Industrie al tramonto

La distruzione silenziosa della Fiat

di Gloria Riva   30 novembre 2023

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Mille giovani ingegneri hanno lasciato i reparti ricerca e sviluppo del gruppo. Stellantis invia quindicimila lettere di incentivo all'esodo. Nelle fabbriche si fa largo uso della cassa integrazione. Così il marchio automobilistico italiano va verso la dismissione

Era il 30 gennaio 2013 e un sorridente John Elkann inaugurava il sito produttivo di Grugliasco, rimesso a punto per dare il via a un nuovo capitolo della Fabbrica Italiana di Automobili Torino, dedicato a lussuosi bolidi – la Maserati Quattroporte, la Ghibli – il tutto nel nome del nonno, Gianni Agnelli. Già, perché lo storico stabilimento di corso Alamanno, a pochi chilometri dalla Mole, nuovo di pacca e punta di diamante di quel che, nei piani, sarebbe dovuto essere il Polo del Lusso, è stato esplicitamente dedicato all’Avvocato. Dieci anni dopo è sempre l’erede di Gianni Agnelli, John Elkann, numero uno di Exor, società che racchiude la ricca cassaforte di famiglia, ad approvare la liquidazione dello stabilimento dedicato al nonno. E lo fa senza cura, con la deliberata intenzione di cancellare ogni dubbio nella testa di chi, ancora, pensa che fra la famiglia Agnelli e Torino ci sia un indissolubile legame affettivo: lo stabilimento ex Maserati è stato messo in vendita con un annuncio pubblicato sul portale Immobiliare.it, definendolo «Capannone da 115 mila metri quadrati». Quasi si trattasse di un sito industriale qualunque e come se John Elkann non potesse fare altrimenti: per inciso, da oltre un decennio il presidente dell’attuale Stellantis incassa 20 milioni di euro l’anno da Exor, la holding di famiglia, ma anche Fca, Stellantis e Ferrari. La vendita dell’ex Maserati ha il rumore di uno schiaffo (l’ennesimo) per la cortese Torino, e per quell’Italia che, ancora, pensa di avere, fra i propri asset strategici, una grande fabbrica di automobili.

Era il 30 gennaio 2013 e un sorridente John Elkann inaugurava il sito produttivo di Grugliasco, rimesso a punto per dare il via a un nuovo capitolo della Fabbrica Italiana di Automobili Torino, dedicato a lussuosi bolidi – la Maserati Quattroporte, la Ghibli – il tutto nel nome del nonno, Gianni Agnelli. Già, perché lo storico stabilimento di corso Alamanno, a pochi chilometri dalla Mole, nuovo di pacca e punta di diamante di quel che, nei piani, sarebbe dovuto essere il Polo del Lusso, è stato esplicitamente dedicato all’Avvocato. Dieci anni dopo è sempre l’erede di Gianni Agnelli, John Elkann, numero uno di Exor, società che racchiude la ricca cassaforte di famiglia, ad approvare la liquidazione dello stabilimento dedicato al nonno. E lo fa senza cura, con la deliberata intenzione di cancellare ogni dubbio nella testa di chi, ancora, pensa che fra la famiglia Agnelli e Torino ci sia un indissolubile legame affettivo: lo stabilimento ex Maserati è stato messo in vendita con un annuncio pubblicato sul portale Immobiliare.it, definendolo «Capannone da 115 mila metri quadrati». Quasi si trattasse di un sito industriale qualunque e come se John Elkann non potesse fare altrimenti: per inciso, da oltre un decennio il presidente dell’attuale Stellantis incassa 20 milioni di euro l’anno da Exor, la holding di famiglia, ma anche Fca, Stellantis e Ferrari. La vendita dell’ex Maserati ha il rumore di uno schiaffo (l’ennesimo) per la cortese Torino, e per quell’Italia che, ancora, pensa di avere, fra i propri asset strategici, una grande fabbrica di automobili.

 

Stellantis, lo ricordiamo, è frutto dell’accordo raggiunto nel ’19 fra l’italiana Fca, cioè l’ex Fiat, e i francesi di Psa, ovvero Peugeot, Citroën e Opel. Il socio di maggioranza è Exor, ma la presenza nell’azionariato dello Stato francese fa pendere le scelte del gruppo a favore di Parigi.

 

A compensazione della vendita di Grugliasco, il 23 novembre Stellantis ha inaugurato a Mirafiori il primo Hub di Economia circolare a saldo zero per l’occupazione. Nei fatti si tratta di un moderno sfasciacarrozze per recuperare elementi ancora buoni dell’auto a fine vita o aggiustare e rimettere sul mercato il veicolo. Tutto il resto, il recupero dell’elettronica, dell’acciaio e dei componenti preziosi, finisce altrove. Dal Polo del Lusso al Polo dell’Usato Sicuro il passo è stato dannatamente brevissimo. E sono ormai mille i giovani ingegneri e i tecnici del centro ricerche, delle palazzine dedicate alla progettazione del prodotto, dei dettagli, della carrozzeria che hanno lasciato la grande e storica azienda, incentivati «solo dall’incerto futuro di questa azienda», puntualizza Gianni Mannori della Fiom di Torino. Mannori aggiunge una cifra per quantificare il più grande progetto messo a punto da Stellantis per l’Italia: «Sono i sette milioni che l’azienda è disposta a spendere per incentivare l’esodo di 15 mila dipendenti. Stellantis ha inviato le lettere a operai, colletti bianchi, dirigenti offrendo dai 90 ai 170 mila euro, pur di tagliare l’organico». Il titolo esplicito di questa iniziativa è “Costruisci il tuo futuro”. Il sottotitolo implicito è “lontano dall’ex Fiat”. Fabbrica che un tempo teneva in piedi l’economia piemontese: «Si lavorava e si produceva ricchezza. Una ricchezza solida, perché basata sulla manifattura, ben diversa da quella effimera e stagionale del turismo e degli eventi, verso cui si sta pericolosamente spingendo Torino. Una città rassegnata all’inconsistenza dell’automotive, che si sorregge grazie alla cassa integrazione», continua il sindacalista. A ottobre, a Mirafiori, la produzione della 500 elettrica si è fermata per due settimane, idem a novembre, con un calo drastico della produzione: da 225 vetture assemblate a turno, a 170 auto. Non va meglio per l’altra linea produttiva, la Maserati, passata da 55 mila a 7 mila bolidi prodotti l’anno.

 

Retroscena
Il grande freddo tra Giorgia Meloni e John Elkann 
30-11-2023

 

È questa la cornice che fa da sfondo a una trattativa in salita fra governo e Stellantis, alla quale fino a lunedì era stata invitata solo Anfia, ovvero la Confindustria della filiera automobilistica, mentre dal prossimo 6 dicembre sarà allargata al sindacato. Dovrebbe essere una buona notizia per i rappresentanti dei lavoratori, che da mesi chiedono spazio nel piano di rilancio di Stellantis e di un settore che, nonostante i chiari di luna, vale 250 miliardi di euro, di cui 90 della componentistica. Invece Fim, Fiom e Uilm temono che si tratti di un’apertura effimera. Da tempo la triade, assieme a Federmeccanica, ha predisposto un piano che implica missioni produttive per tutti gli stabilimenti, garanzia occupazionale, investimenti in ricerca e sviluppo e il raddoppio della produzione di autovetture: oggi Stellantis produce 567 mila auto in Italia, ma il livello minimo di sostenibilità economica è portare la produzione a un milione di vetture.

 

A sostenere questi progetti, in un’ottica di transizione energetica, dovrà essere l’azienda, l’indotto, oltre alle risorse pubbliche. Obiettivi, questi, che il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, ha inizialmente fatto suoi, anche se, più di recente, ha smesso di citare il fatidico milione di auto “made in Italy”. «Non vorremmo che l’apertura al tavolo fosse fatta per scaricare sul sindacato un eventuale insuccesso dell’accordo o per illustrarci un’intesa già raggiunta, senza possibilità di intervenire», ipotizza Samuele Lodi della Fiom. «Vogliamo vedere risultati concreti, non solo dichiarazioni», dice Ferdinando Uliano della Fim, che fa notare come la trattativa al tavolo sarà lunga e complessa: «Per produrre un milione di veicoli servono almeno cinque nuovi modelli, ma serve anche un impegno del governo per sbloccare gli incentivi all’acquisto di auto elettrica (incagliati da tempo), servono punti di ricarica sulle strade. È anche necessario un ragionamento complessivo per l’indotto, che deve virare all’elettrico con il sostegno del governo e la certezza che Stellantis intenda puntare sull’Italia e velocizzare la messa in produzione di nuove auto».

 

Carlos Tavares

 

La forza lavoro nazionale del gruppo conta 45 mila addetti, meno 11 mila unità nell’ultimo triennio, e il costante ricorso alla cassa integrazione, al contratto di solidarietà e alle uscite incentivate. Non va meglio se si esce dal perimetro Stellantis: volgendo lo sguardo all’indotto, la situazione emblematica è quella di 300 lavoratori rimasti senza un reddito perché l’azienda torinese Lear ha perso la commessa per i sedili della Maserati, battuta dal concorrente turco. Inoltre molti dei fornitori Stellantis hanno ricevuto un incoraggiante invito a spostare – o duplicare – la produzione in Algeria, dove il colosso dell’automotive, guidato dal portoghese amministratore delegato Carlos Tavares, ha deciso di investire in un nuovo stabilimento d’assemblaggio. E quali auto saranno prodotte nel Nord Africa? «Con Marchionne si discuteva animatamente, ma sulla base di piani completi. Con Tavares siamo all’oscuro di tutto, consapevoli solo che l’obiettivo è la contrazione dei costi, attraverso una spietata competizione fra stabilimenti», commenta Lodi. In Algeria attendono l’ex Fiat a braccia aperte, come pure in Serbia, laddove il governo sarebbe dispostissimo ad accogliere la produzione della futura 500L. Anche la Polonia, dove è nato uno stabilimento gemello della Sevel di Atessa per produrre furgoni, è pronta a ospitare i futuri modelli Fiat, Peugeot, Renault. Già oggi lo spostamento di una quota di furgoni nell’impianto polacco ha portato a un calo produttivo a Chieti e, per la prima volta, la forza lavoro è scesa sotto le 5 mila tute blu. Tremano i dipendenti degli stabilimenti del Sud Italia, dove il disimpegno di Stellantis è palpabile: «Abbiamo segnalato all’Asl la presenza di ratti nei reparti. È l’effetto dei tagli a servizi di pulizia e manutenzione», raccontano da Pomigliano, dove nel giro di tre anni in 1.200 hanno preferito l’esodo incentivato a uno stipendio da mille euro, calmierato dal decennale utilizzo della cassa integrazione. Qui si assemblano la Panda e la Tonale ed è qui che un dirigente si era fatto sfuggire un commento: produrre la Panda a Pomigliano costa 1.500 euro, in Turchia 500. Da allora i lavoratori vivono nell’ansia che la produzione termini nel 2026, quando l’assemblaggio del nuovo modello Panda potrebbe essere assegnato altrove.

 

Paradossalmente, mentre la forza lavoro partenopea usa la cassa, Stellantis sfrutta 1.150 trasfertisti di Melfi per stare al passo con la produzione delle auto di Pomigliano. Decine di tute blu lucane ogni giorno salgono sui bus messi a disposizione dall’azienda, affrontano 156 chilometri di viaggio, entrano nella fabbrica alle porte di Napoli, attaccano il turno con ritmi serrati, escono, risalgono sull’autobus, affrontano altre due ore di viaggio verso la Basilicata, per poi fare ritorno a tarda notte nelle proprie abitazioni. Così fino al turno successivo e per i successivi tre mesi. Certo, lo stipendio è ottimo, ma la scelta è stata obbligata. «La cosa più preoccupante è che a fronte di un piano industriale sottoscritto a giugno 2021 per la transizione all’elettrico a Melfi, l’azienda sta snellendo l’impianto e specialmente chi è coinvolto nelle trasferte è tentato dall’incentivo all’esodo», racconta una lavoratrice. Melfi, che fino a poco tempo fa occupava 7.200 dipendenti, oggi ne ha meno di 5.800.

 

È qui che Stellantis ha promesso di portare cinque vetture elettriche: due DS, la Jeep Compass, una Lancia e una Opel. In teoria Melfi potrebbe produrre 400 mila auto l’anno, a stento ne fa 200 mila e, anche qualora dovessero arrivare tutti i cinque nuovi modelli, la previsione è produrne 250 mila. «Il rischio non è solo per lo stabilimento, ma per l’indotto, che sta soffrendo molto», dice Uliano della Fim Cisl. La piattaforma per l’auto elettrica è stata fornita anche allo stabilimento di Cassino, dove per ora si produce l’Alfa Stelvio, la Giulia e Maserati Grecale, ma l’azienda continua a chiedere sacrifici. A Termoli, invece, un radioso futuro potrebbe esserci, perché qui Stellantis, in partnership con Total Energy e Mercedes-Daimpler, ha intenzione di creare una delle tre gigafactory di batterie elettriche europee Acc. Tuttavia Acc si è limitata a indicare il luogo in cui realizzerà l’impianto. A accedendo al patinato sito web della joint venture Acc, si scopre agevolmente che le schede riservate alle gigafactory di Billy-Berclau Douvrin e Kaiserslautern, la prima in Francia, la seconda in Germania, hanno un rendering e una specifica descrizione del progetto. Mentre cliccando sulla gigafactory di Termoli non succede nulla. È vero, Acc ha promesso di ultimare l’impianto nel 2029, ma le incognite sono ancora troppe per definirlo un impegno concreto. Mentre gli esuberi, quelli sì, sono concretissimi.