Produzioni in affanno
L’industria si spegne in silenzio
La manifattura in Italia e in Europa continua a perdere terreno. Ma ci si concentra solo sulle emergenze e non sui fenomeni strutturali. Mentre Cina e Usa corrono
Una discesa che sembra sempre più ripida e di cui non si intravede la fine. Una discesa che rischia di farci rotolare a gambe all’aria con effetti disastrosi. L’industria europea se l’è trovata di fronte quasi all’improvviso, impreparata, con i freni logorati. Le guerre ai suoi confini, la crisi energetica, l’inflazione, la giusta transizione verso produzioni green che però impone la disponibilità di materie prime e rare che non abbiamo e che quindi dobbiamo necessariamente importare, le guerre commerciali a suon di dazi tra Usa e Cina con il rischio di diventare il “vaso di coccio” che si frantuma: il mondo sta cambiando velocemente e l’Europa non riesce a stare al passo. L’industria europea rischia di essere la vittima eccellente. La recessione in atto in Germania ne è la plastica evidenza. La crisi politica ed economica della Francia, anche. L’Italia finora se l’è cavata con l’export e il boom del settore dei servizi, che ha fatto da classico tappeto sotto il quale si nasconde la polvere. E così non ci siamo accorti, quantomeno non abbastanza, che la nostra manifattura - che per il momento è ancora la seconda in Europa - rischia di scivolare rovinosamente e di non riuscire più a rialzarsi. Gli ultimi dati diffusi dall’Istat sono eloquenti:
la produzione industriale a ottobre è crollata del 3,6 per cento rispetto allo stesso mese dello scorso anno. È il ventunesimo calo consecutivo. Ovviamente il fatturato complessivo del settore ne sta risentendo profondamente con un’erosione costante, in un anno è diminuito del 5,7 per cento in valore e del 4,7 per cento in volume (ultima rilevazione settembre 2024). È il consumo interno ad affossare le vendite. Quattro anni fa, prima del Covid, il manifatturiero valeva il 19,91 per cento del Pil nazionale, ora è al 18,15 per cento. Se i numeri fanno impressione, quello che sta accadendo nelle fabbriche fa decisamente paura. Le vertenze aumentano, interi settori barcollano non riuscendo più a reggere la concorrenza che arriva dalla Cina e dagli Usa. L’automotive in testa, ma anche la filiera del bianco, la siderurgia. Decine e decine di migliaia di lavoratori sono a rischio. Prendiamo il settore degli elettrodomestici tornato in questi giorni prepotentemente agli onori della cronaca economica e sindacale per la vertenza Beko, la multinazionale turco-americana (75 per cento Arcelik e 25 per cento Whirlpool), che ha annunciato in Italia la chiusura di due fabbriche su quattro, il ridimensionamento delle altre per un totale di quasi duemila esuberi. Quello degli elettrodomestici è un settore tra le colonne “portanti” della manifattura italiana: con 20 miliardi valore aggiunto e 114 miliardi fatturato vale l’1 per cento del Pil. Più di 11mila le imprese della filiera che danno lavoro a 44mila occupati diretti e oltre 100mila indiretti. Il settore è alle prese con un forte calo delle vendite: da dicembre 2021 a luglio 2024 le unità vendute sono crollate del 20,5 per cento, con flessioni sia nel mercato interno che sull’export (dati Applia, associazione produttori elettrodomestici). Nel solo primo trimestre 2024 il fatturato del settore dei grandi elettrodomestici in Italia ha perso il 4,6 per cento (dati GfK Market Intelligence). L’inflazione e l’incertezza probabilmente hanno reso più cauti i consumatori portandoli a posticipare gli acquisti e a rivolgersi a prodotti meno costosi. Nell’ultimo decennio la quota di “bianco” di importazione asiatica è passata dal 15 al 22 per cento. Ne stanno facendo le spese anche brand prestigiosi come la tedesca Miele che prevede 1.300 esuberi, o il colosso svedese Electrolux che per evitare licenziamenti di massa nei quattro stabilimenti italiani ha concordato contratti di solidarietà fino al 60 per cento del taglio di ore e quindi di stipendio. Per non parlare di quello che sta accadendo nel settore dell’auto. Lo stop ai motori endotermici previsto dall’Ue nel 2035 spaventa produttori (che non sono pronti), lavoratori (in molti perderanno il posto) e consumatori (per i prezzi più alti dell’auto elettrica). E nel frattempo il mercato si è praticamente fermato. Per la prima volta nella storia anche il colosso tedesco Volkswagen si ritrova alle prese con piani lacrime e sangue e scioperi nelle fabbriche. In Italia la produzione di autoveicoli in un anno è calata del 40,4 per cento. L’indotto sta già pagando il conto. Il recente divorzio tra il manager Carlos Tavares e il gruppo Stellantis riapre qualche speranza tra i sindacati per la sorte degli stabilimenti italiani dell’ex Fiat che nel nostro Paese ha visto una costante erosione delle vendite.
Il 17 dicembre al Mimit ci sarà il tavolo Stellantis e forse si inizierà a capire se un cambio di rotta ha qualche chance. A volte le scosse possono essere salutari. Anche a far risvegliare l’Italia da quella che Romani Prodi ha definito “l’anestesia” della politica industriale. Ci si limita ad affrontare le emergenze. E invece servirebbe una revisione strutturale e profonda dell’industria manifatturiera italiana. Con analisi e programmi a medio e lungo termine. Con scelte precise e coraggiose. Che concentrino le risorse sulle eccellenze, quelle dove conta la qualità e la specializzazione, e dove possiamo aspirare a diventare leader mondiali. «L’industria italiana non è presente nei grandi settori innovativi. E nelle produzioni in grandissima serie non può competere. Ma abbiamo numerose nicchie di eccellenza, penso ad esempio alla meccanica strumentale di precisione. È qui che la politica industriale deve puntare con aiuti e incentivi» spiega Prodi, che non nasconde il suo stupore sulla sottovalutazione dei rischi del declino dell’industria in Italia. «Sull’argomento constato che non c’è nessuna commissione, pochissimo dibattito, anche da parte di Confindustria» osserva l’ex presidente della Commissione europea ed ex premier. Occorrerebbe quindi l’elaborazione di una visione di insieme all’interno della quale, pur cercando di non affossare i settori “maturi” che comunque devono mettersi al passo con i processi innovativi, si individui e si punti sulle nicchie di eccellenza che sfuggono alla concorrenza dei colossi extra Ue. Anche perché, con la fine del Pnrr, le risorse diventeranno sempre più scarse. Nel 2026 verranno meno i crediti di imposta di Transizione 4.0 (programma finanziato con 6,4 miliardi di fondi nazionali) e quelli di Transizione 5.0 (6,3 miliardi del Pnrr). La cassetta degli strumenti a disposizione del Mimit quasi si svuoterà. Nei tagli previsti ai vari ministeri dalla manovra di bilancio, quello guidato da Adolfo Urso ha dovuto cedere oltre un miliardo nel triennio, di cui la metà serviva per gli incentivi al sistema produttivo. L’accetta è calata anche sui 4 miliardi e mezzo fino al 2030 del Fondo automotive. Adesso, con le crisi che avanzano, si sta cercando di correre ai ripari e il ministro Urso ha annunciato 750 milioni di euro a disposizione delle aziende del settore. Se il declino è evitabile o meno, non siamo ancora in grado di dirlo. Di certo, l’Italia da sola non potrà vincere la battaglia della competitività. È l’intera Ue che si deve dare una mossa. Magari tirando fuori dai cassetti il rapporto di Mario Draghi e iniziando a mettere in atto i suoi suggerimenti, a cominciare dal massiccio investimento di 800 miliardi di euro all’anno. Cifra “monstre” che - lo pensa anche la presidente Bce, Christine Lagarde - potrebbe essere recuperata in parte con il via libera agli Eurobond. Bisognerebbe però decidere in fretta. Prima che quella che Draghi ha definito la “lenta agonia” dell’industria europea diventi irreversibile.