Il Pil in Cina continua a rallentare. La domanda interna soffre. I colossi dell’edilizia sono in crisi. Eppure il governo vuole sempre puntare sull’export. Ma la situazione globale oggi è molto meno favorevole

Divide et impera: il glorioso motto latino passa da un impero all’altro, dalla Francia medievale di re Luigi XI alla Casa d’Asburgo del XIX secolo, fino alla Cina contemporanea presieduta dal 2013 con pugno sempre più di ferro da Xi Jinping. Il modello economico cinese, fatto di export ai quali dovevano affiancarsi i consumi interni, è in stallo perché il “sovrano” nega un ormai indispensabile supporto a questi ultimi e continua a destinare tutti i fondi al finanziamento delle aziende esportatrici, senza accorgersi che la globalizzazione ha cambiato rotta e soprattutto è cambiato il clima internazionale verso Pechino. La borsa di Shanghai ha perso il 60% negli ultimi quattro anni e solo recentemente ha avuto qualche sprazzo di vitalità in coincidenza di sporadici interventi (come la concessione alle aziende di prestiti agevolati purché ricomprino le proprie azioni), però sempre insufficiente a ridare un consistente slancio e non all’altezza delle promesse e delle aspettative. Le potenti “province” che compongono la Repubblica Popolare hanno in passato spinto forsennatamente sugli investimenti contando su un “soccorso” da Pechino mai arrivato e ora si ritrovano con crediti in sofferenza per somme astronomiche. E superindebitate sono le grosse aziende, tutte rigorosamente in mano pubblica ma con partecipazioni private varie e più o meno gradite all’entourage di Xi, che gradua misure di controllo su finanziamenti, investimenti, commercio, perfino formazione dei dipendenti «con un regime repressivo quasi poliziesco», scrive in un editoriale il Wall Street Journal.

Solo con misure d’emergenza si è riusciti in extremis l’anno scorso ad agguantare il 5% di crescita del Pil, considerato la soglia della recessione per un’economia da un miliardo e mezzo di abitanti con un reddito pro capite inferiore alla metà dell’Italia (l’equivalente di 13 mila euro contro 30 mila) e un terzo di quello americano. Quest’anno, stando alla totalità degli analisti, si resterà al di sotto di tale soglia di uno-due punti percentuali. La crescita nel terzo trimestre è stata del 4,6% -  a peggior performance trimestrale dell’ultimo anno e mezzo – dopo che nel secondo era arrivata al 4,7%. La stagnazione è confermata dall’inflazione, o meglio dalla mancanza di essa: in settembre i prezzi al consumo hanno registrato un +0,4% contro lo 0,6% di agosto, e negli ultimi mesi del 2023 erano arrivati a scendere sotto zero fino al -0,8% del gennaio 2024.

«Famiglie e imprese aspettano un deciso programma di risanamento pubblico generalizzato sia per le province sia per i giganti dell’edilizia, i due punti centrali della crisi, ma soprattutto per i cittadini, che però continua a non arrivare se non in piccole tranche incapaci di restaurare la fiducia sia interna sia internazionale», spiega l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto Affari Internazionali. «A questo punto non resta che pensare che il governo di Pechino tema che, una volta risanate le province, le grandi corporation e la stessa popolazione si ribellino all’autorità centrale in cerca di democrazia e creino tante piccole Hong Kong, dove le pulsioni di libertà sono state brutalmente represse». L’entità degli interventi di salvataggio è calcolata dagli economisti americani in diversi trilioni (migliaia di miliardi) di dollari. Solo il gruppo immobiliare Evergrande di Shenzhen, fallito in gennaio, ha lasciato dietro di sé debiti per 300 miliardi di dollari. La lista delle società immobiliari in disgrazia continua ad allungarsi: Country Garden, Fantasia Holdings, Sunac e via dicendo. Novanta milioni di appartamenti sono vuoti in Cina, perché la gente non ha più i soldi per comprarli o la società di costruzione non ha i fondi per completarli, e un’infinità di palazzi scheletrici sono rimasti incompiuti. Intere «ghost city» mai inaugurate come Shenyang e Ordos somigliano a spaventose cattedrali nel deserto, e palazzi appena costruiti vengono demoliti. A riprova delle dimensioni della crisi, quando il 17 ottobre Pechino ha annunciato che per risanare il settore immobiliare metterà a disposizione 4.000 miliardi di yuan (circa 535 miliardi di euro), l’indice CSI 300 Real Estate della borsa di Shanghai ha perso più del 7% per la delusione. «Il potere d’acquisto continua a scendere», conferma Valerio Insisa, responsabile di ricerca per l’Asia dello stesso Iai. «Il vero discrimine, a parte la grandeur degli immobiliaristi, è stata l’emergenza Covid. La Cina ne è uscita per ultima a fine 2022 e non è stata in grado di riprendere la corsa perché sono mancati i sussidi pubblici che in Occidente hanno giocato un ruolo decisivo. Intanto il derisking ha preso il posto della globalizzazione e la Cina subisce in pieno lo sconvolgimento della catena dell’offerta».

La scelta temeraria di Xi di spingere ancora di più sull’export e sullo sviluppo tecnologico sta oltretutto esacerbando lo scontro con l’Occidente sull’antica accusa mossa a Pechino di esportare a prezzi super-competitivi perché le aziende sono sovvenzionate copiosamente dallo Stato. Il 21 settembre l’amministrazione Biden ha attuato quanto preannunciato in maggio: l’aumento dal 25 al 100% dei dazi sulle auto elettriche provenienti dalla Cina. Non solo: il dazio sui prodotti in acciaio e alluminio è salito dal 7,5 al 25%, quelli sulle celle solari e sui microprocessori (compresi i chip delle batterie delle auto) sono raddoppiati al 50%. Quanto all’Unione europea, la nuova Commissione ha votato a maggioranza il 4 ottobre l’imposizione di dazi addizionali sulle auto del 35% che si aggiungerebbero al 10% già praticato, ma ha lasciato una porta aperta: «I negoziati con Pechino proseguono», si legge in una nota di Palazzo Berlaymont. È accaduto che all’interno del comitato Ue per la difesa commerciale si è sentita reboante l’opposizione della Germania, che ha nell’export in Cina un punto di forza (diventato di debolezza) ed è la capofila dei cinque Paesi contrari (Italia e Francia hanno votato a favore insieme con altri otto Paesi e 12 si sono astenuti). Si vedrà, anche alla luce dei contro-dazi preannunciati da Pechino: cognac francese, mozzarelle italiane, carne di maiale tedesca. Ma la Germania continua a credere nella Cina: la Bundesbank ha comunicato che gli investimenti diretti di Berlino, in vari settori, sono stati di 2,5 miliardi di euro nel primo trimestre 2024 e di 4,8 nel secondo, un totale di 7,3 miliardi contro i 6,5 dell’intero 2023.

Per bypassare i dazi le case auto cinesi (che non hanno per ora che il 3% del mercato in Ue) stanno tentando di produrre in Europa (come in America con gli stabilimenti in Messico) i modelli elettrici: a Szeged, nel Sud dell’Ungheria, sta per essere inaugurato il primo impianto in territorio Ue della Byd (Build Your Dreams) di Shenzhen, che già costruisce autobus a Komarom, sempre in Ungheria. Il prossimo “cliente” potrebbe essere l’Italia, dove si è però impantanata la trattativa per un impianto della Dongfeng di Wuhan (azionista con l’1,6% di Stellantis derivante dalla partecipazione a una ricapitalizzazione di Peugeot nel 2014): la richiesta del governo era che la casa cinese utilizzasse per il 45% componenti italiani, a partire dalla parte «infotainment» per essere sicuri che i dati fossero gestiti da noi. Intanto, dal 1° gennaio la Dongfeng debutta sul mercato europeo con il suv elettrico “Box”.

Mai come in Cina le ragioni dell’economia si legano inestricabilmente con quelle della politica. Mentre combatte la guerra dei dazi fortunatamente incruenta con Usa e Ue, Pechino flirta pericolosamente con chi la guerra la sta facendo sul serio, accrescendo le tensioni con l’Occidente. Con tutti i machiavellismi e le ambiguità di cui sono maestri, i cinesi sono finiti nella lista di proscrizione che comprende Russia e Iran (dai quali importa massicciamente gas e petrolio infischiandosene degli embarghi), nonché la new entry Corea del Nord. Il regime di Kim Jong-un, alleato di Pechino quanto di Mosca, vuole anch’esso imporsi come potenza militare e per non lasciare dubbi sta sviluppando un programma nucleare da paura: Pyongyang ha già a disposizione 80-90 testate, calcola il think tank inglese Royal United Services, e materiale fissile (uranio e plutonio arricchiti) per costruirne altrettante. Di esse, 25-35 potranno essere montate su missili intercontinentali di seconda generazione in grado di raggiungere gli Stati Uniti.

E poi c’è l’eterna questione di Taiwan, che era diventata prima di Pechino una potenza economica (basti pensare al dominio nei chip per l’intelligenza artificiale). Le «due Cine» si fronteggiano a brutto muso dal 1949, quando dopo quattro anni di guerra civile le truppe nazionaliste del Kuomintang guidate da Chiang Kai-shek si arroccarono nell’isola lasciando ai comunisti di Mao il dominio in continente. «L’Onu ha cercato più volte una soluzione, fino ad arrivare alla situazione attuale con la People’s Republic of China a Pechino e la Republic of China a Taipei, che però non è riconosciuta come un vero e proprio Stato, ma ha solo un seggio di rappresentanza, come i palestinesi», spiega il super-esperto di geopolitica Stefano Silvestri. Persino Richard Nixon e Henry Kissinger nella loro storica visita in Cina del 1972 che portò alla riapertura delle relazioni diplomatiche, finsero di dimenticarsi di sistemare la questione come ha riconosciuto lo stesso segretario di Stato nelle sue memorie. La vicenda di Taiwan riporta alla «politique politicienne», in questo caso l’esito delle elezioni americane. I taiwanesi, a differenza della «mainland China» che teme l’ulteriore inasprirsi della guerra commerciale se vince Donald Trump, sono indecisi: probabilmente l’ombrello militare garantito in caso di un’invasione cinese rimarrebbe lo stesso, però il presidente Lai Ching-te ha svelato che Trump l’ha già preavvisato che, se torna alla Casa Bianca, Taiwan dovrà pagare per l’appoggio americano (come del resto vuole fare in Europa). «È un pizzo alla mafia», ha commentato la stampa locale. Con questo spirito, si aspetta anche in quest’angolo del Pacifico il 5 novembre.