L’intervento
Le privatizzazioni delle grandi imprese pubbliche sono state peggio di un crimine
Dalle banche all’acciaio, fino alle telecomunicazioni. Questa politica ha regalato società floride a capitalisti senza capitali e senza idee. E non ha portato alcuno dei vantaggi decantati. Né in termini socio-economici né di qualità dei servizi né di supporto al sistema
Il rilievo assunto dalle nomine nelle grandi società a partecipazione pubblica e le consuete polemiche che le hanno accompagnate nelle ultime settimane, addirittura maggiori di quelle relative alle cariche di governo, danno la misura della importanza economica, sociale e politica che hanno – e soprattutto hanno avuto – le grandi imprese pubbliche.
Ciò soprattutto in un Paese caratterizzato da un sistema di aziende medio-piccole e che ha bisogno di realtà di grandi dimensioni in alcuni settori strategici, in grado anche di realizzare quelle utilità sistemiche previste dalla Costituzione e che in questa fase sarebbero di formidabile supporto alla realizzazione degli investimenti previsti dal Pnrr, anche in relazione ai costi (come si è visto per l’energia e più in generale per l’inflazione).
Tant’è che nella riorganizzazione del Mef il nuovo dipartimento dell’Economia ha tra le varie mission la valorizzazione delle partecipazioni societarie dello Stato, concetto che evoca il vecchio ministero delle Partecipazioni Statali, senza dimenticare che già da tempo la Cassa Depositi e Prestiti sta scimmiottando la vecchia Iri.
Parafrasando Joseph Fouché, le privatizzazioni delle imprese pubbliche, per come realizzate, sono state molto peggio di un crimine, sono state un errore storico irreversibile e la causa principale del declino del Paese e delle tante criticità emerse nel tempo, ad esempio da ultimo con la crisi energetica esplosa con il conflitto russo-ucraino. Basti pensare all’Eni che era un Ente pubblico economico strategico e che ha avuto un surplus commerciale, solo per il primo semestre del 2022, di oltre 8 miliardi di euro, rendendo risibile quanto incassato all’epoca delle svendite.
Trenta anni fa furono innanzitutto privatizzate tutte le banche pubbliche, in parte attraverso le famigerate fondazioni, smantellando così il modello economico banco-centrico di fondamentale supporto al tessuto economico italiano fatto di piccole realtà aziendali sottocapitalizzate, in assenza peraltro nel nostro Paese di un reale mercato dei capitali, fatto di fondi istituzionali che stenta tuttora a decollare. E poi l’Ina, ricchissima compagnia nazionale di assicurazioni e via via l’Enel (e cioè l’energia elettrica), la Telecom e le tante aziende industriali dell’Iri.
Sulle vicende Telecom va steso un velo pietoso se si pensa all’attività di spolpamento realizzata a colpi di leveraged buyout dai diversi gruppi che si sono succeduti e a quello che avrebbe potuto essere l’azienda oggi, una corazzata multinazionale che in pochi anni avrebbe potuto realizzare utili dieci volte superiori ai valori di vendita, visto che quando fu privatizzata non aveva neanche una lira di debito ed era una delle più grandi società di telecomunicazioni d’Europa con 127 mila dipendenti, 22 miliardi di euro di ricavi, partecipazioni in Francia, Spagna, Serbia, America Latina e India. La controllata Tim, il maggior operatore di telefonia mobile dell’epoca, era lanciata realisticamente a diventare azionista di riferimento di Vodafone.
Quanto all’acciaio, l’Ilva fu ceduta al gruppo Riva infinitamente più piccolo del colosso di Stato, che da Taranto avrebbe poi spremuto tanti di quei profitti da essere costretto a nasconderli in Svizzera, dimenticando di investire in bonifiche e aggiornamento tecnologico e provocando un disastro ambientale famoso nel mondo. Riguardo alla Sme basta ricordare la sciagurata vicenda Cirio-Cragnotti oppure Autogrill che fu rivenduta ai francesi di Carrefour a un prezzo abnorme rispetto a quello d’acquisto.
Siamo stati l’unico Paese, peraltro, ad avere privatizzato sia la rete sia il servizio nel caso delle utilities. Il tutto senza una previa liberalizzazione dei rispettivi mercati in un regime di monopolio venuto meno solo molti anni dopo grazie alla direttiva Bolkenstein. Rispetto alla gestione pubblica che realizza strategie e mantiene tariffe nel quadro dell’utilità sociale, il privato per sua natura tende a massimizzare legittimamente il profitto, peggio ancora in relazione a una domanda senza alternative disponibili.
La vicenda Autostrade ha poi conclamato quanto assurdo sia privatizzare imprese monopolistiche e cercare successivamente di limitarne i profitti nell’interesse sociale in virtù di algoritmi impossibili da vigilare e sindacare. Dopo la strage del ponte Morandi, lo Stato ne ha ripreso il controllo ma ha pagato, con altri due fondi di private equity, circa 8 miliardi di euro ai privati, che passando dal profitto industriale alle tariffe avevano nelle more goduto di una rendita parassitaria di enormi dividendi, pochi rischi e risibili investimenti che oggi tocca fare invece allo Stato.
Le privatizzazioni non hanno dato alcuno dei vantaggi decantati all’epoca, né in termini socio-economici, né di qualità dei servizi, né di supporto al sistema, ma hanno regalato imprese floride a capitalisti senza capitali e senza idee, dotati tuttavia di ottime entrature governative. Il tutto sull’onda della rivoluzione emotiva e suggestiva di Tangentopoli in un contesto che, visto oggi, non è stato molto diverso dalla vicenda degli oligarchi russi che hanno improvvisamente accumulato eccezionali ricchezze durante l’era delle locali privatizzazioni a seguito dello scioglimento dell’Unione Sovietica.
Nonostante il formidabile sviluppo economico e sociale italiano si fosse basato, storicamente, sulla combinazione di pubblico e privato, con un ruolo guida e decisivo dello Stato, ci siamo condannati al declinismo col più grande errore che potevamo commettere rinunciando alle basi strutturali del sistema, unico nel suo genere.
Un suicidio accompagnato dal peggiore dei mantra di questi anni (fasullo ai limite della fake) secondo cui «è l’Europa che lo vuole». E dagli slogan delle élite finte innovatrici e progressiste, che, in un approccio liberista senza regole e senza mercato, spiegavano che una modernizzazione era necessaria, che le privatizzazioni servivano a ridurre il debito pubblico, a stimolare la crescita e la competizione, rendendo così tutto più democratico e aperto, salvo i loro conti in banca…