Scontro fra Netanyahu e l'esercito. Meloni vuole un commissario di peso a Bruxelles. Il Maryland annulla 175mila condanne per marijuana. I fatti da conoscere

Dal summit di pace sì "all'integrità" di Kiev ma in 12 non firmano

Il vertice di Pace del Burgenstock si conclude riaffermando la necessità di difendere i principi di "sovranità, indipendenza e integrità territoriale di tutti gli Stati, compresa l'Ucraina» e, al contempo, mette nero su bianco che «il dialogo tra tutte le parti è necessario per porre fine alla guerra». «È un grande successo, la Russia ha remato contro» , gioisce Volodymyr Zelensky, che all'hotel da mille e una notte ha tenuto una girandola d'incontri bilaterali, ufficiali e non, per tessere la sua tela. Peccato però che il comunicato finale non sia stato firmato da tutti i partecipanti - di fatto 93 Paesi e 8 organizzazioni internazionali - e la lista dei 12 che si sono sfilati comprende alcuni big come India, Arabia Saudita, Messico, Indonesia e Sud Africa ma altri paesi in bilico come la Turchia hanno aderito. 

Un segnale che c'è ancora del lavoro da fare sulla strada della pace. E sarà fatto, assicura Zelensky annunciando la costituzione di "gruppi di lavoro" per arrivare "presto" ad un secondo ad un secondo summit, aperto questa volta pure alla Russia. La strategia è di nuovo un mix di forma e sostanza. Kiev vuole la piena partecipazione del mondo e dunque propone un modello itinerante in diversi Paesi sparsi sui cinque continenti, al livello di «consiglieri sulla sicurezza e ministri», per poi puntare ai leader. L'Arabia Saudita si conferma come possibile ospite. Ma è tutto ancora molto prematuro. Il Cremlino spara sia sul campo di battaglia che sull'arena diplomatica. «Zelensky dovrebbe pensare all'offerta di pace di Putin perché la situazione militare al fronte è peggiorata», tuona il portavoce Dmitry Peskov, che poi accusa il presidente ucraino di essere «illegittimo» in virtù della scadenza del suo mandato. «Vladimir Putin non rifiuta i negoziati con l'Ucraina ma il loro esito deve essere approvato dal legittimo governo ucraino: Zelensky non appartiene a questa categoria", rimarca Peskov. Per altro l'ospite del summit, la Svizzera, tende la mano allo zar sostenendo che «se Putin dovesse venire in Svizzera per un vertice di pace potremmo derogare agli obblighi» di arresto come chiede la Cpi spiegando che "la nostra legge lo permetterebbe». Quanto all'offerta di pace russa se n'era parlato il primo giorno del summit e molti leader ci sono tornati su, nel corso della conferenza stampa o degli interventi in plenaria, proprio per bollarla come «irricevibile». «La pace non significa resa, come Putin sembra suggerire», ha ribadito Giorgia Meloni rivolgendosi a tutti i delegati. «Confondere la pace con la soggiogazione - argomenta - sarebbe un pericolo precedente per tutti. L'Italia ha sempre fatto la sua parte e non ha intenzione di voltare le spalle ma dobbiamo unire tutti i nostri possibili sforzi per aiutare l'Ucraina a guardare al futuro ed è quello che abbiamo fatto al G7». «Possiamo costruire molto dopo la discussione di oggi», assicura. «Nessun Paese accetterebbe mai i termini vergognosi di Putin», le ha fatto eco la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen

 

 

Scontro fra Netanyahu e l'esercito per la pausa a Gaza 

L'annuncio dell'Esercito israeliano di istituire una «pausa tattica» di 11 ore al giorno lungo un'arteria chiave nel sud della Striscia di Gaza al fine di facilitare la consegna di aiuti umanitari ha scatenato uno scontro durissimo e tutto in chiaro con il governo di Benjamin Netanyahu: dopo aver «sentito della notizia», il suo ufficio ha bollato come «inaccettabile» la mossa dell'Idf. E in seguito a un chiarimento con i militari, ha confermato che «i combattimenti a Rafah continueranno come previsto». Parole che aprono l'ennesima frattura interna per l'esecutivo sempre più sotto pressione, mentre prosegue lo stallo sui negoziati per liberare gli ostaggi, si contano i morti tra le file dei soldati israeliani a Gaza - dieci solo sabato - e cresce il malcontento nelle piazze, da dove intanto è partita una «settimana di resistenza» con manifestazioni in tutto Israele per chiedere che si vada al voto entro il primo anniversario della guerra, il prossimo 7 ottobre. In un comunicato, l'Esercito israeliano ha spiegato che lo stop «per scopi umanitari avrà luogo tutti i giorni dalle 8 alle 19 fino a nuovo avviso, lungo la strada che porta dal valico di Kerem Shalom a Salah al-Din Road e poi verso nord». L'Idf ha poi precisato che la pausa è stata coordinata con le Nazioni Unite e le agenzie umanitarie internazionali. Ma secondo fonti governative ad Haaretz, il ministro della Difesa Yoav Gallant era all'oscuro della decisione delle Forze di difesa israeliane. Una ricostruzione respinta dall'Idf, per la quale invece la classe politica era informata della «decisione militare»: anzi, Netanyahu stesso aveva recentemente incaricato i capi della sicurezza di aumentare gli aiuti a Gaza e di consentire un accesso più sicuro agli operatori umanitari alla luce della nuova udienza della Corte internazionale di giustizia e degli incidenti in cui gli operatori sono stati uccisi dal fuoco dell'Idf. Di tutt'altra idea è il comunicato ufficiale di condanna emesso dall'ufficio del premier, che stando a quanto ricostruito dai media avrebbero poi alimentato le polemiche affermando in una riunione del gabinetto come Israele sia «un Paese con un Esercito, non un Esercito con un Paese». Ancora più dura è stata la condanna dell'ultradestra israeliana, capitanata dal ministro Bezalel Smotrich che ha parlato sui social di un "annuncio delirante» dell'Idf, lamentando che «gli 'aiuti umanitari' che continuano a raggiungere Hamas lo mantengono al potere e potrebbero mandare in malora i risultati della guerra». Di tutt'altro tenore invece il commento delle Nazioni Unite, che «accolgono con favore» l'annuncio della pausa nelle operazioni militari. Un annuncio che tra l'altro giunge nel primo giorno della festa musulmana di Eid al-Adha, vissuta dai civili a Gaza in una situazione umanitaria catastrofica dopo otto mesi di guerra. Ma questo passo deve «portare ad altre misure concrete» per facilitare gli aiuti umanitari, ha sottolineato Jens Laerke, portavoce dell'agenzia delle Nazioni Unite Ocha. La guerra infatti prosegue nella Striscia, dove i combattenti di Hamas sembrano aver modificato le loro strategie dallo scontro diretto alle tattiche di guerriglia, con gravi conseguenze per l'Esercito di Israele: dopo l'uccisione di otto soldati nell'esplosione del veicolo blindato sul quale viaggiavano vicino a Rafah, l'Idf ha annunciato che altri due soldati sono morti sabato nel nord della Striscia, quando un ordigno è stato fatto esplodere contro il loro carro armato. Altri due soldati sono rimasti gravemente feriti nell'attacco. Nel frattempo, resta alta la tensione al confine nord di Israele con il Libano. E non si sblocca lo stallo sui negoziati per un accordo che porti a un cessate il fuoco e alla liberazione degli ostaggi nelle mani dei miliziani palestinesi. Secondo i media, il Cairo sta facendo pressioni su Hamas affinché accetti la prima fase dell'intesa promossa dagli Usa senza modifiche. Ma il capo dell'ufficio politico dei miliziani palestinesi, Ismail Haniyeh, insiste sulla risposta avanzata dal gruppo palestinese sostenendo che sarebbe "coerente" con i principi del presidente degli Stati Uniti Joe Biden.

 

 

Meloni sfida Bruxelles: vuole un commissario di peso 

Dalla pizzica in Puglia al gran ballo delle nomine europee. Archiviato un G7 che per lei è stato «un successo», Giorgia Meloni si prepara all'altra sfida, altrettanto e forse più importante, quella di riuscire a pesare a Bruxelles anche se i numeri posto voto, nonostante la netta vittoria di Fdi in Italia, non le sono favorevoli. L'Italia, è il ragionamento che fa in privato e che ha esplicitato anche nella conferenza stampa di Borgo Egnazia, merita che le venga riconosciuto un ruolo di primo piano. E se sui vertici, almeno ad oggi, non c'è spazio, l'attenzione di Roma è tutta sul commissario. E sull'obiettivo di conquistare per Roma anche una vicepresidenza. La cena informale dei leader non è che il primo step, ripetono i suoi fedelissimi. Meloni, che pure preferirebbe aspettare l'esito delle elezioni francesi ma non si dovrebbe però mettere di traverso se ci fosse una spinta per accelerare, puntando a chiudere già al Consiglio di fine mese. «Da martedì il quadro sarà un po' più chiaro», dicono i suoi. E si potrà entrare nel vivo della trattativa sulle deleghe dei commissari. Una partita che si gioca su più piani. La premier, di rientro da Lucerna con il ministro degli Esteri Antonio Tajani (che sarà alla riunione del Ppe), potrebbe avere iniziato ad esaminare con l'alleato le varie opzioni, che andranno comunque condivise nel governo. La scelta andrà però fatta incrociando i portafogli più interessanti e profili più adatti a gestirli. «Di nomi ancora non si è parlato», assicurano nella maggioranza. Ma Il candidato naturale per l'ingresso nella nuova Commissione sarebbe Raffale Fitto, conosciuto negli ambienti europei e che oggi gestisce, per conto del governo, i rapporti e i principali dossier sulla linea Roma-Bruxelles. Le sue chance però si scontrano con il fatto che spostare un ministro vorrebbe dire aprire al rimpasto di governo, una ipotesi che Meloni ha escluso pubblicamente già da diverse settimane. E a maggior ragione ora che l'esito delle elezioni europee vede «il governo che è andato benissimo», ragiona un dirigente di prima fila della maggioranza, aprire il vaso di pandora del rimpasto rischierebbe di avere più costi che benefici. Semmai ci sarebbero da riempire le due caselle dei sottosegretari rimaste scoperte (per l'uscita di Augusta Montaruli prima e di Vittorio Sgarbi in primavera), ma questo capitolo non si dovrebbe riaprire prima dell'estate. Evitare di scoprire l'esecutivo è argomento che vale anche per Giancarlo Giorgetti, che peraltro si è chiamato fuori, e pure per Antonio Tajani, il cui nome è circolato nelle ipotesi di grande impasse dei popolari sul nome di von der Leyen, che al momento non è però all'orizzonte. Il tam tam delle ultime settimane vede anche l'ipotesi di Elisabetta Belloni, capo dei servizi e sherpa del G7 («si fa il mio nome ogni volta che c'è una casella vuota», avrebbe scherzato la stessa ambasciatrice negli ultimi giorni). Il suo sarebbe un profilo che bene si abbinerebbe all'Alto rappresentante per gli affari esteri, che non sarebbe, però, in cima alla lista dei desiderata. I più ambiti rimarrebbero infatti i portafogli economici a partire dalla Concorrenza e dal Mercato interno, caselle oggi coperte da Danimarca e Francia. Insieme a una vicepresidenza, meglio ancora se esecutiva. Sarebbe «un miracolo di Giorgia», dice un alto esponente del suo partito, dato che i tre attuali sono tutti espressione della maggioranza Ursula. Soprattutto per la Concorrenza servirebbe però un profilo tecnico (l'ultima volta che l'Italia ha avuto questa delega c'era Mario Monti) che ancora non sarebbe stato individuato. Vittorio Colao, che pure era entrato nel totonomi, non sarebbe in corsa. Così come incerte sono le chance di altri tecnici. Si è parlato dell'ex ministro Daniele Franco (che era il nome italiano per la Bei), ma qualche possibilità in più potrebbe averla Roberto Cingolani, che dovrebbe però lasciare la guida di Leonardo.

 

 

Il Maryland annulla 175mila condanne per marijuana

Lo Stato americano del Maryland annullerà 175.000 condanne per uso di marijuana emesse negli ultimi decenni, ha annunciato il governatore Wes Moore in un'intervista al Washington Post. Il democratico primo governatore nero del Maryland, ha dichiarato al quotidiano americano che intende "rettificare un gran numero di errori storici" firmando oggi questo decreto di grazia. Circa 100.000 persone vedranno scomparire dai loro casellari giudiziari le condanne per possesso o fumo di una droga che ora è legale nello Stato e ampiamente consumata. Secondo Moore, a molte persone - la maggior parte delle quali appartengono a minoranze etniche - viene ancora negato il lavoro, l'alloggio o l'accesso all'istruzione a causa di precedenti condanne per possesso di cannabis. Il Maryland, Stato di sei milioni di abitanti sulla costa orientale degli Usa, ha legalizzato l'uso ricreativo e la vendita al dettaglio di marijuana con un referendum nel 2023. Secondo il procuratore generale statale Anthony Brown la grazia si applica a tutti i condannati per possesso di marijuana ma «colpisce in modo sproporzionato in senso positivo» la popolazione nera. Il Washington Post sottolinea che gli afroamericani rappresentano il 33% della popolazione del Maryland ma il 70% delle persone incarcerate nello Stato.