Pane al pane
Con una Cina sempre più potente, che senso ha il G7
Il summit in Puglia ha messo in luce le preoccupazioni dei Paesi Occidentali riguardo alla crescente influenza di Pechino. E nonostante i tentativi di mantenere relazioni stabili, le tensioni economiche e politiche sono enormi
Lo scorso fine settimana si è svolto in Puglia il cinquantesimo summit dei G7, quelli che una volta erano chiamati «i sette principali Paesi industrializzati nel mondo». Questa semplice frase richiede però due chiarimenti.
Il primo sembrerebbe da pignoli, ma ci ricorda un fatto di grande attualità: per essere precisi, non si tratta del cinquantesimo incontro dei G7. Il primo summit, a Rambouillet nel 1975, comprendeva solo sei Paesi: mancava il Canada che si unì l’anno dopo. E, soprattutto, tra il 1997 e il 2013, per diciassette anni, i summit inclusero otto Paesi: c’era anche la Russia, esclusa dopo l’invasione della Crimea. Il che ci ricorda come il tentativo di associare la Russia alle discussioni tra i grandi Paesi fosse stato effettivo e prolungato, venendo interrotto solo dalle azioni di Vladimir Putin.
Il secondo chiarimento è quello più importante. Nel 1975 il Pil dei G7 era oltre il 50% del Pil globale, in termini di volumi. Restò così fino al 1991, quando la quota dei G7 scese per la prima volta sotto il 50%. Da allora il declino è stato continuo. Nel 2024, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, la quota dovrebbe scendere sotto il 30%, per poi calare al 27,5% nel 2029. In termini di popolazione i G7 rappresentano meno del 10% della popolazione mondiale (erano il 15% nel 1975). La sola Cina, con una popolazione di 1,4 miliardi, quasi doppia quella dei G7.
Una parte rilevante del comunicato finale dei G7 è dedicata proprio alla Cina. Inizia con parole concilianti: «Cerchiamo relazioni costruttive e stabili con la Cina…». Ma a questo seguono «le nostre preoccupazioni riguardo ai persistenti obiettivi industriali della Cina e alle politiche e pratiche globali non di mercato che stanno portando a ricadute globali, distorsioni del mercato e dannosa sovraccapacità in una gamma crescente di settori, minando i nostri lavoratori, le nostre industrie, nonché la resilienza e la sicurezza economica». E poi una serie di richieste («Chiediamo…alla Cina di astenersi dall’adottare misure di controllo alle esportazioni, in particolare sui minerali critici…di mantenere il suo impegno ad agire in modo responsabile nel cyberspazio»), di intenti precisi («Continueremo i nostri sforzi per interrompere e scoraggiare attività informatiche persistenti e dannose provenienti dalla Cina…ribadiamo la nostra forte opposizione a qualsiasi tentativo unilaterale di modificare lo status quo con la forza [nel mare cinese orientale e meridionale]») e di richiami alle relazioni russo-cinesi («Il continuo sostegno della Cina alla base industriale della difesa russa sta consentendo alla Russia di portare avanti la sua guerra illegale in Ucraina e ha implicazioni significative e di ampio respiro sulla sicurezza»), per concludere con i diritti umani («Rimaniamo preoccupati per la situazione dei diritti umani in Cina») e con un generale appello: «Chiediamo alla Cina di non condurre o tollerare attività volte a minare la sicurezza e l’incolumità delle nostre comunità e dell’integrità delle nostre istituzioni democratiche…».
Il breve comunicato al termine del summit di Rambouillet del 1975 (due pagine contro le 31 del summit pugliese) non menzionava nessun Paese al di fuori dei G7. Nonostante le difficoltà economiche che erano emerse con lo shock petrolifero, era un mondo più facile da gestire per i G7. Il XXI secolo sarà molto più complicato.