Siderurgia

Ilva, ecco il piano B del governo Meloni per evitare il fallimento

di Gloria Riva   11 gennaio 2024

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La fuga di ArcelorMittal era un fatto annunciato da tempo. L'esecutivo punta sull'amministrazione straordinaria e su un nuovo soggetto industriale pronto a investire su Taranto. Oggi l'incontro con i sindacati

Da una parte c’è il colosso dell’acciaio, ArcelorMittal. Dall’altra lo Stato italiano che fra un paio di mesi ospiterà il G7 e non intende sfigurare: il primo grande appuntamento dei 7 maggiori Stati economicamente avanzati del pianeta si terrà il 14 marzo a Verona e lì l’Italia intende dimostrare che è possibile tenere insieme sviluppo industriale, sostenibilità ambientale e giustizia sociale. Nel mezzo c’è Ilva, la più grande acciaieria d’Europa che, finché è stata diretta da Emilio Riva, è stata una macchina da soldi e di acciaio, con una produzione di oltre 12 milioni di tonnellate l’anno. Ungendo certi ingranaggi, era stato facile portare tutti dalla sua parte, ma Riva aveva dimenticato la salute dei tarantini, avvelenata dai fumi degli altiforni della gigantesca acciaieria, sorta e cresciuta troppo a ridosso della bella città di Taranto. La magistratura nel 2012 sequestra gli impianti e fa scattare le manette per Riva, accusato di disastro ambientale.

 

Ci prova lo Stato a mettere un po’ d’ordine, studiando un piano di ambientalizzazione per consentire sia la continuità produttiva sia la salubrità ambientale. Il compromesso accettabile è portare la produzione a 8 milioni di tonnellate, sapendo che il break even (cioè il punto di pareggio di bilancio) è a 6 milioni di tonnellate, cifra mai raggiunta: per questo l’Ilva è uno stabilimento perennemente in perdita, che drena parecchie risorse pubbliche, fra ammortizzatori sociali e molteplici iniezioni di liquidità, insufflate in Ilva dallo Stato, a favore di una società che, nel frattempo, è tornata per lo più privata. Come Alitalia, Ilva è un’altra storia di infinita malagestione industriale ai danni del contribuente.

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È il 2016 e il Tesoro mette all’asta l’acciaieria. Si fa avanti ArcelorMittal, il secondo più grande produttore di acciaio globale (88 milioni di tonnellate l’anno) e firma il contratto d’affitto con obbligo di acquisto (entro il 2024) dei complessi aziendali Ilva per 1,8 miliardi di euro. L’operazione viene salutata con scarso entusiasmo: fin da subito si intuisce che l’obiettivo di Mittal non è far ripartire la siderurgia, bensì presidiare il mercato italiano e fare proprio il prezioso listino clienti di Ilva. Ma fino al 2018 la presenza dei franco-indiani è forte, con un totale presidio gestionale degli impianti, che offre almeno una salda garanzia di continuità alle maestranze e di visibilità per il consistente indotto, locale e nazionale. Come racconta a L’Espresso il sindacalista della Uilm Rocco Palombella, che è stato anche un dipendente Ilva e quindi l’azienda la conosce bene, la situazione precipita nel 2019 per due motivi: «A luglio una tromba d’aria fa cadere una gru da 80 metri sul quarto sporgente del porto. Un operaio perde la vita e viene distrutto un impianto preziosissimo, che garantiva il trasporto di più del 60 per cento di minerale dal pontile ai parchi primari. Nessuno, neppure l’Ilva in amministrazione straordinaria, ha mai dichiarato di voler ricostruire quell’elemento costoso ma indispensabile. Poco dopo il governo Conte II abolisce lo scudo penale», il che rende anche Arcelor corresponsabile di quanto accaduto in Ilva in passato. «Da lì i Mittal capiscono che la soluzione migliore è abbandonare e chiedere il risarcimento danni. E in effetti così fecero», ricostruisce il sindacalista. A novembre 2019 chiedono di fermare gli impianti e arriva un nuovo ad, Lucia Morselli, poco propensa all’intesa, molto votata all’erigere muri, e presenta un piano di spegnimento dell’impianto, respinto però dal Tribunale di Milano che impone a Mittal la continuità industriale. Torna in scena lo Stato, che pur di salvare l’industria con i suoi 15 mila dipendenti e un indotto gigantesco, firma un accordo capestro al buio, perché Mittal non consente una due diligence completa. L’accordo contiene dei patti parasociali secretati, che scadranno nella primavera del ’24.

 

Intanto Mittal ritira i propri tecnici, crea una nuova società totalmente italiana per staccare ogni collegamento con il gruppo ArcelorMittal, impone Morselli come amministratrice delegata e, sostanzialmente, smette di investire. Da allora l’attività dell’acciaieria più grande d’Europa si limita all’acquisto di minerale ed energia per produrre bramme, poi cedute a Mittal. Le bramme, che sono l’acciaio grezzo, hanno poco valore: in siderurgia la profittabilità viene dalla laminazione dei coils, dalla rifinitura, alla zincatura e così via. Lo stabilimento di Taranto e quelli ancillari di Genova e Novi Ligure sono dotati di impianti all’avanguardia che, partendo dal minerale, consentono di arrivare all’acciaio pronto da spedire ai produttori di auto, elettrodomestici, macchine utensili senza uscire dal perimetro aziendale: il valore aggiunto sta nella verticalizzazione, che consente di generare cassa e utili. A Taranto si è invece preferito congelare l’area a freddo e rallentare i motori, fino ad arrivare a un minimo di tre milioni di tonnellate l’anno, continuare a bruciare cassa, accumulare debiti commerciali (soprattutto con società del gruppo Mittal) per oltre 2,5 miliardi di euro e andare a battere cassa al socio di minoranza, lo Stato.

 

Raffaele Fitto

 

Arriviamo all’autunno del ’23: i patti presi nel 2016 imporrebbero a Mittal di acquistare Ilva entro fine anno e Raffaele Fitto firma un contestatissimo Memorandum of Understanding, cioè un pre-accordo, fortemente sbilanciato a favore del socio franco-indiano. Il Memorandum sembra offrire ai Mittal anche l’immunità legale e la possibilità di acquistare l’intera azienda pur sotto confisca, offre l’assegnazione diretta dei fondi pubblici del Repower Eu e addirittura un impegno economico da parte di Invitalia per cedere il 100 per cento delle quote a Mittal. Insomma, un’offerta che non si può rifiutare. Invece il re nudo rifiuta e avvia la strategia “muoia Sansone con tutti i Filistei” che si palesa lunedì 8 gennaio quando, dopo un lungo tira e molla, il «governo prende atto dell’indisponibilità di ArcelorMittal ad assumere impegni finanziari e di investimento, anche come socio di minoranza», recita la nota di Palazzo Chigi a seguito dell’incontro fra i vertici di Mittal e il governo, che si prepara a una battaglia legale.

 

Anche se il giorno seguente Arcelor, con una nota, ha affermato di essere disposta a restare in minoranza, ma solo mantenendo almeno il 50 per cento della governance. Ora la via più credibile è quella dell’amministrazione straordinaria. Da tempo i due uomini di fiducia di Giorgia Meloni, i sottosegretari di Stato alla presidenza del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari e Alfredo Mantovano, studiano il dossier Ilva con i ministri Giancarlo Giorgetti (Economia), Raffaele Fitto (Pnrr e Sud) e Adolfo Urso (Imprese). Stanno predisponendo un piano alternativo: ecco perché la rottura di Mittal è stata accolta freddamente da Palazzo Chigi, che già pensa a un commissario dal profilo fortemente tecnico.

 

L’obiettivo del governo è concretizzare il suo piano B per arrivare al G7 di Verona con un progetto di transizione ecologica in grado di salvaguardare l’occupazione (10.700 dipendenti, di cui 8.200 a Taranto). Si passerà attraverso una temporanea nazionalizzazione, agevolando il graduale ingresso di uno o più partner privati. Sul nome dei futuri azionisti c’è massimo riserbo. Circola il nome del cavaliere Giovanni Arvedi e si è parlato anche dell’ucraina Metinvest, che ha azzerato la produzione nel Paese di origine per via dell’invasione russa, e dell’indiana Vulcan Green Steel, ramo del gruppo Jindal che si occupa della produzione di acciaio da fonti rinnovabili.