Crisi industriali
Cosa sogna la generazione post-Ilva
Non più aspiranti operai, ma giovani che guardano Taranto spopolarsi. E che scelgono di restare o andare. Immaginando tutti lo stesso futuro: una città senza più la fabbrica
Parlare di Taranto – lo dicono tutti – significa necessariamente parlare di Ilva. Anche per questo, ora che il nodo dell’acciaieria è tornato in cima all’agenda di governo, il discorso sulla città e sulla sua fabbrica si accavalla ancora di più. A margine dei tavoli ministeriali, dei cassaintegrati e della cronaca, c’è la nuova generazione di tarantini. Non più operai in pectore – impossibile, tra loro, trovare qualcuno che aspiri a un’assunzione nella fabbrica, mentre qualche decennio fa era la norma – ma ragazzi che in città hanno scelto di restare e ora guardano al nodo ex Ilva da vicino. O ancora, studenti e lavoratori fuorisede che seguono le vicende cittadine da lontano, pur tornando a casa a ogni festività.
In molti confidano di avere sognato almeno una volta di essere nati altrove; nessuno, però, disconosce la propria città e i suoi antichi crucci. Anche perché tutti, più o meno, le sono ineluttabilmente legati. Matteo De Robertis, 21 anni, è tra chi da Taranto è andato via per poi fare ritorno. Un periodo breve a Verona, poi a Roma: «Sulla Prenestina – sottolinea – un posto che per lo smog non sta certo messo meglio di Taranto». Studente di Giurisprudenza e attivista, suo nonno era un lavoratore dell’Ilva. «Una spada di Damocle che pende sulla nostra città. La mia generazione non ha vissuto la sua presenza sotto il profilo della rabbia, ma dello sconforto: lo spopolamento è sotto gli occhi di tutti. Tempo fa con alcuni sindacati universitari proponemmo un questionario a più di 300 ragazzi». E il risultato, racconta, è inequivocabile: «Circa l’80 per cento diceva di voler andare via per paura di morire di cancro, di ammalarsi, o perché non vedeva futuro. La colpa più grande dell’Ilva è di aver alimentato un certo disfattismo, togliendoci speranze. Ma in tanti di noi ritengono che si possa cambiare».
Lo ritiene, tra gli altri, Cosimo Balestra, 23 anni. Suo bisnonno è stato tra gli operai addetti alla costruzione della fabbrica. Suo padre, per un periodo, ha lavorato in un’azienda dell’indotto. «Escludendo l’Ilva – spiega – credo che la nostra sia una terra meravigliosa. Ma in troppi vanno via. Mi sono spesso chiesto perché un caso complesso come quello dell’acciaieria sia capitato qui, perché proprio alla gente che mi circonda». Ma lì, a Taranto, lui ha scelto di restare. Ora è impegnato nel servizio civile. Almeno fino a marzo. Poi, chissà. Intanto segue da vicino le vicende di questi giorni sui destini della fabbrica. «Sono sempre stato molto combattuto – confessa – nel cercare di capire quale sia il mio parere sulle sue sorti. Forse sarei favorevole a una riconversione per il futuro, sicuramente trovo necessaria una riqualificazione della città. Noi abbiamo un’altra Taranto, oltre a questa».
Lo stesso afferma Davide Cardenio, 25 anni, tarantino di stanza a Milano. Durante gli studi ha viaggiato molto: Rotterdam, Innsbruck, il Sud Africa da tirocinante. Ora è consulente per aziende farmaceutiche. «Non si può parlare della situazione di Taranto senza parlare di Ilva», esordisce. «Tra noi, io e i miei amici, ne abbiamo parlato spesso. La nostra opinione è che si chiuderà a prescindere da quello che sarà fatto per salvarla. Ciò che chiediamo è che a quel punto si arrivi pronti, sapendo che risposte dare alla città».
Risposte che Maristella Roberto, 25enne, a Torino per via degli studi in Ingegneria chimica, immagina con precisione. Lei proviene dal quartiere Tamburi, dove sorge il polo industriale. E dove, racconta, «tutti abbiamo almeno una storia di tumore in famiglia o conoscenti con malattie connesse all’inquinamento». Affacciata al suo balcone, Maristella ammira il mare; se si volta, vede le ciminiere. Racconta dell’onnipresenza della fabbrica. «I miei genitori comprarono casa con l’intenzione poi di venderla e di andare a vivere in centro, ma non l’hanno potuto fare a causa della svalutazione». Per il futuro l’auspicio è chiaro: che l’ex Ilva chiuda, cercando di salvaguardare i lavoratori dell’azienda e dell’indotto. «Per Tamburi vorrei aree verdi al posto delle piazzole in cemento e un reale cambiamento. Sono consapevole di essere nata in un posto, se vogliamo, sfigato. Ma forse anche per questo lo amo così tanto».