I salari che non crescono penalizzano il ceto medio ma non solo. A soffrirne è la competitività dell’intero sistema. Parla Stefano Cuzzilla, presidente di Federmanager

Le piccole imprese italiane sono dei gioielli, ma devono imparare a crescere affidandosi ai manager. È positivo l’aumento dell’occupazione, che spesso però è di bassa qualità. E gli stipendi dei lavoratori restano troppo bassi. Dal suo osservatorio di presidente di Fedemanager Stefano Cuzzilla, che è anche presidente di Trenitalia, vede il lato positivo dell’economia italiana, ma anche i problemi. E offre qualche possibile soluzione.

 

Come valuta i recenti dati Istat sulla crescita dell’occupazione a tempo indeterminato?
«Li valuto positivamente, sono dati importanti. Confermano l’andamento dell’ultimo anno, dove abbiamo visto un aumento dell’1,5% degli occupati. Devo però osservare che i lavori cresciuti sono di livello molto basso e scarsamente retribuiti. Turismo e servizi sono cresciuti di più. Ma per creare un Paese più forte dobbiamo spingere sull’innovazione e sulle competenze qualificate. La qualità del lavoro è prerequisito per aumentare la produttività».

 

Gli stipendi degli italiani sono tra i più bassi in Europa. I salari reali in trent’anni sono cresciuti solo dell’1% contro una media dell’area Ocse di oltre il 32%. Cosa fare per risolvere questo problema?
«La questione delle retribuzioni grida vendetta. È un problema serio perché sta facendo perdere competitività al nostro sistema Paese. Nella classe manageriale solo alcuni amministratori delegati prendono cifre importanti, quelli che appartengono alle poche aziende quotate. Per il resto tutto il sistema, sia per quanto riguarda la dirigenza sia per gli altri lavoratori, soffre. Ci sono differenze significative con Francia e Germania e molte persone su cui noi abbiamo investito lasciano l’Italia. Questo ci fa perdere competitività specialmente nei settori ad alta tecnologia di innovazione e di sostenibilità. Questo problema riguarda il ceto medio che sta perdendo il potere d’acquisto con l’inflazione, penalizzando quel sistema di welfare che consentiva di aiutare i propri genitori o i propri figli. A farne le spese sono i lavoratori col posto fisso sui quali ricade il maggior prelievo fiscale. È paradossale che abbiamo un salario molto basso per i lavoratori e un costo del lavoro molto alto per le imprese».

 

Il 98% delle nostre imprese è rappresentato da piccole e medie imprese e spesso i passaggi generazionali sono complicati. La dirigenza tiene nei numeri. Abbiamo dati in crescita, ma non abbiamo grandi campioni nazionali, cioè imprese nazionali che trainano le filiere. Come possiamo rendere più competitive le nostre Pmi?
«Le piccole e medie imprese italiane sono dei gioielli ma risultano sottodimensionate per la competizione globale. E lo sono anche le medie in confronto a quelle della Germania, della Francia e di altri Paesi europei. Consideriamo anche che il 70% delle imprese italiane ha l’intero management che è espressione della famiglia. Dobbiamo creare una diversa cultura d’impresa e aiutare i nostri imprenditori a capire che introdurre un manager non significa togliere loro l’azienda. Noi dobbiamo far capire loro che l’arrivo di un nuovo manager può aprire nuovi mercati. Lo stiamo facendo anche come Federmanager, ribadendo l’importanza della finanza e dell’attrazione di capitali esterni, oltre che di competenze manageriali».

 

Stefano Cuzzilla, presidente di Federmanager e di Trenitalia

 

Lei è da tempo presidente di Federmanager. Quale ruolo possono e devono giocare i manager italiani nel rilancio della nostra economia?
«Devono portare in azienda un clima diverso, creare quel sistema che rende l’organizzazione forte e competitiva, magari cambiando modello di business, facendo squadra al suo interno e migliorando l’export. Le trasformazioni attuali, penso a digitale e sostenibilità, sono epocali e servono manager preparati a gestirle. Noi abbiamo realizzato percorsi di formazione, certificando le persone all’interno di Federmanager per restituire al mercato professionisti certificati, spingendo sui profili più richiesti».

 

I dati però ci confermano che due imprese su tre non trovano le competenze manageriali di cui hanno bisogno e in futuro il disallineamento sarà ancora più accentuato. Come risolvere questo problema?
«È quello che chiamiamo “mismatch”, per cui due aziende su tre non trovano le competenze di cui hanno bisogno. Un problema che viene da molto lontano. Le aziende devono iniziare a investire nella formazione delle loro persone, investire nelle competenze che oggi non hanno, anche se molte volte può apparire contrario al business quotidiano. Per me le politiche attive del lavoro si fanno così: investendo nelle persone quando stanno lavorando, non dopo».

 

Lei sostiene da sempre che il nostro Paese non sfrutta abbastanza una risorsa importante come quella dei giovani. Giovani, tra l’altro con livelli di istruzione medio-alta, che poi alla fine vanno all’estero. Cosa possiamo fare per risolvere questo problema?
«È un problema che sta diventando sempre più pesante se pensiamo che dieci giovani su 100 vanno all’estero ogni anno, e soprattutto non rientrano. Calcolate le spese in istruzione, noi ci priviamo ogni anno di circa 15 miliardi di mancato ritorno sull’investimento di Stato e famiglie. Un grande spreco. Dovremo piuttosto rendere protagonisti i giovani e aiutarli nella loro crescita, avvicinarli al mondo aziendale, cosa che in Italia molte volte si era persa, perché non si può pensare esclusivamente al business, ma bisogna spiegare lo scopo e la mission dell’azienda. Molti giovani oggi scelgono le aziende a seconda della reputazione, dei valori aziendali. Guardano molto anche alle politiche organizzative adottate, per cui è chiaro che oltre a offrire loro retribuzioni migliori, va pensato un sistema di welfare migliore».

 

Oggi in Italia lavora solo una donna su due. A livello manageriale solo il 28% delle posizioni apicali è ricoperto da donne. Quali vantaggi avremmo con più donne al lavoro?
«Con le donne al lavoro noi avremmo un Pil superiore del 12%. Abbiamo anche imparato che laddove c’è una governance mista, l’azienda funziona meglio ed è in grado di reagire meglio a eventuali crisi. Bisogna però migliorare la condizione delle donne in azienda. Pensiamo che nel vecchio contratto nazionale della dirigenza la voce maternità era rubricata nel capitolo malattia e solo recentemente è stata cambiata. Quando una donna va in maternità non deve avere paura di perdere il posto di lavoro o di essere penalizzata nella carriera. Noi dovremmo incentivare un sistema premiante, anche fiscalmente favorevole, per le aziende che gestiscono in modo paritario la genitorialità. Per essere un Paese più civile e fare dei salti di qualità in tutte le direzioni dobbiamo lavorare a questi cambiamenti».

 

Quale impatto avrà l’Intelligenza artificiale sul sistema Italia. Le imprese italiane sono pronte? Come dovrebbero affrontare questa nuova sfida?
«Dobbiamo considerarla come un’opportunità. Come Federmanager siamo impegnati su questo fronte convinti che avrà un impatto fortissimo perché dovremo riconvertire tantissimi lavori. Il World Economic Forum avverte che, nei prossimi anni, il 44% dei lavoratori, nel mondo, dovrà cambiare le sue competenze. Di conseguenza dobbiamo investire in formazione e in fattori abilitanti. Lo dobbiamo fare da subito perché già in alcune piccole imprese siamo in ritardo, mentre le grandi aziende e quelle di Stato sono abbastanza avanti, perché godono di risorse, di centri studi, di centri di ricerca. È chiaro che qui dobbiamo intervenire e aiutarle sia culturalmente sia con la formazione».

 

 

Lei ha recentemente pubblicato un saggio dal titolo “Il buon lavoro. Benessere e cura delle persone nelle imprese italiane”. Che cos’è per lei il buon lavoro?
«Il libro l’ho scritto assieme alla collega Manuela Perrone. Per me il buon lavoro è un po’ la sintesi di quello che abbiamo detto finora, è una condizione essenziale della nostra convivenza sociale, qualcosa che ci dà senso, ci fa stare bene e ci fa progredire come Paese. Il lavoro è fondamentale ma il lavoratore deve anche essere apprezzato, deve poter accedere a un sistema di work/life balance, cioè deve riuscire a pensare anche alla sua vita personale. Ormai il lavoro è cambiato: la crisi pandemica, la crisi bellica e la crisi d’approvvigionamento hanno cambiato radicalmente la prospettiva. E oggi chi guida un’azienda deve capirlo se vuole ottenere un risultato».

 

In questo contesto che ruolo gioca il welfare contrattuale? E quello aziendale?
«Il welfare contrattuale è diventato uno dei punti fondamentali nelle relazioni industriali. Noi abbiamo un servizio sanitario eccezionale, che ci invidiano tutti, ma dobbiamo pensare in termini di sostenibilità all’apporto che viene dalla sanità integrativa. Oggi per un lavoratore avere una polizza sanitaria contrattuale significa tutelare sé stessi e il proprio nucleo familiare. Poter contare su una previdenza integrativa collegata al proprio rapporto di lavoro, significa avere una pensione maggiorata e noi ormai abbiamo le pensioni che sono ferme e da anni non crescono più».

 

Lei è anche presidente di Trenitalia. Qual è stato il suo contributo più significativo alla più importante azienda di trasporti passeggeri italiana?
«Io sono entrato in una azienda che è da anni leader del settore e mi sono focalizzato sui temi della sostenibilità, in senso ampio. Innanzitutto, per far capire che il treno è un mezzo di trasporto sostenibile, il più sostenibile. Stiamo cambiando la flotta introducendo nuovi treni con ridotte emissioni di Co2, la produzione di energia pulita è garantita dall’installazione di impianti fotovoltaici nelle nostre officine, ci impegniamo per l’efficienza idrica. Per me la sostenibilità è anche inclusione, intesa come uguaglianza. Un’azienda di trasporto come Trenitalia ha un rapporto importante con le persone; perciò, l’obiettivo è quello di investire nel nostro personale migliorando la relazione coi passeggeri. La nostra attenzione per il sociale passa, ad esempio, per progetti di reinserimento di detenuti o di miglioramento dei servizi per le persone disabili, tenendo conto che lo stesso ministero della Disabilità, con cui collaboriamo, ci conferma che il numero dei viaggiatori che necessitano di questo tipo di assistenza è in aumento. Chiaramente, la mia presidenza vuole dare un contributo al valore sociale di una grande azienda come Trenitalia, mettendo sempre al centro dell’azione la persona».