Inchiesta

L’industria dell’auto italiana non ha nessuna idea di futuro

di Gloria Riva   24 maggio 2023

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Francia, Germania e Spagna hanno una strategia e si apparecchiano un posto al tavolo della transizione dall’elettrico. L’automotive italiano invece si muove a fari spenti nella notte, senza un grande player a cui aggrapparsi. E rischia il collasso

Vista dalla Magneti Marelli di Tolmezzo, diecimila anime ai piedi delle Alpi Carniche, la crisi dell’automotive non fa paura. I mille dipendenti friulani faticano a stare al passo con le commesse che fioccano da Volkswagen. Producono fari a led e li arricchiscono della tecnologia offerta da Carnia Industrial Park, un consorzio di sviluppo economico che mette la ricerca a disposizione delle imprese. Ma la transizione dal motore endotermico a quello elettrico, ha tutt’altro aspetto se osservata da Melfi, dove c’è il più grande stabilimento di automobili d’Italia: seimila dipendenti attendono di conoscere il piano industriale di Stellantis, che ha promesso nuovi modelli elettrici – forse la nuova Lancia Aurelia, forse una Opel, forse la Citroën Ds – entro il 2024. Nel frattempo ci sono gli ammortizzatori sociali.

 

Nell’istante in cui Bruxelles ha annunciato la messa al bando del motore endotermico entro il 2035, è crollata la barriera protettiva, composta dalla capacità di produrre un motore a combustione bello e poderoso, che assicurava lunga vita ai marchi storici dell’automotive, da Alfa Romeo a Lamborghini. Perché di fatto l’auto elettrica non sarà altro che un potentissimo computer a quattro ruote. Azzerato il vantaggio competitivo dei player europei, la vettura del futuro è appannaggio di case automobilistiche con soldi, neuroni e materie prime, che abitano soprattutto in Cina e negli Usa. Già oggi la terra del Dragone è al primo posto con 26 milioni di veicoli prodotti, seguono gli Stati Uniti con 9 milioni. Poi vengono Giappone, India, Sud Corea e Germania con 3,3 milioni. La Spagna è nona (2,2 milioni), l’Italia ventesima con 795 mila veicoli, di cui 476 mila auto. «Il nostro Paese farà come ha sempre fatto, seguirà la legge di Darwin», avverte Corrado La Forgia, vicepresidente di Federmeccanica con delega alla Transizione tecnologica ed ecologica: «Le aziende dotate di innovazione e ancorate a grandi marchi supereranno la tempesta. Si salverà l’Italia a prescindere, quella che galleggia sulle acque stagne di un sistema-Paese troppo distratto per accorgersi che questa transizione lascerà sul campo morti e feriti».

 

A stimare le vittime è Anfia, l’associazione di filiera, secondo cui sono a rischio 70 mila posti di lavoro (il 40 per cento dei dipendenti della componentistica) con le relative 450 imprese (20 per cento). La nostra Detroit è il Piemonte, dove insiste il 33 per cento dell’industria; seguono Lombardia ed Emilia Romagna, mentre nel Centro Sud c’è il 17 per cento dell’indotto automotive. Il settore è composto da imprese famigliari, anche se cresce la presenza di manager voluti dall’azionista italiano (32 per cento) o straniero (21 per cento). Solo sei imprese su dieci hanno un reparto ricerca e sviluppo: è un problema, soprattutto perché il 45 per cento dichiara di non avere alcun progetto innovativo nel cassetto. Mentre chi sta innovando pensa di superare il nanismo aziendale collaborando con le altre aziende su ricerche comuni. A rischiare è quel 73 per cento di imprese che si posiziona sul motore a combustione, ma la buona notizia è che aumenta la quota di chi sta lavorando a componenti per motori elettrici, ibridi o a idrogeno (57 per cento), mentre un altro 25 per cento studia nuovi materiali per l’alleggerimento dei veicoli. Nonostante il fondo automotive da 8,7 miliardi di euro creato nel 2022 – che destina 650 milioni all’acquisto di auto elettriche entro il 2024 e altri 750 milioni a contratti di sviluppo per la transizione verde e l’innovazione – le imprese lamentano soglie minime di accesso troppo alte per le pmi: lo scorso anno 290 milioni (su 330 disponibili) destinati alla transizione non sono stati spesi perché le imprese non hanno presentato progetti sufficientemente ambiziosi per accedere ai finanziamenti. Nello specifico, Anfia chiede al governo di abbassare tale soglia; più in generale incalza il governo sostenendo che «l’obiettivo dev’essere tornare a produrre almeno un milione di veicoli l’anno, con un sostegno concreto e semplificato a investimenti produttivi, ricerca, innovazione nelle nuove tecnologie (dall’elettrico all’idrogeno, fino ai carburanti rinnovabili), e con un indirizzo chiaro sulla formazione».

 

Salvare la componentistica significa salvare un pezzo importante dell’economia nazionale, se si considera che oggi il saldo della bilancia commerciale per l’automotive è negativo per 8,65 miliardi di euro per le autovetture, mentre la componentistica offre un saldo positivo di 5,8 miliardi.

 

Lungo lo Stivale la situazione è variegata. Ci sono aziende come la Bosch di Bari, la cui produzione è all’80 per cento concentrata su pompe diesel, che da tempo ha fatto i conti con il calo degli ordinativi e ha legato la sua sopravvivenza ad accordi con le parti sociali, promettendo nuovi prodotti e investimenti in tempi record. Mentre alla Magneti Marelli ci sono stabilimenti in espansione come quello di Corbetta (Milano), dove si insiste sull’elettronica, di Tolmezzo e di Torino, dove si lavora sugli impianti di illuminazione e sensoristica, mentre a Bari, Caivano e Venaria Reale si rischia grosso perché la componentistica è dedicata al motore endotermico. Situazione paradossale nella sede toscana di Vitesco Technologies, che, mentre avvia un promettente piano di transizione, vive un boom produttivo per gli iniettori.

 

In generale l’indotto legato all’automotive tedesca, che si concentra nel lombardo-veneto, non manifesta criticità, mentre nel resto d’Italia, dove maggiore è la dipendenza da Stellantis, che s’attarda nella presentazione di nuovi modelli elettrici, si segnalano le maggiori difficoltà, anche a causa della contrazione dei volumi che non permette alle imprese di saturare gli impianti. È il caso della Lear di Grugliasco, in crisi perché ha perso la commessa per i sedili della Fiat 500 Elettrica, affidata all’azienda di proprietà turca Martur.

 

Una strategia messa a punto dalle imprese manifatturiere dell’indotto è la diversificazione massiccia. Lo spiega Diego Andreis, direttore della lombarda Fluid-o-Tech, produttrice di pompe di piccole dimensioni e altissima precisione, cresciuta molto grazie alla produzione di apparecchi per la riduzione delle emissioni di veicoli diesel: «Ci concentreremo sulla diversificazione di prodotto; già oggi le nostre pompe sono impiegate nel settore medicale, nel food e per applicazioni industriali, ma stiamo lavorando per intercettare una nicchia di mercato nell’auto elettrica e a idrogeno, consapevoli che la riduzione della sofisticazione dell’auto avrà un suo impatto».

 

Una larga fetta delle imprese sta invece puntando a intercettare le necessità dell’industria aerospaziale, sempre in cerca di prodotti di alta qualità e innovativi; altri tengono d’occhio le prospettive aperte dalla nuova mobilità, in termini di colonnine di ricarica e componenti elettronici. C’è poi chi ha messo al servizio del motore elettrico le competenze in precedenza sviluppate per l’endotermico: è il caso della padovana hGears, con casa madre tedesca, produttrice e sviluppatrice di ingranaggi d’acciaio ad alta precisione per Lamborghini, Ferrari, McLaren che, potenziando il proprio prodotto, oggi destina il 40 per cento del volume d’affari all’e-mobility. Mentre l’impresa marchigiana Techpol, specializzata nella produzione di componenti in plastica per il motore endotermico, nel 2019 ha avviato un progetto di ricerca e sviluppo per entrare da protagonista anche nel comparto dell’auto elettrica: «Entro l’anno saranno pronti i nuovi componenti per il raffreddamento di batterie e motore e per il riscaldamento dell’abitacolo», annuncia Gianfranco Biancini, responsabile dello sviluppo di Techpol.

 

In un contesto di policy nazionale assente, le imprese operano come monadi coraggiose in cerca di innovazione. A differenza di quanto sta accadendo in Francia, Germania e Spagna, dove da tempo i governi hanno avviato piani di espansione precisi, come certificato dall’Osservatorio Automotive composto da Federmeccanica, Fim, Fiom e Uilm. Mentre la Francia punta su reshoring e preservazione della filiera interna, la Germania investe su modernizzazione delle linee produttive e guida autonoma; in Spagna, invece, l’obiettivo è la produzione di batterie. «In Italia siamo all’anno zero: non riusciamo a definire una politica industriale. Ci sono incentivi, ma nulla che si possa paragonare con quanto fatto dagli altri Paesi in termini di sviluppo strategico», conferma La Forgia di Federmeccanica: «Non abbiamo più rimorchiatori tecnologici, cioè colossi industriali che sviluppano auto, come ne ha la Germania con Vw, Bmw, Mercedes, Porsche. Stellantis non è più neanche italiana. Senza un grande protagonista nazionale, l’industria nostrana fatica a comprendere quale sia il proprio unicum». L’assenza di tale player ha spinto la stessa Federmeccanica e i sindacati a chiedere al governo di avviare un tavolo per definire una strategia nazionale: «Ci siamo messi a disposizione». Ma il dialogo non è neppure iniziato.