I numeri

Ci sono 1.200 miliardi di euro di tasse che lo Stato non incasserà mai

di Fabio Pavesi   24 aprile 2024

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Nonostante gli sforzi di contrasto all'evasione da parte dell'Agenzia delle Entrate, l'erosione fiscale cresce a un ritmo doppio rispetto alla capacità di incasso

Con grande soddisfazione, a inizio anno l’Agenzia delle Entrate ha annunciato di aver incassato nel 2023 tra attività di controllo e misure straordinarie 24,7 miliardi di euro. Oltre quattro miliardi in più rispetto al ’22. Ma negli stessi giorni in cui si è annunciato il buon risultato sul recupero, è finita sotto silenzio una sorta di non notizia, tanta è l’abitudine rassegnata con cui viene accolta ogni anno che passa. L’anno scorso, infatti, non è solo cresciuta l’attività di recupero, ma si è ulteriormente gonfiato l’arretrato dei crediti che l’Agenzia non è in grado di riscuotere. Si tratta del cosiddetto «magazzino dei crediti non riscossi», un drammatico cimitero di tasse, multe, contributi che il Fisco non ha mai incassato nell’arco di anni, se non decenni, e che sta lì da tempo immemore a segnalare il fallimento della capacità di incasso fiscale dello Stato.

 

Quel cimitero è salito nel 2023 a quota 1.200 miliardi: una cifra da brividi e vale poco meno della metà dell’immenso debito pubblico italiano. L’anno precedente il magazzino dell’arretrato viaggiava a 1.153 miliardi di euro. Vuol dire che nell’anno in cui si festeggia il recupero di poco meno di 25 miliardi di tasse, il pregresso è salito di quasi cinquanta miliardi: il doppio dell’incassato. Così la montagna ha partorito il topolino, con gli arretrati che salgono a una velocità di crociera doppia rispetto a quanto si riesca a recuperare dall’attività di controllo.

 

Il fenomeno non è episodico, ma strutturale. Per dare un’idea, nel 2018, sei anni fa, il magazzino arretrati valeva 900 milioni e, come si vede, la progressione pare inarrestabile anche perché, più l’arretrato si gonfia nel tempo, più diventa di fatto non incassabile, al punto che i 1.200 miliardi sono diventati una mera scrittura contabile fine a sé stessa.

 

La ragione del fallimento epocale dello Stato l’ha spiegata bene Ernesto Maria Ruffini, direttore delle Entrate, in un recente intervento pubblico: «I 1.200 miliardi sono rappresentati da 163 milioni tra cartelle, avvisi di addebito e accertamento esecutivo riferibili a 22,4 milioni di contribuenti, di cui 3,5 milioni sono società, fondazioni ed enti e 18,9 milioni sono persone fisiche, delle quali 3 milioni titolari di attività economica». Per la gran parte di questa mole immensa di arretrato non c’è nessuna prospettiva di recupero: «Il 40 per cento di questi crediti, circa 483 miliardi, sono irrecuperabili perché intestati a persone decedute o nullatenenti oppure a imprese già cessate o interessate da procedure concorsuali chiuse. Un altro 42 per cento, circa 502 miliardi, è intestato a soggetti verso i quali l’Agenzia ha già svolto azioni di riscossione ma senza ottenere risultati». Per circa 100 miliardi, poi, la riscossione è stata interrotta da provvedimenti di sospensione e altri 18 miliardi sono interessati da pagamenti rateali. Rimangono solo 101 miliardi da riscuotere, «ma i debitori di queste cifre sono anche soggetti per i quali ci sono limitazioni alla riscossione, per una serie di interventi normativi che il legislatore ha posto in essere a tutela del contribuente».

 

L’Agenzia, in futuro, potrà lavorare per un possibile incasso su meno del 10 per cento del cimitero di tasse e multe. Il resto, lo Stato l’ha perso per strada, per sempre. In una sorta di legge del contrappasso, in Italia sale il debito e contemporaneamente l’incapacità di incassare i crediti. Lo sostiene la Corte dei Conti nella relazione sul rendiconto dello Stato del 2022: ogni anno i residui non riscossi aumentano di circa 40 miliardi con una crescita del 3,6 per cento annuo. E fa notare che della massa del magazzino da oltre mille miliardi, la stessa Agenzia ritiene che 822 miliardi siano totalmente inesigibili. Solo 180 miliardi, scrive ancora la magistratura contabile, sono considerati riscuotibili. Quindi, il pur lusinghiero risultato dell’incasso, non potrà mai sgonfiare il magazzino residui: è come svuotare il mare con un secchiello bucato.

 

Basti pensare alla vetustà dei ruoli che finiscono ogni anno per essere considerati inesigibili. Scrive ancora la Corte dei Conti: «Della montagna da oltre 1.150 miliardi di magazzino lordo, ben 336 miliardi risalgono a cartelle dal 2000 al 2010 e altri 347 miliardi per ruoli dal 2011 al 2015. Quanto poi alle fasce di debito da incassare dai 23 milioni di contribuenti, il 47 per cento riguarda ruoli sotto i mille euro per il quali il governo ha deciso lo stralcio automatico. E solo l’1,3 per cento riguarda debiti sopra i 500 mila euro. Che però, per peso specifico, valgono il 69 per cento del totale del magazzino lordo da riscuotere».

 

Le rottamazioni – siamo ormai alla quarta edizione – e il saldo e stralcio voluti dai governi negli ultimi anni hanno sì svuotato parte del magazzino, ma con incassi non certo ragguardevoli. La prima rottamazione relativa al periodo 2000-2016 ha visto presentare 1,7 milioni di istanze. I valori dei carichi erano di 25,4 miliardi, per 17,8 miliardi da pagare. Il riscosso è stato però di 8,4 miliardi, meno della metà. Stesso copione per le altre due rottamazioni successive per i ruoli fino al 2017. Su quasi 47 miliardi di carichi a ruolo complessivi per le due definizioni agevolate, il riscosso è stato di 11 miliardi. E anche il saldo e stralcio del 2018 ha visto incassi reali per 700 milioni a fronte di 7,2 miliardi di carichi a ruolo. Ora, per la rottamazione quater che riguarda tre milioni di contribuenti, sono state presentate oltre 3,8 milioni di domande. Si vedrà quale sarà la dimensione del recupero.

 

Che la piaga dell’evasione gridi vendetta, al di là delle vittorie di Pirro dei risultati del recupero delle tasse lo dice a chiare lettere anche il ministero dell’Economia e delle Finanze. Nell’ultimo rapporto sull’evasione fiscale e contributiva è stata stimata in 96 miliardi di euro la quota sfuggita all’Erario. Problema annoso, che non accenna a diminuire, soprattutto a fronte di scelte politiche, riforme, condoni, saldi e stralci, che invitano a procrastinare il momento del pagamento delle tasse.

 

La strada da percorrere per sgonfiare la montagna di denaro da incassare sembra la fatica di Sisifo. Le percentuali di recupero sono una quota troppo bassa rispetto alla crescita del monte arretrati che continua a crescere come si è visto a ritmi di 40 miliardi in più l’anno. Inevitabilmente i crediti inesigibili vengono prima o poi cancellati, ma prima che ciò avvenga sono indicati fra i residui attivi nella contabilità pubblica, di fatto gonfiando entrate, che poi non si verificano. Un tema su cui la Corte dei Conti interviene spesso a segnalare l’anomalia. Certo è che l’Agenzia delle Entrate ha fatto passi in avanti in questi anni, incentivando la digitalizzazione; istituendo premialità per la lotta all’evasione ai suoi dipendenti; incrociando le banche dati dell’amministrazione finanziaria; e puntando su un rapporto più proficuo con l’anagrafe tributaria. Ma nella corsa all’incremento del gettito da recupero, parte di fatto perdente. Una voglia di incasso che finisce a volte per esacerbare la situazione con il fenomeno delle cartelle pazze, che dopo la pausa forzata del Covid sembra tornare a esplodere. Si tratta di ruoli non dovuti o condonati o prescritti, per i quali l’Agenzia manda comunque avanti le cartelle.

 

Il contenzioso tributario resta un’altra montagna da scalare. Le liti con il Fisco non accennano a diminuire. Nel 2022 si è registrato un aumento dei nuovi ricorsi alla Corte di Giustizia tributaria di primo grado, dovuti alla ripresa delle attività di notifica degli atti impositivi e della riscossione (i ricorsi presentati al 31 dicembre sono passati da 26.700 nel 2021 a 49.300 nel 2022: più 85 per cento). Le istanze di mediazione notificate con scadenza al 31 dicembre sono passate da 31 mila nel 2021 a 85 mila nel 2022: più 174 per cento. C’è da dire che spesso l’Agenzia prevale in giudizio: nel 2022, sette controversie su dieci si sono chiuse in favore dell’Agenzia. Ogni 100 euro di importo contestato in giudizio, l’Agenzia riesce ad aggiudicarsi definitivamente 87 euro. E anche sul fronte del costo della riscossione, l’Agenzia delle Entrate ha compiuto progressi: fino a qualche anno fa, ogni 100 euro di recupero da riscossione il costo era di 12 euro, nel ’22 è sceso a 9 euro. Progressi innegabili, ma che non mutano il quadro di fondo, generato più per volontà politica dei vari governi, che per inaffidabilità dell’ente. Resta il fatto che nei decenni una cifra tra gli 800 e i 900 miliardi di euro di tributi vari è rimasta sulla carta, perché mai riscossa. È un valore immenso, oltre 40 volte una normale manovra finanziaria. Tra populismo, inanità politica e voglia di evasione mai sopita, l’Italia ha perso così la sua partita storica sul debito.