Nazionalcapitalismo

Un anno di Melonomics, la strategia economica di Giorgia Meloni. Che vuole un capitalismo senza democrazia

di Gloria Riva   18 settembre 2023

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Giorgia Meloni

Il modello della premier è la punta di diamante di una tendenza globale, sperimentata da Ungheria, Polonia e Stati Uniti all'epoca di Donald Trump. Che hanno in comune più intervento pubblico, meno tutele sindacali, rinuncia alla socialdemocrazia. E favori alle categorie più forti

È passato un anno dalle elezioni del 26 settembre e la Melonomics, la strategia economica di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia per l’Italia,  si appresta a spegnere la prima candelina. Quindi è tempo di bilanci, al netto del fatto che, come scrive su Il Mulino online Roberto Tamborini, docente di Economia Politica all’Università di Trento, «l’Italia non è un caso speciale. Il punto interessante e allarmante della Melonomics è che non siamo in presenza di un fenomeno nazionale, bensì di un vero cambio di paradigma. Altri leader - l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il premier ungherese Viktor Orbán, quello polacco Mateusz Morawiecki e, per certi versi, Vladimir Putin - sono già avanti sul programma e ci possono aiutare a capire qual è la prospettiva per l’Italia e per l’Occidente intero». Tamborini battezza il nuovo paradigma Nazionalcapitalismo, «che punta a relegare al passato il liberismo di matrice anglosassone e la socialdemocrazia europea», ritenuti (con qualche ragione) colpevoli entrambi della crisi economica. Infatti l’origine di questa Internazionale Nera nasce dalla catastrofe finanziaria del 2008 e dai suoi enormi costi economici e sociali.

 

La pandemia e la guerra in Ucraina, oltre al ritorno dell’inflazione, hanno fatto il resto, aggravando le condizioni e le prospettive di vita di gran parte dei ceti popolari e di quella classe media che aveva goduto della crescita economica del secondo dopoguerra e che, dagli anni Novanta, aveva cavalcato con entusiasmo l’espansione globale post guerra fredda. Di quel mondo non è rimasto nulla e tanti cercano consolazione nella Melonomics e nel Nazionalcapitalismo, un sistema orgogliosamente capitalista con una cornice ideologica, politica e istituzionale fondata sull’interesse nazionale e sul ruolo dirigista del governo.

 

Per capire il Nazionalcapitalismo bisogna rendersi conto che non si tratta solo di un cambiamento di politica economica, ma che «il suo tratto più eclatante e conflittuale è l’esplicita contestazione di alcuni princìpi cardine della democrazia liberale: l’estensione dei diritti individuali, la divisione dei poteri, i meccanismi costituzionali di controllo sui governi, l’indipendenza della magistratura e della stampa», spiega il professore. In questo anno di governo, Meloni ha messo a punto una riforma del premierato che indebolisce i poteri di indirizzo e controllo del Quirinale e del Parlamento. Contemporaneamente ha preso forma la divisione delle carriere tra pubblici ministeri e magistrati, che asseconda la tentazione dei governi di decidere, di volta in volta, quali cassetti un pm può aprire e quali no. Ed è sempre il governo Meloni ad aver imbastito un disegno di legge che limita, per i giornalisti, la conoscibilità e la pubblicabilità delle intercettazioni effettuate durante le indagini preliminari, ponendo quindi un pesante bavaglio alla stampa e di conseguenza relegando l’opinione pubblica a un’ignoranza di fondo rispetto a fatti rilevanti. La (preoccupante) direzione di marcia è quella di Polonia, Ungheria e Turchia.

 

Ma che c’entra tutto questo con l’economia? «Gli studi su questo tipo di proposte politiche restituiscono un quadro abbastanza preciso di quale sia l’origine e la materia dello scambio tra garanzie democratiche ed economia», spiega Tamborini. La chiave è una diversa concezione dei compiti dello Stato rispetto al mercato. La perdurante situazione di crisi ha prodotto la polarizzazione della società e della politica: da un lato c’è chi ha rafforzato l’accesso alle risorse economiche e politiche, dall’altro c’è chi l’ha perso. Per sanare questo divario, il governo Meloni e i nazionalcapitalismi chiedono più poteri e meno controlli democratici, offrendo quale compensazione - ecco “la materia di scambio con l’economia” - un insieme di benefici materiali e immateriali (identità e appartenenza) andati perduti con la crescita delle disuguaglianze, dell’impoverimento e del gran rimescolamento delle nostre società. «Mentre liberismo e socialdemocrazia hanno una visione impersonale e super partes dello Stato, il Nazionalcapitalismo promette esplicitamente di essere dalla parte della maggioranza, ovvero dei nativi, bianchi, etero, cristiani (tutti da declinare al maschile, ovviamente), opposti a tutti gli altri. Si tratta dell’instaurazione di quella che i politologi chiamano “la dittatura della maggioranza”, che viene invece impedita dai meccanismi impersonali delle democrazie liberali». Da qui, per esempio, la crescita negli Stati Uniti dei movimenti nazionalisti trumpiani e del razzismo, in Europa della destra sociale che insiste su dio, patria, famiglia e, così, si spiega anche perché il libro del generale Vannacci vende come un best seller.

 

Donald Trump

 

Melonomics e nazionalcapitalismo sono interclassisti e non scontentano nessuno: in un tentativo di ricomporre la società polarizzata, si rivolgono sia a chi detiene le leve dell’economia sia a chi ne dipende. Il punto di sintesi è l’idea di Nazione, la difesa della sua sovranità e dei suoi interessi, presentati come bene comune. «Si rivolgono a destra condividendo col modello liberista l’impianto del sistema economico-sociale, cioè una forte accentuazione della proprietà privata e dell’attività produttiva come fonte di legittimazione sociale e di cittadinanza. Molto spazio viene lasciato all’esercizio del potere economico e al godimento individuale dei suoi frutti». «Non disturberemo chi produce ricchezza», è uno degli slogan di Giorgia Meloni, accompagnato da affermazioni e provvedimenti di stampo thatcheriano: dal taglio al Reddito di Cittadinanza alla negazione della concertazione sindacale (come nel caso della trattativa con Stellantis, in cui il sindacato non è stato invitato), dai messaggi produttivisti e lavoristi al moralismo applicato all’economia (gli attacchi ai divanisti, ai fannulloni, alla povertà intesa come colpa). Ma osserva Tamborini: «Si rivolgono anche a sinistra per raccogliere dalla socialdemocrazia il testimone del ruolo attivo dello Stato nell’economia. Vogliono far sentire lo Stato vicino alla gente comune, piuttosto che abbandonata a se stessa e alle “forze oscure” del mercato globale, ma in modo dirigista anziché concertativo, ovvero a scapito delle politiche fiscali redistributive (come dimostra la proposta di riforma del Fisco) e delle organizzazioni sindacali, che i nazionalcapitalisti detestano tanto quanto i liberisti. Per esempio, il Nazionalcapitalismo di Trump è incentrato sul sistema produttivo nazionale contro il resto del mondo; quello europeo, da Orbán a Meloni, dà molta importanza alle protezioni sociali, abbandonate da quella che loro definiscono “sinistra Ztl”».

 

Il risultato è un modello ibrido in cui il destino delle imprese, pur continuando a operare in un contesto di libero mercato, dipende in ultima istanza dall’accesso alle risorse politiche ed economiche messe a disposizione dal potere politico. Emblematico il caso Pirelli, in cui l’uso della golden share per difendere l’italianità, ha pesato parecchio sulla nomina dell’amministratore delegato, consentendo al socio italiano Marco Tronchetti Provera di vincere sulla maggioranza numerica dei cinesi; e ancora il caso ex Alitalia-Ita che, nonostante lo sbandierato accordo con Lufthansa, resterà saldamente nelle mani dello Stato. Altro caso: la disponibilità alla nazionalizzazione di un gigante dell’acciaio come l’ex Ilva, che fa il paio con l’implicito protezionismo che sta dietro il neonato ministero della Sovranità Alimentare.

 

Va sempre in questa direzione il modo in cui è stata presentata e congegnata la tassa inflitta agli extraprofitti delle banche, come l’auspicio del governo di scambiare gli investitori istituzionali stranieri con la buona volontà dei cittadini nella piena detenzione del debito pubblico nostrano (con il Tesoro che per la seconda volta in quattro mesi chiama a raccolta il popolo degli investitori italiani per comprare il nuovo Btp Valore), perché s’è capito che il debito pubblico crea instabilità finanziaria ed erode sovranità nazionale: anche Mussolini cercò di convincere gli italiani che, per essere sovrani, dovevano essere autarchici.

 

«All’interno dei confini della Nazione (geografici certo, ma soprattutto identitari) l’economia privata funziona secondo meccanismi capitalistici molto spinti, soprattutto nel mercato del lavoro, a patto che la ricchezza venga prodotta e rimanga all’interno di tali confini (l’America first di Trump). Questo patto sulla ricchezza della Nazione e per la Nazione è prioritario rispetto all’equità della sua distribuzione: non interessa la disuguaglianza tra ricchi e poveri italiani, ma tra italiani e stranieri e le tutele ai lavoratori non sono garantite né per via normativa sul mercato del lavoro, né da meccanismi fiscali generali», spiega Tamborini. Emblematiche l’opposizione al salario minimo e le picconate alla progressività fiscale. Al welfare tradizionale vengono sostituite le vie che conducono direttamente al potere politico, attraverso leggi, regolamenti, sussidi, esenzioni settoriali, categoriali. Nella versione mediterranea il modello è semplice e infallibile: tassare poco e spendere molto. Non a caso, per migliorare i salari peggiori d’Europa, il governo sfodera il sempreverde taglio del cuneo fiscale, tace su riforme della struttura produttiva del Paese o delle relazioni industriali. E pensa (spera) che le famiglie inizieranno a fare figli non offrendo loro più servizi o migliori prospettive di lavoro e di vita, ma grazie a contributi destinati alle famiglie con tre figli e più.

 

Viktor Orban

 

È possibile l’accettazione di un modello siffatto in un Paese democratico? «Storicamente la democrazia comporta le libertà economiche del capitalismo (proprietà, scambio, impresa), ma non viceversa», risponde il professore, che aggiunge: «Benito Mussolini in un saggio del 1925 per la rivista Gerarchia scrisse: “Può darsi che nel XIX secolo il capitalismo avesse bisogno della democrazia: oggi può farne a meno”. E difatti le élite del capitalismo dell’epoca non si distinsero nel contrasto all’avvento dei regimi totalitari e gli Stati Uniti rimasero in un precario equilibrio fin nel pieno dell’età rooseveltiana».

 

E ora anche il Nazionalcapitalismo minaccia di far parte della storia dei divorzi tra capitalismo e democrazia nel cuore dell’Occidente. A frenarne l’ascesa è la finanza internazionale e l’industria immateriale, come le Big Tech, per cui la rinazionalizzazione del capitalismo è un pericolo serio. Ma le contraddizioni create dal capitalismo globalizzato, aggravate da pandemia e guerra, stanno favorendo una ristrutturazione dell’economia mondiale per blocchi geopolitici, tracciati secondo criteri di sicurezza strategica nazionale, in cui le pure logiche di mercato sono messe in secondo piano. Una parte importante della classe dirigente economica, che ama mostrarsi pragmatica (“né di destra né di sinistra”) può diventare Nazionalcapitalista «o lo sta già diventando, specialmente in quei Paesi, come l’Italia e la fascia orientale dell’Unione Europea, in cui i valori della democrazia liberale sono meno radicati e gli stili di vita libertari e cosmopoliti sono meno sviluppati».

 

All’appello manca un antidoto alla dilagante Internazionale nera, che potrebbe venire da un (inatteso) colpo di reni della sinistra democratica: «Dovrebbe capire che il Nazionalcapitalismo è una risposta sbagliata a problemi gravi e reali della nostra società (disuguaglianze, iniquità economiche e politiche, lavoro povero, precarietà, perdita di identità e appartenenza)», suggerisce il professore. È forse in quest’ottica che un democratico americano classico, come Joe Biden, ha preso la via della valorizzazione dell’industria nazionale, dell’indipendenza dall’approvvigionamento cinese nella produzione di chip, dei sussidi pubblici all’industria e del rafforzamento delle tutele sindacali. Forse ha compreso che non è più tempo di riformare la società, per adattarla al capitalismo senza confini come fecero i Clinton e i Blair, ma è giunto il momento di riformare il capitalismo per renderlo democratico, giusto e sostenibile.