La disastrosa strategia di John Elkann, che sta portando ai minimi termini la capacità produttiva degli impianti Stellantis ha compattato il sindacato: Fim, Fiom e Uilm hanno proclamato lo sciopero unitario. Michele De Palma (Fiom): «La strategia aziendale è disastrosa. E serve un un massiccio impegno dell'Ue e del governo per invertire la rotta. L'automotive si può ancora salvare».

La strategia distruttiva di John Elkann, che consiste nel ridurre ai minimi termini la produzione di auto Stellantis in Italia, ha almeno ottenuto un risultato positivo. Ha compattato il sindacato: Fim, Fiom e Uilm, guidate dai segretari Ferdinando Uliano, Michele de Palma e Rocco Palombella, martedì 24 settembre hanno proclamato lo sciopero unitario per il prossimo 18 ottobre. Le svariate promesse della premier Giorgia Meloni, del ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, dell'amministratore generale di Stellantis, Carlos Tavares, e del presidente di quella che fu la Fabbrica Italiana Automobili Torino, Fiat, ovvero John Elkann, erede di Gianni Agnelli, non stanno portando a nulla, se non all’agonia. Allora il sindacato usa l’arma dello sciopero per difendere il lavoro. Magra consolazione, la pace sindacale, mentre in lontananza - il suono pare provenire dalla Germania - rintoccano le campane a morto per l’auto: soffre Stellantis e soffre Volkswagen, insieme all’indotto. «Siamo ancora in tempo per invertire la rotta. Abbiamo le competenze per potercela fare. Ma serve una politica industriale nazionale ed europea al passo con la programmazione e l'attenzione che Cina e gli Stati Uniti hanno avuto e stanno avendo nei confronti dell'industria», risponde Michele De Palma, segretario della Fiom.

 

L'industria. Le tute blu. Non sono un tema del Novecento?
«Sono più attuali che mai. Piuttosto Bruxelles e Roma, ma anche Berlino, non hanno colto la centralità dell’industria. Mentre l'ha colta benissimo la Cina, che può inondare l’Ue con le sue auto elettriche a basso costo, e l’hanno compresa gli Usa con una politica di reshoring di varie fasi produttive, specialmente nell'elettronica. L’Ue e il governo italiano hanno le medesime responsabilità di fronte a un fallimento oggettivo della tenuta dell’industria dell’automotive, dell’elettrodomestico, dell’acciaio, di fronte a un costo dell’energia che evidenzia disuguaglianze non più tollerabili fra Stati europei, di fronte a un dumping salariale e fiscale inaccettabile tra Paesi membri e al cospetto di obiettivi ambientali che, se non raggiunti, rischiano di disintegrare l’intera Europa».

 

Stavolta il colpevole per la crisi dell’industria non è da cercare a Roma, bensì a Bruxelles. Conferma?
«Bruxelles e Roma, hanno affidato al mercato e alla finanza l’Unione Europea e siamo al rischio che salti tutto. Chi governa ha le sue responsabilità perché non ha mai affrontato e risolto la crisi di settori strategici come la siderurgia, con l’Ilva ferma da troppi anni, in compagnia della Ast di Terni e dell’acciaieria di Piombino; l’elettrodomestico, un tempo asset strategico e trainante, che oggi rischia il canto del cigno con la vendita degli stabilimenti Whirlpool ai turchi di Beko; tutto il tema della mobilità sostenibile, in cui il Paese si è legato mani e piedi a Stellantis; in più ci sono le crisi legate alle vecchie centrali di Brindisi, Civitavecchia, Livorno, e ai petrolchimici siciliani, alla Glencore e a Portovesme in Sardegna. E gli effetti positivi del Pnrr su telecomunicazioni e installazioni ancora non si vedono. A questa incapacità nostrana di offrire una visione industriale, si aggiunge una congiuntura europea recessiva, preoccupante perché attacca la principale caratteristica della manifattura europea: l’export. La guerra, le incertezze geopolitiche, la difficoltà del trasporto navale acutizzata dagli attacchi degli Houthi yemeniti nel Mar Rosso, nonché le politiche protezionistiche e di sviluppo di produzione intera delle altre super potenze, stanno mettendo in discussione le esportazioni europee e questo danneggia la manifattura europea. Ecco perché serve un investimento straordinario di risorse in Europa, per non essere schiacciata tra Cina e Usa».

 

Quindi condivide il piano Draghi da 800 miliardi di euro per salvare l’Europa?
«Il tema che pone Draghi - il rischio per l'Europa di essere stritolata tra le politiche commerciali ed economiche di Usa e Cina - è oggettivo. Il punto è che cosa si fa. Il sindacato italiano ed europeo pensano che Bruxelles e Roma non abbiano compreso il ruolo centrale dell’industria. E continuano a non capirlo: l’Europa si tiene sul lavoro, e senza sprofonda. Il peccato originale europeo è stato quello di sostenere che l’economia e l’industria si gestissero con regolamenti e incentivi, imbrigliando l’industria e arrivando al punto da incentivare non la produzione, ma addirittura l’acquisto. L'affidamento al mercato è stato un errore, e lo hanno capito le altre superpotenze, che hanno programmato, scelto e sostenuto determinate politiche industriali, basate sull’innovazione, dalle applicazioni dell’Ia all’Ict, dalla mobilità al biomedicale».

 

All’assembla di Confindustria, Giorgia Meloni ha molto criticato il green deal europeo, definendolo disastroso.
«L'Europa e l’Italia hanno commesso errori, ma non ho mai pensato che sul fronte della transizione sia possibile guidare guardando nello specchietto retrovisore. Così si va a sbattere. Non è possibile tornare indietro sul fronte della transizione, semplicemente perché il resto del mondo ha intrapreso quella strada e sarebbe un suicidio invertire la rotta. Piuttosto gli Stati membri e le multinazionali devono comprendere che per essere competitivi non si può più ragionare solo in termini di produttività, ma è necessario recuperare il gap di innovazione che abbiamo accumulato con Stati Uniti e Cina. Le singole imprese e i singoli Stati non possono più permettersi di competere fra loro: devono fare squadra. Perché dall’aerospazio alla siderurgia, abbiamo ancora parecchie carte da giocare».

 

In quali settori?
«Fincantieri, Leonardo, Eni, le industrie dell'Information Comunication Technology, la Cybersecurty, StMicroelectronics (che raddoppia l’impianto di semiconduttori di Catania) sono aziende che stanno crescendo e correndo. Persino nella produzione di autobus, se solo lo Stato sbloccasse la situazione di stallo in Industria Italiana Autobus, avremmo una grande capacità competitiva».

 

Ha citato per lo più imprese partecipate pubbliche. Aggiungiamo le varie richieste di intervento pubblico in casi complessi, tipo Ilva: sogna il ritorno dell'Iri?
«Quando c’era l’Iri, lo Stato non solo era proprietario dell’industria, ma disegnava una politica industriale coerente e lungimirante. È ora di passare dall’industria privata o di Stato a quella pubblica nell’interesse dell’umanità e del pianeta».

 

Torniamo in Italia. Qual è la situazione dell’automotive?
«Quest’anno abbiamo assistito a dichiarazioni pubbliche, del governo e della proprietà che hanno deviato la realtà. Da entrambe le parti veniva magnificato e promesso il raggiungimento di un milione di veicoli prodotti qui. Il governo ha investito 950milioni in incentivi per l’acquisto dell’auto elettrica, ma parallelamente Stellantis ha perso quote di mercato e negli stabilimenti è aumentata la cassa integrazione. I primi 6 mesi del ’24 hanno segnato un crollo del 29,2% della produzione rispetto al ’23. Dal 2014 a oggi sono usciti 11.500 lavoratori, altri 3.800 se ne andranno entro l’anno, a fronte di 34mila dipendenti. In quest’anno l’azienda ha venduto Comau, gioiello dell’automazione industriale, e accompagnato all’uscita 173 ingegneri del centro ricerca e sviluppo di Modena, nato per il rilancio dell’Alfa e della Maserati, che ha definitivamente chiuso i battenti e tolto l’insegna dalla facciata. Sono chiari segnali di disinvestimento sul fronte dell’innovazione, che si aggiungono alla resa sul fronte della produzione: la Topolino è fatta in Marocco; la 600 e l’Alfa Junior in Polonia; la Panda elettrica in Serbia; la Lancia Ypsilon in Spagna. Mentre negli stabilimenti italiani abbiamo la cassa integrazione perché, se nel 1999 producevamo 1,4 milioni di auto, quest'anno siamo sotto le 400mila. L'azienda ha messo nel congelatore la Gigafactory di Termoli, rinunciando alla conversione dalla produzione di automobili a quella di batterie per auto, e il governo ha risposto allocando altrove le risorse per il progetto. In mezzo ci stanno 2mila dipendenti, di cui 1.600 in cassa».

 

Veniamo all’acciaio. Per Ilva sono pervenute 15 manifestazioni di interesse. Un buon segnale?
«Dipende. Sembra che gli interessamenti siano rivolti per lo più a parti del gruppo. Ma l’acciaieria deve restare unita, se vogliamo continuare a puntare sull'acciaio come asset strategico. Altrimenti ci legheremo ancora di più alla produzione asiatica».

 

Federmeccanica la settimana scorsa al tavolo della trattativa per il rinnovo contrattuale ha parlato di un calo della produzione del 3,4% nel secondo trimestre sull'anno.
«Ma se si vuole rilanciare la domanda bisogna investire sui salari delle persone e non scaricare sui lavoratori i costi della transizione. Abbiamo chiesto di sperimentare la riduzione dell’orario di lavoro e spingere sulla formazione».

 

Nelle stesse ore Confimi Industria siglava il primo contratto multimanifatturiero con la Confsal. Che ne pensa?
«Che non so in quale Repubblica siamo finiti. Che ministri si presentino a legittimare un accordo tra privati, senza rappresentanza alcuna nel nostro manifatturiero, è sconvolgente. Erano presenti la ministra Elvira Calderone, gli ex ministri del Lavoro Nunzia Catalfo e Cesare Damiano, che in passato è stato anche segretario della Fiom. Il Paese ha bisogno che la politica si occupi dei problemi veri, non di legittimare un sindacato giallo e un contratto che mina il sistema industriale e mette le persone in competizione sul costo del lavoro».