Analisi
Il sistema fiscale del governo Meloni è sempre più ingiusto
L’ultima legge delega allarga il divario tra chi è costretto a pagare tutto (i dipendenti) e chi no (gli altri). E il meccanismo del concordato non fa che peggiorare le cose
Ci sono pochi dubbi sul fatto che in Italia la base imponibile dell’imposta personale sui redditi (l’Irpef) sia stata a tal punto svuotata da compromettere l’effettiva progressività del prelievo. È appena il caso di ricordare che, già da diversi anni, circa l’85 per cento del reddito complessivo dichiarato è costituito da redditi da lavoro dipendente e pensioni. Inoltre, secondo i dati dell’ultima Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva del 2023, il gettito Irpef che manca all’appello – in percentuale del gettito teorico – è pari al 2,4 per cento per i redditi da lavoro dipendente e al 69,7 per cento per i redditi da lavoro autonomo e impresa (dati 2020).
Chi può, dunque, si sottrae alla progressività dell’Irpef, che attualmente prevede aliquote marginali crescenti (che per il 2024 sono al 23, 35 e 43 per cento). Fanno parte di questa platea, soprattutto, lavoratori autonomi e imprenditori individuali che possono optare per il regime forfetario con aliquota del 15 per cento. Ma ci sono anche proprietari di immobili locati che possono scegliere la cedolare secca con aliquote del 10 o del 21 per cento, percettori di dividendi, plusvalenze e interessi su obbligazioni private, tassati con aliquota del 26 per cento, nonché percettori di interessi su titoli di Stato, gravati da un’aliquota del 12,5 per cento; a cui si aggiungono anche casi di esenzione di fatto (i redditi figurativi dell’abitazione principale).
Si tratta, dunque, di un sistema di tassazione che, avvalendosi di discutibili argomentazioni economiche, giustifica il fatto che redditi dello stesso ammontare ma di diversa natura paghino imposte diverse, con buona pace del principio di equità orizzontale. Si aggiunga poi che quegli stessi redditi, in varia misura, contribuiscono a un livello di evasione che – per la sola Irpef – supera i 30 miliardi di euro, un ammontare di risorse che corrisponde a circa il 25 per cento del fabbisogno sanitario nazionale.
Non c’è da sperare che la legge delega sulla riforma del sistema fiscale, dell’agosto 2023, segni un cambiamento di passo. Da un lato, non vi si rintraccia alcuna intenzione di porre fine all’erosione della base imponibile Irpef, semmai si prova a estenderne la portata. Riguardo all’evasione, poi, le soluzioni proposte ampliano il divario tra contribuenti che non possono (o non vogliono) evadere e contribuenti che possono decidere quanto versare al fisco, senza conseguenze sulla fruizione di beni e servizi pubblici pagati da altri.
Tra queste soluzioni, la proposta di concordato preventivo biennale, di cui dovrebbero beneficiare i percettori di reddito d’impresa o di lavoro autonomo – che applicano gli indici sintetici di affidabilità (Isa) – e in via sperimentale anche i contribuenti in regime forfetario, si presenta come ulteriore fattore di disgregazione dell’equità del prelievo. Nel caso specifico, infatti, si prevede che il pagamento delle imposte avvenga non in base agli effettivi redditi, bensì in base a quanto definito da una proposta del fisco (il reddito “concordato”). Un meccanismo che, per definizione, corrisponde all’applicazione di un’aliquota marginale zero sull’eventuale eccedenza di reddito rispetto al livello concordato, che quindi non sarebbe più classificabile come evasione. Ma non basta: affinché le categorie interessate siano “invogliate” a fare il proprio dovere, più di recente (d.lgs. 108/2024, art. 4) si è previsto che nel caso in cui il reddito “concordato” sia superiore a quanto dichiarato nell’anno precedente all’accordo, all’eccedenza possa essere applicata un’aliquota compresa tra il 10 e il 15 per cento, anziché le aliquote marginali Irpef. Si tratta di rimedi che ben si conformano alla visione del sistema tributario che si va delineando da molti anni: mentre per alcuni pagare le imposte è un dovere, per altri è una facoltà che possono esercitare in base alle loro convenienze.
Appare dunque difficile comprendere come un Paese che afferma di avere risorse scarse per sanità, scuola, università, contrasto alla povertà e altre spese sociali possa consentire a una parte ormai consistente di contribuenti di sottrarsi al prelievo o godere di generosi sconti fiscali, e allo stesso tempo di gravare su dipendenti e pensionati per il finanziamento di beni e servizi pubblici dei quali anche gli evasori godono nella stessa misura.
Ma in fondo tutto ciò è solo il riflesso di quel che accade a livello internazionale, dove si dibatte di giustizia fiscale, di crescita delle disuguaglianze e di concentrazione della ricchezza, mentre da decenni si perseguono politiche economiche volte a comprimere il ruolo dello Stato nell’economia, a neutralizzarne il potere di regolazione, a indebolire il potere di contrattazione dei lavoratori, a non ostacolare la proliferazione di speculazioni finanziarie, a non contrastare – se non a favorire – il potere economico e politico delle società multinazionali. Un contesto in cui spesa pubblica e tassazione sono divenute solo un male necessario, da limitare, e non la via per garantire diritti sociali e uguaglianza di opportunità. Se sarà ancora questa narrazione a prevalere, è ragionevole attendersi che anche la prossima Nota di aggiornamento del documento di Economia e Finanza (Nadef) – da presentarsi alle Camere entro il 27 settembre e sulla base della quale l’esecutivo dovrà approntare la legge di bilancio per il 2025 – non modificherà l’attuale modello di governo della finanza pubblica.
Poalo Liberati è professore di Scienza delle Finanze Università Roma Tre