sono multinazionali come la francese Suez e la spagnola Acciona, così come il gruppo Webuild della famiglia Salini, il campione tricolore delle grandi opere.

L’Italia è un mercato molto promettente, almeno in teoria, ma tutti i nuovi progetti devono ancora fare i conti con rilevanti problemi ambientali. E anche i costi di gestione degli impianti rischiano di provocare un aumento degli oneri a carico della collettività. Nel nostro Paese, infatti, le tariffe dell’acqua sono storicamente inferiori a quelle correnti nel resto d’Europa. Si va dai 50 centesimi al metro cubo di Milano all’euro circa di Roma fino ai due euro di Firenze, giusto per citare qualche grande città, mentre in Francia, in Germania o in Olanda è quasi impossibile spendere meno di tre euro per un metro cubo di acqua del rubinetto.

Ebbene, nonostante i notevoli risparmi garantiti dalle più recenti innovazioni tecnologiche, non è affatto detto che i desalinizzatori siano in grado di rifornire le nostre case a prezzi competitivi rispetto a quelli correnti. Molto dipende dai costi dell’energia. Negli Stati del Golfo Persico il problema non esiste, vista l’ampia disponibilità di petrolio e metano. Nel resto del mondo, invece, si cercano soluzioni alternative. L’impianto di Barcellona, per esempio, è in gran parte alimentato da pale eoliche e pannelli fotovoltaici. Anche in Italia, quindi, andranno studiate soluzioni analoghe, per evitare l’impennata delle bollette dell’acqua.

«Il ricorso alle rinnovabili riduce di molto anche le emissioni di CO2», spiega Marangoni, l’economista di Althesys. E in effetti sarebbe davvero un paradosso se per combattere la siccità fossimo costretti ad aumentare la produzione di gas serra, che sono la causa principale della diminuzione della pioggia. Il costo di produzione dell’acqua desalinizzata è in calo costante ormai da anni. «Negli impianti di ultima generazione siamo ormai arrivati a 2 euro al metro cubo», spiega Marangoni. E in un futuro prossimo la situazione potrebbe ancora migliorare. La desalinizzazione per osmosi inversa, per mezzo di filtri e membrane, ha infatti quasi completamente sostituito la distillazione, che consuma quantità molto maggiori di energia.

I progressi sul fronte della tecnologia non sono però ancora riusciti a eliminare del tutto le ricadute negative per l’ambiente. Il trattamento dell’acqua di mare produce grandi quantità di salamoia, che va in qualche modo eliminata. Questo liquido ad altissima concentrazione salina, scaricato nelle vicinanze della costa, provoca gravi danni alla flora e alla fauna marina. Smaltire adeguatamente queste scorie costa caro e quindi si stanno moltiplicando gli studi per riutilizzare almeno in parte i residui della desalinizzazione, che potrebbero per esempio essere impiegati in acquacoltura. Secondo alcune recenti sperimentazioni, gli stessi scarti contengono anche diversi metalli. Tra questi il litio, ricercatissimo per fabbricare batterie destinate alle auto elettriche.

Niente andrebbe perduto, quindi. Un trionfo dell’economia circolare. Che però richiede ancora tempo e investimenti ingenti. Mentre la siccità avanza.